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Lo stato della tv in Italia

Sei reti, tanti soldi, un solo padrone.
Lo strano caso della 7, strangolata in culla


   



Giuliano Ferrara
Fabio Fazio
Gad Lerner

LA TV ALL’ITALIANA

La tv in Italia è un oggetto particolare. È un giocattolo strano. Diverso dal resto del mondo, dove pure è molto diffuso, amato, contestato. In Italia è segnato da alcuni record o (dipende da dove lo si guarda) anomalie.
Primo record (o anomalia). I canali televisivi italiani sono tanti, tantissimi: 640, secondo la Frt, cioè l’associazione delle imprese radio-televisive. Tanti quanti sono i canali che operano (ma con risorse ben maggiori) in tutti gli Stati Uniti. Pensate: nel mondo i canali «terrestri» via etere sono circa 2.500; dunque l’Italia, da sola, ospita più di un quinto delle tv mondiali. Tante televisioni coinvolgono un mare di addetti: 10 mila sono i dipendenti delle tv private; altrettanti, anzi un po’ di più, sono quelli della Rai; altre 20 mila persone lavorano nel settore pubblicitario. Con l’indotto, insomma, in Italia almeno 50 mila persone vivono di televisione.
Secondo record (o anomalia). La tv assorbe gran parte delle risorse pubblicitarie , togliendole alla carta stampata, a quotidiani e periodici, e agli altri mezzi, le affissioni, la radio, il cinema... In Italia finisce in spot più della metà degli investimenti pubblicitari (per la precisione: il 57 per cento), contro il 23 per cento della Germania, il 33,5 della Gran Bretagna, il 34,5 della Francia, il 38 degli Stati Uniti, il 41 della Spagna (fonte Zenith Media-The Economist). La tv italiana trasmette un milione di spot all’anno. Un numero immenso, paragonato con la situazione all’estero, ma con una spiegazione facile facile: in Italia la tv commerciale (quella inventata da Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri) per farsi spazio nel mercato, un tempo monopolizzato dalla Rai, ha abbassato il livello d’ingresso vendendo gli spazi televisivi ai prezzi più bassi del mondo, con sconti da venditori di tappeti. Naturalmente per rifarsi ha dovuto moltiplicare il numero degli spot, che sono diventati non solo i più a buon mercato, ma anche i più numerosi del mondo. È così che, nel suk televisivo italiano, ogni anno vengono raccolti molti miliardi: ben 7.600 nel 2001. La grande vitalità, il grande pluralismo che parrebbero garantiti dai primi due record sono però annullati da una constatazione e dal terzo record. La constatazione è che tanta tv generalista gratis blocca in Italia (a differenza che nel resto del mondo industrializzato) lo sviluppo tecnologico, le reti tematiche, i satelliti, la pay-tv, la tv-on-demand...

Il terzo record (o anomalia)
è che la proprietà delle imprese televisive in Italia è molto, molto concentrata: tre canali televisivi privati sono nelle mani di un unico imprenditore, e sono quelli che raccolgono circa la metà degli ascolti delle tv italiane e più di due terzi (oltre 5 mila miliardi) degli investimenti pubblicitari delle aziende. L’altra metà degli ascolti e quel che resta dei soldi degli spot (più di 2 mila miliardi) sono raccolti da altri tre canali, controllati dai partiti politici. L’imprenditore privato che possiede le tre tv è, naturalmente, Silvio Berlusconi. I tre canali controllati dai partiti sono, naturalmente, quelli Rai. Risultato: i canali saranno anche tantissimi, ma solo sei, i tre Mediaset e i tre Rai, fanno il mercato. È da molti anni, in verità, che la situazione televisiva italiana è, dal punto di vista politico, una allegra lottizzazione (con maggioranza e opposizione che si dividono le reti pubbliche) e, dal punto di vista del mercato, un sostanziale duopolio (con Fininvest e Rai che si spartiscono le risorse). Chi avesse bisogno di una ulteriore conferma, può andare a spulciare le carte del processo «Toghe sporche», quello in cui sono imputati a Milano, tra gli altri, Silvio Berlusconi, l’avvocato Cesare Previti e il giudice Renato Squillante. Come testimone, è comparso in aula Enrico Manca, parlamentare del Psi e dal 1986 al 1992 presidente della Rai. Ha ammesso di aver avuto, fino al 1996, un ricco conto in Svizzera. Acceso e gestito indovinate da chi? Ma da Cesare Previti: dunque Previti, avvocato della Fininvest, ha acceso e gestito per anni un tesoretto in Svizzera al presidente della Rai. Proprio in anni in cui la Rai, dopo una dura competizione di mercato con le reti di Berlusconi, decideva di abbassare il livello dello scontro e di ammorbidire la concorrenza con la Fininvest. La tv pubblica (vale a dire: dei partiti) firmava di fatto una sorta di armistizio con la concorrente tv privata di Berlusconi, istituzionalizzando il duopolio Rai-Fininvest e ponendo le basi per il varo della legge Mammì.
Ora che Berlusconi, vinte le elezioni, ha conquistato il controllo anche della Rai, il popolo dei girotondi ha circondato le sedi della tv pubblica per rendere visibile le preoccupazioni di molti sulle sorti del pluralismo dell’informazione. La paura è che da un duopolio si stia per passare a un monopolio; dalla spartizione delle reti pubbliche tra maggioranza e opposizione si stia per arrivare a una totale occupazione della tv da parte di Berlusconi e dei suoi alleati.

Gli italiani amano la tv. Sono pronti a protestare
(erano gli anni Ottanta) contro i pretori che oscurando le reti Fininvest toglievano i Puffi ai loro bambini. E a votare contro il referendum (erano gli anni Novanta) che attaccava il sistema del Biscione. Sono grandi ascoltatori televisivi, superati (di poco) solo dagli inglesi. Il 98 per cento degli italiani guarda la tv, rivela il primo «Rapporto annuale sulla comunicazione in Italia» appena sfornato dal Censis. Certo, negli ultimi tempi l’affezione alla tv degli italiani è calata. Sono diminuiti gli ascolti. Ma soprattutto sono scesi gli investimenti pubblicitari, cioè i soldi che fanno vivere il grande circo: nel 2001, meno 4 per cento rispetto all’anno precedente. La tendenza è mondiale: gli investimenti sono calati del 5 per cento in Germania, del 3 in Francia, del 7 negli Stati Uniti...
In Italia, Paese dei record e delle anomalie, sono però calati in modo strano: molto nelle reti Rai, poco o per niente in quelle Mediaset. Telecom, meno 17 per cento; Nestlè, meno 11; Kraft, meno 8; Fiat, meno 4: una grande fuga dei principali investitori pubblicitari (i «big spender») dalla tv pubblica. Nel 2001, Telecom toglie alla Rai ben 77,5 miliardi di lire, 20 la Nestlè, 9 la Fiat. Effetto della crisi, della generale frenata degli investimenti pubblicitari, della recessione, dell’11 settembre, del ridimensionamento della new economy? Sì, ma alle reti Mediaset Telecom toglie soltanto 40 miliardi. La Fiat, addirittura, aumenta il budget per le reti di Berlusconi: 7 miliardi in più. Così Nestlè: 5 in più. Enel ha dato il 70 per cento del proprio budget a Mediaset e solo il 30 alla Rai. Unilever ha investito 154 miliardi sulle reti di Berlusconi, 61 su quelle Rai... Ecco un bell’esempio di conflitto d’interessi: gli imprenditori italiani e le multinazionali attive in Italia, dovendo scegliere, finiscono per privilegiare le tv del presidente del Consiglio. E non sarà certo un’Authority a far cambiare la musica.

IL NANO CHE VOLEVA CRESCERE

C’è un’altra storia recente che spiega molto di quello strano oggetto che è la tv italiana. La storia della nascita e della morte in culla di La 7, la tv dei nani. Tutto parte con l’alleanza tra Roberto Colaninno, numero uno di Telecom, e Lorenzo Pellicioli, presidente di Seat-Pagine gialle. Pellicioli, che sogna di varare il terzo polo televisivo in Italia, nell’agosto 2000 compra da Vittorio Cecchi Gori Telemontecarlo, una rete che perdeva dai 70 ai 100 miliardi all’anno per fare ascolti dell’1, del 2, del 3 per cento. Con Mtv porta a casa due reti, un buon punto di partenza per un futuro in cui anche Rai e Mediaset potrebbero essere costrette a gestire solo due reti a testa.
Telemontecarlo si trasforma in La 7, si dà come simbolo un nanetto, ma non nasconde le ambizioni di sfidare i due giganti. Chiama Mario Brugola a capo della concessionaria che raccoglie la pubblicità, Roberto Giovalli a dirigere la rete, Ernesto Mauri come amministratore delegato, Fabio Fazio a inventare un programma («Fab Show») che in seconda serata faccia aperta concorrenza a Maurizio Costanzo e a Bruno Vespa. Luciana Littizzetto è pronta a inventarsi un meteo da non far rimpiangere il colonnello Bernacca. Gad Lerner è l’uomo dell’informazione. Colaninno e Pellicioli però compiono un errore fatale: invece di partire subito con la nuova rete, di buttarla nella campagna elettorale, di mettere tutti davanti al fatto compiuto, vanno al rallentatore, perdono mesi preziosi nel corteggiamento di Enrico Mentana, a cui chiedono (inutilmente) di dirigere il tg. Sarebbe stato almeno più difficile uccidere la 7 già decollata. Invece Pellicioli resta solo a sognare, Colaninno si raffredda e temporeggia: forse si rende conto che, dopo aver realizzato il suo capolavoro e vinta la scalata a Telecom, nel momento in cui ha comprato Telemontecarlo ha firmato la sua condanna. In Italia, chi tocca la tv muore.

Sta di fatto che la Pirelli di Marco Tronchetti Provera
conquista la Telecom, restata orfana di quella che voci maligne, ai tempi del governo di Massimo D’Alema, avevano chiamato «la merchant bank di Palazzo Chigi». E l’11 settembre 2001, insieme alla Torri gemelle di New York, crolla anche l’ultimo sogno del terzo polo: Colaninno torna a Mantova, Pellicioli si dimette. Arriva Enrico Bondi, nuovo amministratore delegato di Telecom, e dice che i conti non tornano. Il progetto della 7 è troppo costoso e ancor più rischioso: mille miliardi in un paio d’anni, per cercare di arrivare tutt’al più al 5, forse al 7 per cento di share. E, per di più, remando contro il nuovo padrone della politica, Silvio Berlusconi, che ha vinto le elezioni e si è insediato a Palazzo Chigi.
Il nano che sognava di diventare gigante dava due volte fastidio a Berlusconi: dal punto di vista politico, perché aveva promesso di fare «tv di sinistra», tv d’opposizione; e dal punto di vista del mercato, perché avrebbe sottratto risorse alle reti Mediaset (Brugola aveva già messo insieme 250 inserzionisti, raccolto 230 miliardi per le due reti, 4 miliardi al mese solo per il programma di Fazio). Ma, via Pellicioli, il progetto della 7 muore. Il «Fab Show» viene sospeso prima della prima puntata, Littizzetto è azzerata, i progetti ridimensionati. Gad Lerner lascia il tg («Non voglio fare lo straccione che vive di elemosina», dice). La rete rinuncia alle partite di Coppa Italia, che stava comprando per 30 miliardi. Poi se ne vanno Fabio Volo e Platinette, quiz e format.
Attorno alla culla della 7 arrivano nuove baby sitter che sono, guarda i casi della vita, consulenti di Mediaset: la Booz Allen & Hamilton, società che già lavora per le reti di Milano 2 su incarico di Bruno Ermolli, il tutore aziendale di Marina Berlusconi; ma soprattutto arriva Maurizio Costanzo, l’uomo che più sarebbe stato danneggiato da un eventuale successo del «Fab Show». A chi gli fa notare che potrebbe sembrare inopportuno dirigere Canale 5 e nello stesso tempo dispensare consigli alla 7, Costanzo in un’intervista al Corriere della sera si lascia sfuggire: «Ma Confalonieri lo sa». Non gli viene neanche in mente che non il presidente di Mediaset, ma gli uomini della 7 sono semmai quelli che potrebbero avere qualcosa da ridire sulla sua presenza e sul suo conflitto d’interessi. Ora come direttore di rete è arrivato Andrea Del Canuto, trentenne, esperto in allineamento dei palinsesti, uomo legato a Costanzo. Vice direttore è Tamara Gregoretti, sorella di Sabina Gregoretti, produttrice di Maria De Filippi e della Fascino, società di produzione di Costanzo.

Fazio, Pellicioli e gli altri si sono convinti
che Tronchetti Provera sia stato il killer, ma Berlusconi il mandante: nell’operazione Telecom, infatti, è entrata anche Edilnord, società immobiliare del gruppo Fininvest acquistata dalla Pirelli a caro prezzo (ben 425 miliardi). Gli uomini di Tronchetti smentiscono: nessun killeraggio per conto d’altri, non stava proprio in piedi il piano industriale, il nano non aveva alcuna speranza di crescere, nel clima del duopolio-monopolio italiano. Era un progetto debole. Ma allora pensate un po’ che cosa avrebbero fatto se fosse stato un progetto forte, ribattono Fazio Fazio e gli altri che nella 7 ci avevano creduto. E se è solo un problema industriale e non politico, perché allora Tronchetti non ha venduto? C’era chi era pronto a proseguire il sogno: la De Agostini, di cui Pellicioli è consulente. Ha i soldi (oltre 3 mila miliardi portati a casa con l’operazione Seat). E gli uomini (quel Maurizio Carlotti che ha diretto Telecinco, la tv spagnola di Berlusconi, e poi è uscito dall’orbita Mediaset). Ma niente da fare. Non vorrete mica che la facciano sul serio, la 7. Bondi preferisce fare melina, trattando con la e.Biscom di Francesco Micheli, con la Class di Paolo Panerai, con la Esselunga di Caprotti, tutti buoni amici di Berlusconi. Per poi decidere che vendere non conviene: la 7 è stata iscritta nel bilancio Telecom a un prezzo così alto che è preferibile buttare alcuni miliardi (il meno possibile, 80-100 all’anno) per alcuni anni per mantenerla, piuttosto che venderla e mostrare subito una clamorosa minusvalenza (un buco di almeno 500 miliardi). E poi non si sa mai, Telecom potrà aver bisogno di attenzione da parte del governo e per Tronchetti Provera una tv è sempre una buona pistola da mettere sul tavolo, al momento opportuno. Ma per ora la pistola deve risultare scarica: tagliato ulteriormente il budget (40 miliardi per l’informazione, 30 per i programmi); abbassate le pretese (obiettivo, uno share del 2-3 per cento: poco più del margine d’errore dichiarato dalle rilevazioni Auditel, che è del 2 per cento); via perfino Nino Rizzo Nervo, che non piaceva al ministro delle Comunicazioni Maurizio Gasparri ed è stato sostituito alla direzione del tg da Giulio Giustiniani.

QUANTI VOTI PORTA LA TV

 
Ernesto Mauri

Dopo la scossa (mancata) della 7, il complicato giocattolo televisivo italiano continua la sua storia nel nuovo clima politico: con il proprietario delle tre reti private che controlla anche le tre reti pubbliche, ( e tanti liberali che non ci trovano niente di strano. Siamo alla vigilia di un regime? La tv chiuderà il cerchio del consenso a Berlusconi e alleati? Per rispondere si può cercare di capire quanto la tv abbia pesato finora sul comportamento elettorale. «L’esposizione alle reti televisive ha sempre influenzato le preferenze elettorali, dal 1994 a oggi», assicura Luca Ricolfi, sociologo dell’università di Torino, che esibisce i dati delle sue ricerche sugli ultimi otto appuntamenti elettorali. «L’esposizione alle reti Fininvest prima e Mediaset poi ha sempre favorito il centrodestra e in particolare Forza Italia: con impatti che vanno da un minimo di 3-4 punti (nel 1996) a un massimo di oltre 10 punti (nel 2001)». Diverso è l’impatto della Rai: «Complessivamente ininfluente nel 1994,in seguito è sempre stata favorevole al centrosinistra: vale un 3 per cento alle politiche del 1996 e oltre un 10 per cento a quelle del 2001». Il risultato è che l’effetto-Rai e l’effetto-Mediaset si sono a volte bilanciati, come nel 1996, in cui si sono annullati a vicenda con saldo zero. Nel 1994 invece l’informazione televisiva nel suo insieme, Rai più Mediaset, ha aiutato nettamente il centrodestra; nel 2001 ha leggermente aiutato il centrosinistra. Proprio nelle ultime elezioni politiche, però, l’influenza della tv ha spostato oltre il 10 per cento dei voti e nelle ultime tre settimane della campagna elettorale ha determinato la rimonta di 6-7 punti. «Può aver contato l’effetto Luttazzi-Travaglio, ma ha pesato ancora di più la copertina dell’Economist con il titolo “Perché Silvio Berlusconi è inadatto a governare l’Italia”».

SCENDERE IN PIAZZA PER LA TV

Da noi i girotondi hanno portato il «ceto medio riflessivo» a circondare affettuosamente le sedi Rai di tutta Italia. Ci sono dei precedenti, molto meno gioiosi. L’11 gennaio 2001 circa 100 mila persone sono scese in piazza a Praga e in altre città della Repubblica Ceca per chiedere il licenziamento di Jiri Hodac, appena nominato direttore generale della tv pubblica Ct. Hodac era considerato un lottizzato, vicino all’Ods, il Partito civico democratico dell’ex primo ministro conservatore Valclav Klaus. Le grandi manifestazioni sono arrivate dopo che la redazione del telegiornale di Ct era stata occupata per 24 giorni da 30 giornalisti «ammutinati». La rivolta, dicono le cronache, ha avuto successo. Hodac se n’è andato dichiarando: «In base alle conversazioni avute oggi con il mio medico, devo purtroppo accettare la conclusione che al momento non posso espletare l’incarico cui sono stato legittimamente eletto».
A Mosca la piazza si era riempita invece per amore della tv. Il 4 marzo 1995, migliaia di persone hanno partecipato ai funerali di Vladislav Listyev, appena nominato direttore del primo canale televisivo e popolarissimo conduttore della trasmissione giornalistica «Cias Pik», «Ora di punta». Listyev era stato ucciso a colpi di pistola la sera del 1 marzo: un delitto deciso dalla mafia russa, probabilmente perché l’anchor man aveva annunciato di voler mettere ordine nel settore pubblicitario – fonte di grandi guadagni per la criminalità – della sua televisione, appena trasformata in società per azioni. Il giorno dopo l’omicidio, gli altri canali russi avevano annullato tutte le trasmissioni: solo uno schermo nero con la foto del collega ucciso.
Ma la televisione, che può riempire le piazze, può anche servire a svuotarle. Nella primavera del 2000 Slobodan Milosevic, pressato dalle manifestazioni di opposizione dopo la fine della guerra in Kosovo, ha ordinato alla tv di Stato di trasmettere una maratona di grandi film hollywoodiani, proprio in concomitanza con la manifestazione più imponente, quella del 14 aprile. Gli era sembrata una buona alternativa alla repressione armata, ma non ha funzionato.

CHI NON GUARDA LA TV

A Venezia, al girotondo attorno alla Rai c’era anche una ragazzina con un cartello: «Rai = più Melevisione, meno banane». Melevisione è il programma di Raitre dedicato ai bambini, divertente, pulito, senza pubblicità. Gli italiani amano Mamma Rai. Forse ora temono di perderla, annegata in un’indistinta koinè televisiva berlusconiana. Ma gli italiani, in fondo, amano la tv in generale. Lo certifica anche il Censis, nel suo «Rapporto annuale sulla comunicazione in Italia». Divisa la popolazione in cinque gruppi in base all’utilizzo dei media, il Censis scopre che anche per il quinto gruppo, chiamato «nicchia degli esperti» e composto da un milione e mezzo di italiani sofisticati che usano otto o nove media, la tv è al primo posto, seguita dalla radio e, solo al terzo posto, dal computer. «Anche chi dice: io non guardo la televisione», spiega il direttore della ricerca Raffaele Pastore, «in realtà, indagato più a fondo, si scopre che guarda il tg, magari Santoro, qualcosa di Vespa e, quando c’è, la Dandini». È il trionfo della tv all’italiana, della nostra tv generalista, onnicomprensiva e onnivora, in cui ognuno riesce a trovare qualcosa per sé, ognuno si costruisce il suo palinsesto personale. Riuscirà Berlusconi ad azzerare tutto questo?

(Hanno collaborato Daniela De Rosa e Mario Portanova)

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