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Il magistrato e le bolle di sapone

di Gianni Barbacetto e Giuliano Colonna

Henry John Woodcock, il pubblico ministero che a Potenza ha fatto scoppiare il Savoiagate, ha fama di condurre indagini zeppe di vip che però non reggono al vaglio dei processi. È vero? Ecco tutte le sue inchieste e come sono andate davvero a finire

 

Francesco Storace
Anna La Rosa
Antonio Marzano
Maurizio Gasparri
Luciano Gaucci
Umberto Vattani

 

NON ANDAVANO PER IL SOTTILE.

È scoppiato il Savoiagate. Ma gli affari di Vittorio Emanuele chiamano in causa anche An, per il coinvolgimento, secondo l'accusa, del portavoce di Gianfranco Fini, Salvo Sottile (a sinistra) e del suo segretario, Francesco Proietti Cosimi (a destra). Ma già sotto accusa sono le intercettazioni, il loro «abuso», la «bulimia» dei magistrati. Primo fra tutti Henry John Woodcock, che ha condotto le indagini e chiesto gli arresti.

«In un Paese normale avrebbe già cambiato mestiere», ha sentenziato Gianfranco Fini. «È un pazzo», aveva sintetizzato Maurizio Gasparri. «Fa le indagini con la Guida Monaci», ripetono i suoi detrattori: accusandolo di voler fare a ogni costo il castiga-vip. Lui, Henry John Woodcock, magistrato alla procura di Potenza, non risponde. Per avergli dato del pazzo, l'ex ministro Gasparri è stato rinviato a giudizio per diffamazione aggravata. Quanto alla Guida Monaci, i sostenitori ribattono: è colpa sua se, in questo Paese, dovunque indaghi con serietà, perfino a partire dalla ultraperiferica Potenza, finisci per incappare in una folla di politici, portaborse, faccendieri, giornalisti di grido, uomini della tv, soubrettes, ambasciatori, teste coronate e cotonate? In un Paese normale, del resto, dopo l'esplosione di uno scandalo come il Savoiagate ci sarebbe stata un'epidemia di dimissioni, a prescindere dalla rilevanza penale delle accuse. In Italia, invece, c'è stata solo l'epidemia di proteste anti-intercettazioni.  

A proposito: ecco un altro cavallo di battaglia della nutrita pattuglia dei nemici di Woodcock (da Francesco Cossiga a Bruno Vespa, da Ignazio La Russa a Vittorio Feltri): il magistrato di Potenza offrirebbe tutt'al più materiale per la sociologia e per la storia del costume, ma con ben scarsi esiti giudiziari. Ma è vero? Le sue indagini sono davvero una serie di fallimenti?

L'ultima inchiesta, che ruota attorno al gruppo di Vittorio Emanuele di Savoia, di reati ne almanacca un'intera collezione: corruzione, concussione, truffa, falso ideologico, istigazione alla corruzione, riciclaggio, minacce, favoreggiamento, associazione a delinquere, sfruttamento della prostituzione... Con tangenti pagate per ottenere licenze di videopoker. Con la Rai ridotta a un set del Grande Bordello e Porta a porta «confenzionata su misura» (come ammette Vespa) dei politici ospiti. Con un partito, An, erede di un movimento fascista ma dalle mani pulite, che si credeva «diverso» e si scopre ormai assimilato (dopo l'estate dei Furbetti rossi, sta arrivando l'estate dei Furbetti neri). Con una P2 di riciclo (di quella classica, Vittorio Emanuele aveva la tessera 1621) che vende titoli nobiliari fasulli e minaccia di morte il direttore di Novella 2000 che aveva rivelato il trucco. Ma anche con inquietanti squarci sul mondo degli spioni: con poliziotti, carabinieri, uomini dei servizi segreti che tradiscono la Repubblica mettendosi al servizio di un re senza regno ma con ottimi affari. Truffe da film, personaggi vicini alla mafia, un maresciallo del Sisde che ricatta il suo capo, un sedicente «agente Polifemo», Massimo Pizza, capo di un fantomatico «ufficio K» del Sismi (quello da cui partivano, anni fa, le rivendicazioni della Falange armata). E quell'Achille De Luca, faccendiere e uomo dai mille business: tra questi, il documentario, di cui era produttore, che stavano girando a Nassiriya nel momento della strage di italiani.

Come finirà il Savoiagate lo sapremo solo tra qualche anno. Tra qualche settimana, intanto, sapremo se il governo di centrosinistra riuscirà a fare ciò che non era riuscito a Berlusconi: limitare le intercettazioni telefoniche giudiziarie (mentre delle migliaia di intercettazioni illegali degli spioni e delle agenzie private che si fanno in questo Paese nessun politico si occupa). Già ora sappiamo invece come sono andate le inchieste precedenti di Henry John Woodcock, il magistrato con la Yamaha 500: non proprio in nulla, come dicono i suoi tanti critici.  

NON SOLO VIP. Non solo vip. Madre napoletana, padre inglese che gli ha lasciato il cognome su cui ironizzano grevemente Cossiga e Feltri, Henry John arriva alla procura Potenza nel 1999. Dopo poche settimane, fa arrestare il potente dirigente della cancelleria del tribunale fallimentare, Mario Campana, che aveva trasformato il suo ufficio in un'agenzia immobiliare: vendeva le case e i beni dei fallimenti come fossero roba sua. Confessa, patteggia 20 mesi di carcere per concussione e falso, risarcisce 25 mila euro allo Stato: la prima indagine è un successo.    

Poi tocca a una banca. Nel 200o mette sotto inchiesta la Banca mediterranea di Potenza, gruppo Banca di Roma. Secondo il magistrato, gli amministratori avevano concesso finanziamenti facili, poi diventati crediti impossibili, ad alcuni clienti privilegiati, fra cui un'azienda di costruzioni napoletana che allora si diceva vicina a Paolo Cirino Pomicino, la Icla (già coinvolta nelle indagini sulle infiltrazioni della Camorra nell'Alta velocità Roma-Napoli e nella ricostruzione del dopo terremoto in Campania). L'ipotesi di reato, falso in bilancio, viene cancellata dalla nuova legge sulla materia voluta da Berlusconi. Woodcock non demorde: nel maggio 2005 ricorre alla Corte costituzionale, sollevando una questione di legittimità. È in attesa della decisione della Corte.

Chi sostiene che il magistrato inquisisca solo vip per farsi pubblicità ignora una parte cospicua della sua attività, quella quotidiana. Sempre nel 2000, per esempio, apre un'inchiesta sul liceo Fermi di Potenza: i dirigenti della scuola, per impedire la chiusura dell'istituto, avevano mantenuto in vita una classe fantasma falsificando i registri e addirittura i compiti in classe. Due anni dopo, quattro imputati patteggiano pene varianti tra gli 8 e i 19 mesi di carcere per associazione a delinquere e falso, mentre altri dodici sono stati rinviati a giudizio. Nel 2002 incappa nelle patenti facili: arrivavano da tutta Italia per prendere a Potenza la licenza di guida, previa mazzetta (3 milioni e mezzo di lire) ai funzionari della Motorizzazione. Quando le Iene raccontano il caso in tv, Woodcock ha già scoperchiato la pentola della corruzione. Oggi è in corso il processo, ma il funzionario che chiudeva un paio d'occhi sulle revisioni di automezzi pesanti ha già chiuso patteggiando una pena di 1 anno e 8 mesi e restituendo il denaro che aveva intascato per attestare controlli di autoveicoli mai avvenuti.

Non solo vip e non solo reati contro la pubblica amministrazione. Woodcock si occupa, quando capitano, anche di omicidi. Nel 2000 sostiene l'accusa nel processo per l'omicidio di un'insegnante di 56 anni, ottenendo dalla Corte d'assise di Potenza la condanna dei due responsabili a 21 e 18 anni. Nel febbraio 2002 ottiene la condanna (16 anni di carcere, ne aveva chiesti 12) per due persone, fratello e sorella, che avevano provocato la morte di un uomo di 67 anni. Chi poi volesse far indossare a Woodcock la toga rossa, sostenendo che inquisisce solo politici del centrodestra, sarebbe smentito dai fatti. Nel 2001 fa arrestare un ex senatore dei Ds, Rocco Loreto, diventato sindaco di Castellaneta in provincia di Taranto. Loreto è accusato di calunnia e violenza privata perché, quando era senatore, aveva secondo l'accusa convinto un imprenditore a rivolgere false accuse a un magistrato locale. Il processo si è interrotto per decisione del Senato. E Woodcock ha sollevato davanti alla Corte costituzionale il conflitto d'attribuzione tra organo parlamentare e organo giurisdizionale, sostenendo che è difficile ritenere che calunnie e minacce facciano parte dell'attività insindacabile dei senatori.

Altrettanto deluso resterebbe chi volesse sostenere che Woodcock si ferma davanti alla corporazione di cui fa parte. Nell'ottobre 2000 ottiene l'arresto del presidente della commissione tributaria provinciale, Emanuele Casamassima, già magistrato di Cassazione, accusato di falsità in scrittura privata. Quanto agli avvocati, Woodcock ne ha fatti condannare un paio molto potenti. A 1 anno e 4 mesi in appello, per bancarotta fraudolenta, Francesca Sassano, per la vicenda del fallimento della società italo-cinese Orop, che in 19 anni aveva succhiato oltre 10 miliardi di lire di contributi pubblici senza avviare alcuna attività. A 16 mesi un altro civilista lucano, accusato di aver intascato 2 milioni di lire da un cliente con la falsa promessa di usarli come tangente per riottenere la casa pignorata.

Ma è l'inchiesta Inail, nel maggio 2002, a far scoppiare il caso Woodcock. L'indagine segue le tracce delle tangenti pagate a dirigenti dell'Istituto nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, in cambio di appalti. Finiscono in carcere 14 persone, sei agli arresti domiciliari. Un'inchiesta iniziata per caso, indagando sul direttore del personale di un'impresa, il gruppo De Sio, che pagava un dipendente con cifre inferiori a quelle indicate nella busta paga. Il magistrato scopre i fondi neri che la De Sio utilizzava per il pagamento di mazzette all'Inail, ma anche all'Eni-Agip, interessata allo sfruttamento del petrolio lucano. Il filone petrolifero frutterà il 16 settembre 2002 altri 17 arresti, tra cui quello del dirigente Eni Carlo Femiani, accusato di aver chiesto una tangente di 150 milioni di lire.

Woodcock ipotizza un reato associativo che coinvolge quello che ritiene essere un composito comitato d'affari. Composto dai quattro fratelli De Sio, dall'imprenditore napoletano Bruno Capaldo, dal banchiere Claudio Calza, dai deputati Angelo Sanza (Forza Italia) e Antonio Luongo (Ds) e dal vicepresidente della Giunta regionale della Basilicata, Vito De Filippo (Ppi-Margherita). Tra gli indagati ci sono anche uomini della Guardia di finanza. Il gruppo, secondo l'accusa, funziona così: Calza il banchiere procura agli imprenditori De Sio il denaro per le mazzette; l'onorevole Sanza sfrutta a vantaggio dei De Sio conoscenze e informazioni in suo possesso; De Filippo e l'onorevole Luongo fanno pressioni, in particolare su dirigenti di Eni-Agip, per favorire il gruppo De Sio. Una tangente di 780 milioni di lire è pagata, secondo l'accusa, a tre dirigenti romani dell'Inail perché scelgano una certa offerta per la nuova sede dell'ente ad Avellino. La tangente, secondo l'accusa, è consegnata a Roma dai fratelli De Sio a Mauro Gobbi, Antonio Marra e Vittorio Raimondo attraverso tre intermediari, Emidio Luciani, Enrico Fede e Bruno Luongo.

Tra gli arrestati c'è anche il generale dei carabinieri Stefano Orlando, già responsabile della sicurezza di Francesco Cossiga, accusato di aver rivelato a Calza notizie sulle indagini in corso. Questo arresto fa andare su tutte le furie l'ex presidente della Repubblica: Cossiga ironizza sul pubblico ministero Woodcock, insulta la giudice per le indagini preliminari Gerardina Romaniello (la definisce adatta al ruolo di presentatrice televisiva), sbeffeggia il capo della procura potentina Giuseppe Galante («Uno che fa un lavoretto da azzeccagarbugli»). Intanto arrivano però le prime conferme. I De Sio ammettono: «Pagavamo tutti i partiti, senza distinzioni, e spendevamo 50, 60 milioni ogni campagna elettorale. Soltanto uno del Ppi ci ha restituito i soldi, ma solo dopo quattro anni». Il commercialista romano Bruno Cavaterra rivela: «L' imprenditore che si aggiudicava un appalto dell'Inail doveva effettuare un deposito fiduciario di assegni presso un notaio, a garanzia del futuro pagamento della tangente». Il 13 giugno 2002 il tribunale del riesame conferma la validità dell'inchiesta e la tesi di fondo dell'intreccio delinquenziale tra affaristi e politici, mantenendo agli arresti 13 indagati e rimettendone in libertà solo sei, tra i quali il generale Orlando e il vicepresidente della Giunta regionale De Filippo, comunque interdetto per due mesi dai pubblici uffici.  

L'inchiesta prosegue, il 2 luglio, con l'arresto a Roma del direttore generale dell'Inail, Alberigo Ricciotti, portato in carcere insime, di nuovo, a Emidio Luciani, a suo figlio Lorenzo e all'imprenditore Spartaco Sparaco: tutti beneficiari, grazie a generose mazzette, di appalti dell'ente. A Roma, Milano, Ancona, Verona, Francavilla e Potenza, sono sequestrate sei società intestate a Sparaco e Lorenzo Luciani e titoli per oltre 632 mila euro, considerati provento delle mazzette. Bloccato anche un conto corrente. Intestatario: Vittorio Raimondo, presidente del collegio sindacale dell'Inail di Roma. Tre giorni dopo Emidio Luciani ammette di aver pagato mazzette per diversi miliardi di lire a Vittorio Raimondo. Il 7 agosto lo stesso Luciani ed Enrico Fede patteggiano una pena rispettivamente di 20 e 8 mesi di carcere, restituendo all'Inail delle belle somme: Luciani 250 mila euro, Fede 25 mila. A soli 14 mesi dall'inizio delle indagini e a due dai primi arresti, questi patteggiamenti sono stati definiti «miracolosi»: per un giudice che «dovrebbe cambiare mestiere» non c'è male.

Ma le polemiche erano intanto arrivate al parossismo perché, indagine dopo indagine, intercettazione dopo intercettazione, l'inchiesta era cresciuta fino a diventare un grande romanzaccio che mette in mostra il retrobottega della Seconda Repubblica. Erano entrati nelle sue pagine anche Franco Marini e il braccio destro di Massimo D'Alema, Nicola Latorre, indagati per favoreggiamento perché avrebbero avvertito il patron del Perugia calcio Luciano Gaucci di essere intercettato. Ernesto Marzano, accusato di vendere le nomine di competenza del fratello, l'allora ministro Antonio Marzano. Francesco Storace, presidente della Regione Lazio, che interviene sul presidente dell'Iacp per far avere un appartamento a una camerata, ex assessora di An alla Provincia. Maurizio Gasparri, sospettato di aver informato un imprenditore di essere sotto controllo. Il diplomatico Umberto Vattani, accusato di aver favorito imprenditori amici per appalti e per una fornitura di gas tunisino. E poi Tony Renis che cerca di sponsorizzare un imprenditore presso il ministro Giulio Tremonti. Anna La Rosa, che riceve in regalo un orologio tempestato di brillanti dal re delle cliniche che poi ospita nel suo programma tv (quel Giampaolo Angelucci, trasversale editore di Libero e Il Riformista arrestato per altre vicende il 20 giugno 2006). E Flavio Briatore...

Troppo. Non per l'overdose di malcostume, ma per l'affollamento di personaggi noti e potenti, non cercati, ma finiti uno dopo l'altro nella rete. Così la voce delle proteste supera quella del disgusto. Il 9 gennaio 2004 arriva la decisione della Cassazione: dovrà essere la procura di Roma a proseguire l'inchiesta sugli indagati della «holding del malaffare» che sono diventati, intanto, 76. L'inchiesta viene divisa, qualche pezzo si perde per strada, si sparge la voce che tutto è finito in nulla, che le indagini di Woodcock scoppiano come bolle di sapone. Non è vero. Gasparri e Marzano sono prosciolti dal tribunale dei ministri. Prosciolti Angelo Sanza e Vito De Filippo, diventato nel frattempo presidente del Consiglio regionale della Basilicata. Prosciolto dall'accusa di associazione a delinquere anche il deputato Ds Antonio Luongo, il banchiere romano Claudio Calza e dall'accusa di corruzione il dirigente dell'Eni-Agip Carlo Femiani.

Ma il generale Orlando è scarcerato solo per il venir meno delle esigenze cautelari, con conferma da parte del tribunale del riesame che esistono gravi indizi di colpevalezza. E gli imprenditori sono rinviati a giudizio: per associazione a delinquere, corruzione e rivelazione di segreto d'ufficio. Con loro un ufficiale delle Fiamme gialle (accusato di aver evitato controlli ai De Sio in cambio di un fuoristrada) e un paio di sottufficiali (che avrebbero rivelato agli imprenditori notizie sull'inchiesta). Il processo è in corso. Intanto Vattani è rinviato a giudizio a Roma. Anna La Rosa incassa un'archiviazione dell'accusa di corruzione per l'orologio di brillanti, ma gli stessi pm che gliela concedono chiedono che gli atti siano trasmessi alla Rai e all'Ordine dei giornalisti perché valutino la posizione deontologica e professionale della giornalista di Telecamere. E tanti altri restano sub judice in vari tribunali d'Italia.

A essere smentito non è Woodcock, ma Vittorio Feltri, condannato a Monza il 13 febbraio 2005 per aver diffamato il magistrato con un articolo apparso su Libero il 2 giugno 2002.

LA CUPOLA DI POTENZA. Il 22 novembre 2004 Woodcock porta a compimento un'altra maxinchiesta: quella sul clan mafioso dei Martorano, la cosca che domina la vita economica della città e condiziona i politici locali. A destare clamore, questa volta, è la richiesta d'arresto per il deputato di Forza Italia Gianfranco Blasi, accusato di aver stretto un «patto di alleanza» con il clan diretto da Renato Martorano e Giovanni Quaratino, un'organizzazione criminale legata alle cosche calabresi e a quelle campane. Il clan Martorano ha costruito una rete di rapporti tra imprenditori di cui regola criminosamente l'attività, spartendo tra i membri del sodalizio appalti e affari. Il deputato lucano avrebbe ricevuto sostegno elettorale, in cambio di appoggio nelle gare alle quali partecipavano imprese controllate dal clan mafioso. Blasi, secondo Woodcock, avrebbe anche incontrato il boss Martorano e gli imprenditori legati al clan per «programmare» parte della sua attività in favore delle imprese «amiche» e il 2 settembre 2000, quando è ancora consigliere regionale della Basilicata, partecipa alla festa di matrimonio della figlia di Pio Albano, ritenuto elemento di spicco del clan Martorano.

Scattano le manette per 51 persone. Nell'ordinanza di custodia compaiono i nomi di due deputati lucani: ancora Antonio Luongo (Ds) e Antonio Potenza (Popolari-Udeur). «Legato» al clan il primo, beneficato dai voti fatti confluire sul suo nome il secondo. Fra gli arrestati, il presidente della Camera penale di Basilicata, l'avvocato Piervito Bardi, accusato di aver fornito informazioni riservate a Martorano, pur non essendo suo difensore. Tra gli indagati Antonino Garramone, consigliere comunale di Forza Italia e imprenditore che avrebbe pagato tangenti e procacciato assunzioni di amici e «clientes» all'ombra del clan Martorano, ma anche il presidente della Giunta regionale Filippo Bubbico (Ds) e del Consiglio regionale della Basilicata, De Filippo (Margherita), il sindaco di Potenza e l'assessore regionale alle Attività produttive. Nel dicembre 2004 il tribunale del riesame ridimensiona la parte politica dell'inchiesta e scarcera, tra gli altri, l'avvocato Bardi, tornato in libertà in tempo per diventare il difensore di Vittorio Emanuele. È il primo vero stop all'attività di Woodcock. Subito colto dall'allora ministro della Giustizia Roberto Castelli che invia i suoi ispettori a Potenza. Tuttavia il riesame, nelle sue motivazioni, riconosce i «gravi indizi di reità in ordine ai delitti scopo dell'associazione mafiosa», segnalando come «ampiamente delineato il clima di intimidazione e terrore del quale sono vittime le persone offese». Sarebbe una sconfitta fisiologica, per un pm che si occupasse di ladri di polli. Non per il magistrato che ha ormai addosso troppi occhi. Oggi più che mai.

Diario, 23 giugno 2006

L'ombra del Savoia su Telekom Serbia
Gian Nicolino Narducci, segretario di Vittorio Emanuele
e console di Milosevic

La sua qualifica era quella di segretario personale di Vittorio Emanuele di Savoia. Ma Gian Nicolino Narducci, ora agli arresti insieme al suo datore di lavoro, ha avuto un ruolo anche nella vicenda Telekom Serbia. Se lo ricorda bene Giulio Manfredi, del comitato nazionale Radicali italiani, che a quello scandalo dedicò un libro edito da Stampa alternativa, con postfazione di Marco Pannella (Telekom Serbia: Presidente Ciampi, nulla da dichiarare? Diario ragionato del «caso» dal 1994 al 2003).

«Lo scrivo nella prima pagina del mio libro: Gian Nicolino Narducci nel 1994 era console della Repubblica di Serbia e Montenegro, cioè del regime di Milosevic», dice oggi Manfredi. Proprio come console di Milosevic, il 22 novembre 1994 Narducci scrisse una lettera all'allora sindaco di Torino, Valentino Castellani, su carta intestata «Casa di Sua Altezza Reale Sergio di Yugoslavia». La missiva diceva: «Porto a Sua conoscenza che nei giorni 28-29 corrente mese sarà presente nella nostra città (Torino, ndr), una delegazione governativa della Federazione delle Repubbliche jugoslave. Oltre alla visita già programmata agli stabilimenti Fiat con incontro con le massime cariche della stessa, chiedo alla Sua cortesia la possibilità di incontro di benvenuto, con tale delegazione, nel giorno 29 corrente mese, possibilmente in mattinata...».

I radicali erano in quelle settimane molto attivi nel denunciare il regime di Milosevic. «Mi attivai con l'allora consigliere comunale radicale Carmelo Palma», ricorda Manfredi, «per impedire che il sindaco di Torino ricevesse una delegazione ufficiale di un regime che stava proprio in quei giorni compiendo l'ennesimo massacro in Bosnia, grazie ai suoi fiduciari Mladic e Karadzic». Non solo: i radicali manifestarono in piazza, con lo slogan «Con chi fanno affari i serbi?», ricordando ai distratti che nei confronti della Repubblica federale di Serbia e Montenegro era in vigore un embargo economico dell'Onu   che proibiva qualsiasi rapporto commerciale con Milosevic. Risultato: il sindaco di Torino rinunciò a incontrare la delegazione. Ma altri incontri avvennero.

Sette anni dopo scoppia l'affaire Telekom Serbia: nel migliore dei casi, una brutta storia a base di soldi buttati per finanziare Milosevic facendo comprare da Telecom Italia una quota della compagnia dei telefoni serbi; nel peggiore dei casi, una vicenda in cui girarono anche robuste tangenti. A questo si aggiunse poi il tentativo di intossicare la vita politica italiana con falsi dossier e personaggi pittoreschi (come Igor Marini) mandati a gettar fango e calunnie su Lamberto Dini («Ranocchio»), Piero Fassino («Cicogna»), Romano Prodi («Mortadella»).

«Allora», ricorda Manfredi, «mi chiesi se la visita dei serbi fosse servita a gettare le basi dell'affare (la sede di Telecom Italia era a Torino) e posi il mio interrogativo sia alla procura di Torino, sia alla commissione parlamentare d'inchiesta su Telekom Serbia; quando fui chiamato da entrambe, consegnai copia della lettera del signor Narducci». Oggi il suo arresto potrebbe riaprire il caso.

 

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