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Il festival di regime
che ha sdoganato la mafia
di Gianni Barbacetto
Sanremo 2004 è stato il festival
di Tony Renis, scelto personalmente da Silvio Berlusconi.
Che cosa poteva uscirne, se non un festival di regime? Un
sistema si trasforma in regime quando non solo la politica
è blindata, ma quando è occupato anche l'immaginario
collettivo, lo spettacolo, la tv. Chi ha visto Sanremo ha
visto nascere un regimetto ridicolo e kitch, ma anche pericoloso
e cattivo. Nato già morto, per fortuna: bocciato dagli
spettatori, dalle cifre dell'Auditel.
Un piccolo festival di regime. Con cantanti selezionati chissà
come tra gli amici degli amici e i figli di papà cantante.
Con la musica ridotta a contorno di un varietà tv di
serie B. Con i ministri in prima fila: innanzitutto Bruno
Vespa, ministro della propaganda berlusconiana, che ha occupato
il dopofestival; e poi altri ministri o boss della politica,
da Gasparri a La Russa a Bossi, che si sono esibiti sulla
scena offerta da Vespa (con esponenti dell'opposizione che
hanno reso gentilmente possibile l'esibizione, dall'ineffabile
Willer Bordon a tale Rizzo, dei "Comunisti italiani",
che non sono un gruppo pop).
Un festival con i «nostri ragazzi a Nassirya»
anch'essi esibiti nello show (e proprio mentre quattro elicotteristi
facevano scoppiare il caso dell'inefficienza delle strutture
militari e dei soldati mandati allo sbaraglio). Un festival,
infine, con la mafia ridotta a barzelletta.
I continui accenni sarcastici alla mafiosità di Tony
Renis, l'orrida scenetta tra Simona Ventura e Raul Bova (chiamato
"Ultimo", come il carabiniere che ha arrestato Totò
Riina e che Bova ha interpretato in tv), i «baciamo
le mani» ripetuti con lo sghignazzo. Tutto era cominciato
con il direttore di Raiuno, Fabrizio Del Noce, che aveva affermato
che è normale per gli uomini di spettacolo aver rapporti
con i mafiosi. Tutto si è concluso con Celentano che
ha predicato che è normale avere amici tra i criminali.
Totò Riina ringrazia. Anche "Ultimo", alla
fine, è venuto dalla sua parte, almeno in tv. Negli
stessi giorni, i quotidiani raccontano che Cosa nostra americana
ha ripreso ad arruolare i ragazzi siciliani. E che è
stato catturato Cosimo Vernengo, uno degli strateghi della
strage di via D'Amelio in cui sono morti Paolo Borsellino
e la sua scorta. Roba di dodici anni prima, chi se la ricorda
più? Chi s'indigna più, se oggi la mafia è
ormai ridotta in tv a folklore, coppole e «baciamo le
mani», trasgressione e simpatia? Dodici anni fa questo
sarebbe stato impossibile, molti si sarebbero scandalizzati,
le coscienze sarebbero insorte. Oggi va bene così:
bisogna convivere con la mafia. Già lo facciamo negli
affari, ora anche nello spettacolo (perché Tony Renis
non è uno che ha suo malgrado ha avuto amicizie disdicevoli,
no: è uno che ha fatto parte di un mondo di boss e
assassini e trafficanti di droga, e se ne è vantato
- vedere, per credere, gli articoli che seguono).
Dopo aver sdoganato il fascismo, il berlusconismo sdogana
anche la mafia. Buttandola in barzelletta. Sarebbe stato tollerato
scherzare sul terrorismo, fare battute ammiccanti su Bin Laden?
No. Eppure nel nostro Paese la mafia ha fatto più morti
del terrorismo, fa più danni di Bin Laden. Meno male
che perfino l'Auditel ha bocciato un festival morto già
da tempo. Meno male che a Mantova, intanto, è stato
piantato il seme di un festival nuovo: con la musica (la buona
musica) in primo piano; e la mafia, per favore, da un'altra
parte.
7 marzo 2004
Il Padrino di Tony Renis
di Nando dalla Chiesa
Joe Adonis, chi era costui? Leggetela bene questa storia,
tratta integralmente da documenti ufficiali. Perché
è un uovo di Pasqua con la classica sorpresa. E con
tanto di morale, umoristica e istruttiva insieme, che riguarda
fatti e personaggi dei nostri tempi. Joe Adonis, dunque. Gli
storici della mafia sanno bene chi fosse. Ma anche a loro
una "rinfrescata" farà bene. Parliamo di
uno dei più famosi boss di tutto il Novecento. Che
vantò una rarità per così dire anagrafica:
quella di giungere ai vertici delle cosche siculo-americane
pur essendo originario della provincia di Avellino; da cui,
agli inizi del secolo, partì bambino per gli Stati
Uniti con il nome di Giuseppe Doto. Di lui si occuparono a
lungo sia la commissione dinchiesta Kefauver del Senato
americano sia la commissione antimafia del parlamento italiano
nella sesta legislatura (1972-76).
Risultava essere uno dei giovani boss emergenti al secondo
convegno tenuto dalla vecchia Mano Nera a Cleveland nel 1928;
e uno dei fondatori ad Atlantic City, insieme con Frank Costello
e Al Capone, della futura Cosa Nostra americana. Risultava
anche essere stato lideatore e lorganizzatore della micidiale
"murderers incorporated", ossia della anonima assassini
che dal 1929 funzionò come agenzia di reclutamento
di killer in tutto il mondo, invenzione strategica delle famiglie
siciliane doltreatlantico per commettere delitti senza incappare
nelle indagini delle polizie statali. Dicevano i rapporti
investigativi che egli giunse allapice del potere quando,
sempre negli Stati Uniti, venne creato il cosiddetto sindacato
del crimine, con lobiettivo di mettere ordine tra le bande
rivali e di spartire le zone di influenza. E che di tale sindacato
egli curava le relazioni esterne: giudici, poliziotti, politici,
uomini daffari, professionisti. Efficacissimo. Al punto che
il senatore Kefauver lo definì "uno degli esempi
più clamorosi della collusione fra gangsterismo e grande
industria".
Ebbene, nel 56 Joe Adonis sbarcò definitivamente in
Italia. Il progetto? Gestire, in coppia con Frank Garofalo,
e per conto di Cosa nostra americana, il passaggio della vecchia
mafia siciliana alle attività che già in America
si erano dimostrate più fruttuose, a partire dal traffico
degli stupefacenti. In contatto con le cosche isolane, Adonis
-dopo un periodo trascorso nel Lazio e in Val dAosta- si
impiantò stabilmente a Milano. Scriveva la commissione
antimafia, nella sua relazione di maggioranza: "Il nuovo
impero dellorganizzazione almeno fino agli inizi degli anni
70 ruoterà attorno a Joe Adonis che sarà lepicentro
di una rete organizzativa del contrabbando con ramificazioni
in tutti i paesi europei". Distinto, elegante, amante
della bella vita e dei locali notturni, Joe Adonis prese casa
nel centro di Milano, in via Albricci. E qui intrecciò
alle molte attività illegali la compravendita di immobili
e costruzioni nonché la gestione di una catena di supermercati.
Di fronte a tanto allarmante attivismo, le autorità
di polizia, prima distratte, si svegliarono e moltiplicarono
i controlli, sfociati in una richiesta di soggiorno obbligato.
Scriveva ancora in proposito la commissione antimafia: "Le
indagini serrate ed attente condotte tra il 1970 e il 1971
rivelano come Adonis sia ancora un capo e che la scelta
di Milano come sua residenza è stata determinata da
precise esigenze strategiche: la direzione internazionale
di preziosi, soprattutto brillanti, con ramificazioni in Francia
ed in Svizzera ed il coordinamento del contrabbando di stupefacenti
verso il nord-Europa".
Tutto chiaro? Bene, perché ora arriva la sorpresa.
Una sorpresa -ci credereste?- di nome Tony Renis. Sentite
bene e non ridete. Sulla bobina delle intercettazioni telefoniche
del 19 e 20 febbraio del 1971, attesta il rapporto del questore
di Milano, viene registrata la telefonata "del noto
cantante Tony Renis", il quale "avendo saputo
che una troupe cinematografica americana era in cerca di
attori per il film tratto dal romanzo Il padrino, chiese
al Doto (ndr: ossia Joe Adonis) di pregare il regista del
film, Francis Ford Coppola, affinché gli affidasse
una parte, anche se secondaria, essendo già il ruolo
principale coperto da Marlon Brando". Confessiamolo.
E semplicemente grandioso. Grandioso che Tony Renis ambisse
a recitare nel "Padrino". Ma grandioso (e spassoso)
anche pensare che, se fosse stato per lui, avremmo perfino
potuto avere il "Padrino" con Tony Renis al posto
di Marlon Brando! Grandioso anche che per soddisfare questo
suo desiderio Tony Renis si sia rivolto a Joe Adonis, ossia
che abbia ritenuto che la cosa più naturale da fare,
per recitare nel "Padrino", fosse di farsi raccomandare
da un padrino in carne e ossa. Attenzione infatti. Il "noto
cantante" non giunse ad Adonis involontariamente, attraverso
intermediari del mondo dello spettacolo. No, gli telefonò
direttamente: a lui, uno dei capi supremi di Cosa nostra;
a lui, organizzatore dellanonima assassini. Aveva
consuetudine con Joe, aveva il suo numero di telefono (proprio
come ogni giovanotto milanese di belle speranze), e gli
telefonò. Volete sapere come andò a finire?
Qualche giorno dopo Tony Renis telefonò ancora a
Joe Adonis e lo ringraziò. Gli disse che "Sam"
aveva "fatto tutto". Chi era "Sam"?
Curiosità legittima. Era Samuel Lewin, altro esponente
di rango della malavita organizzata, allevatore di cavalli
nel New Jersey, mandato apposta in Italia a contattare Adonis
da Thomas Eboli, vicecapo di Cosa Nostra in America. Sì,
deduzione esatta: Tony Renis era in contatto autonomo pure
con "Sam", anche se questi era arrivato in Italia
appena da poche settimane. Purtroppo il sogno del film non
si avverò. Forse perché alla fine del 71
Joe Adonis, da poco spedito al soggiorno obbligato, morì
di infarto. O forse -è solo unipotesi- perché
Francis Ford Coppola non ritenne Tony Renis allaltezza
nemmeno di una parte secondaria. O per altro ancora.
Di fronte a questa storia-con-sorpresa conosciamo lobiezione
difensiva. Ossia che nel mondo dello spettacolo sia consuetudine
non andare troppo per il sottile nelle frequentazioni, specie
se cè di mezzo la carriera. Sicché è
meglio aggiungere, per chiarezza del lettore, qualche piccolo
dettaglio. E raccontare che il boss effettivamente si dava
da fare nel mondo dello spettacolo. Tanto che si mosse su
richiesta di Antonio Maimone (implicato in un traffico di
preziosi e intenzionato a portare in Italia Frank Sinatra)
affinché il maestro Augusto Martelli accettasse di
organizzare un festival al quale fare intervenire Mina. Ma
non ebbe successo. Evidentemente Mina, al contrario di Tony
Renis, non teneva a certe amicizie. Il bello però è
che lidea di arrivare a Mina attraverso il Padrino nasceva
dallambizione di organizzare, state a sentire, un contro-festival
in competizione con quello di Sanremo. Al festival di Sanremo
doveva essere inflitto uno smacco; forse (così si arguisce
da una intercettazione) perché non aveva spalancato
le sue porte agli amici di Joe Adonis.
Ed ecco qui la morale umoristica e istruttiva. Oggi lamico
di Joe Adonis è diventato direttore artistico di
Sanremo. Per riuscirci non ha dovuto fare alcuna telefonata.
Tutto gratis. Gli è bastato passare lestate
al fianco del capo del governo e chiedere a lui direttamente
lambito posto, in nome di una lunga amicizia. Trentanni
dopo, insomma, il controfestival non lo devono più
fare gli amici di Joe Adonis, visto che nel frattempo si
sono impadroniti di Sanremo. Lo devono fare, però,
artisti e imprenditori e creativi e letterati che vogliano
difendere le tradizioni (anche quelle diventate un po
sgangherate) del paese. L ho proposto il mese
scorso su questo giornale. Ora (con riserbo assoluto sul
resto) posso anticiparlo: il controfestival si farà.
Musica, parole, satira, cultura. Cè chi ci
crede, cè chi ne coglie il senso di simbolica
rivolta civile. E oltre a denunciare lindecenza dei
costumi vuole seppellire questo circo assurdo sotto una
grande, intelligente, implacabile risata.
Joe Adonis
Tony Renis tiene
famiglia
di Nando dalla Chiesa
Sorry. Mi dispiace, mi dispiace veramente. Non credevo
che albergasse tanta delicata sensibilità tra i giornali
della maggioranza verso limmagine di Tony Renis. Così
da farli produrre in attacchi inaciditi contro il sottoscritto.
Responsabile di avere ripreso integralmente da documenti
ufficiali la storia dei rapporti del nuovo direttore artistico
di Sanremo con Joe Adonis, fondatore di Cosa nostra americana,
fondatore dellAnonima assassini ("le sue mani grondano
sangue" aveva detto di lui il senatore americano Kefauver)
e stratega dellingresso della mafia siciliana nel traffico
mondiale degli stupefacenti.
Chiedo scusa, ma i documenti ufficiali, oserei dire la storia,
non sono colpa mia. E non è colpa mia ciò
che Tony Renis ha detto o fatto.
Per questo e solo per questo mi sento sollevato dagli addebiti.
E vorrei anzi, in un nuovo sforzo di verità e memoria,
raccontare quel che lo stesso Tony Renis ha detto o fatto
in altro periodo della sua vita: più precisamente
tra lestate del 79 e linizio dell80, quando Joe Adonis
era ormai morto da otto anni.
Vorrei raccontare una storia dimenticata allinterno di
una grande storia di mafia. Vi parlerò dunque del
finto rapimento di Michele Sindona, avvenuto nellestate
del 79. Anche qui è necessaria qualche nota volta
a rinfrescare la memoria dei lettori. Michele Sindona, banchiere
di fama internazionale, simbolo della finanza davventura
e della finanza sporca, chiamato da Giulio Andreotti
"il salvatore della lira" quandera in auge (per
diventare poi "il finanziere di Patti" quando
andò in malora), fece bancarotta in America con la
American Franklin Bank e in Italia con la Banca Privata
Italiana. Tutto avvenne tra il 74 e il 75. Destinatario
di un mandato di cattura da parte della magistratura milanese,
riparò latitante negli Stati Uniti. Da lì,
pur latitante, continuò ugualmente a mantenere rapporti
con Giulio Andreotti presidente del consiglio. Legato alla
mafia e alla P2, punto dincrocio dei tanti poteri criminali
italiani, e anzi fiduciario dei capitali della nuova Cosa
nostra siciliana, il finanziere mise in atto ogni comportamento
possibile per salvarsi dalla giustizia americana e da quella
italiana. Il 1979 giocò il tutto per tutto. E segnò
il punto di svolta della sua parabola; che lo avrebbe portato,
sette anni dopo, al suicidio -tramite classica tazzina di
caffè- nel carcere di Voghera.
Che succede dunque in quellanno, che riguardi Michele
Sindona? Succede che a mezzanotte dell11 di luglio, nel
centro di Milano, in via Morozzo della Rocca, viene ucciso
lavvocato Giorgio Ambrosoli, impegnato da anni per conto
della Banca dItalia a difendere gli interessi dei risparmiatori
italiani truffati dal banchiere della mafia. Con coraggio
eroico lavvocato milanese aveva respinto per anni ogni
allettamento o minaccia affinché ammorbidisse le
sue posizioni. Un sicario mandato da Sindona direttamente
dall America lo uccide davanti a casa sua. LItalia insanguinata
dal terrorismo non capisce. Di fronte a quellavvocato sconosciuto
si volta dallaltra parte, lunica cosa che la preoccupi
davvero sono le Brigate rosse. Passano dieci giorni e si
cambia di latitudine. Palermo, 21 luglio: in un bar, alle
otto del mattino, viene ucciso il commissario di polizia
Boris Giuliano, che da tempo indaga (e con successo)
sui traffici di droga e di denaro sporco tra la Sicilia
e gli Stati Uniti. Certamente per ordine della Cupola mafiosa,
secondo molti in probabile connessione con la vicenda Ambrosoli.
Poi, ai primi di agosto, la notizia clamorosa che mette
in altra e più inquietante luce quellestate di mafia
e di morti ammazzati: Michele Sindona è stato rapito.
Grotteschi comunicati rivendicano il rapimento a una formazione
comunista, il "Comitato Proletario Eversivo per una
vita migliore". Ma è una formidabile messinscena,
preparata da un paio di mesi. In realtà Sindona,
con lalibi del sequestro a fini politici, sparisce dalla
circolazione e viene portato di nascosto dallAmerica in
Sicilia. Viene in Italia a sistemare i suoi interessi, a
curare le sue strategie, a definire i suoi rapporti con
il mondo mafioso, economico e politico, a ricattare, a cercare
sostegni per recuperare i capitali perduti. Per completare
la messinscena si farà anche sparare a una gamba
e farà circolare la polaroid di se stesso ferito
dai "rapitori". Lo proteggono nei suoi incontri
e nei suoi spostamenti alcuni numi della massoneria e alcuni
esponenti delle istituzioni. Ma soprattutto lo proteggono
due formidabili famiglie mafiose, una di qua e una di là
dellAtlantico. In America la faccenda viene gestita dalla
famiglia Gambino. In Sicilia dalla famiglia Spatola, imparentata
con la prima e fresca di egemonia a Palermo nel settore
delle costruzioni. Ed è in questo contesto -vi prego,
non ridete- che rispunta il nome di Tony Renis.
Per andare avanti nel racconto mi atterrò fedelmente
a quanto i giornali riportarono allora e soprattutto a quanto
lo stesso Tony Renis ebbe a dichiarare in quel periodo alla
stampa o ai magistrati che lo interrogarono. Sempre convinto
-io, intendo- che la storia, in un paese libero, non sia
una colpa di chi la racconta.
Il cantante e ora direttore artistico del festival di Sanremo
viene infatti ascoltato su quel finto rapimento dalla magistratura
italiana, in particolare dal giudice Ferdinando Imposimato.
Lipotesi che si staglia con un certo spessore nel
corso delle indagini è che Renis sappia qualcosa
di quanto è accaduto; e che possa avervi svolto un
ruolo per così dire esterno, di fiancheggiamento.
Ma vediamo di ripassare con ordine i suoi rapporti con i
protagonisti della vicenda. Che sono tre. La famiglia Gambino,
anzitutto. Annovera gli eredi di Charles Gambino, potentissimo
boss di Brooklyn. In testa a tutti John, Thomas e Vincent.
Renis è amico di John Gambino. Ma non amico di sghimbescio.
Amico del cuore. Dice testualmente ai giornali di allora,
parlando dellamico diventato nel frattempo latitante:
"John Gambino è una persona squisita, un signore.
Lui, la sua famiglia, i suoi amici, con me si sono comportati
da fratelli. Sono stato anche questanno ospite loro
a Staten Island. Ospite nel senso che mi pagavano lalbergo.
Gli amici di Brooklyn mi hanno donato una targa in onice,
fanno le cose in grande. E poi cè stata Santa
Rosalia...". E spiega: "Dunque, gli italo-americani
festeggiano due volte la santa protettrice di Palermo: a
luglio e a settembre. Io partecipai alla festa di luglio
come honour guest star, in una grande sala di
convegni a Brooklyn, la Perville room tappezzata di broccato
rosso. Una cena per mille ospiti privilegiati (precisiamo:
una cena per festeggiare gli anziani immigrati della loggia
massonica "Sons of Italy"; ndr)". E rivendica
infine perentorio, con amabile tono di sfida: "E perché
non dovrei essere amico di John Gambino? E un uomo
che stimo, che lavora, intelligente, dotato di una gran
personalità. E generoso: è sempre il
primo a esserti utile (proprio così: utile;
ndr). E poi, per finire con questa mia incresciosa avventura,
voglio dire un grazie a ogni italo-americano dAmerica,
grazie con la G maiuscola. Se i nostri connazionali
possono oltrepassare loceano lo dobbiamo a loro, che
ci tendono la mano e cercano di darci spazio nel mondo della
canzone. Un piatto di minestra ce lo danno sempre, grazie
a loro e a John Gambino. Grazie al cielo".
Poi ci sono gli Spatola. Gli italiani in quel 1979 e nel
successivo 1980 (allinizio di quellanno rimontano
infatti queste dichiarazioni) non sanno praticamente nulla
degli Spatola. Sono tempi ambigui e ciechi: quando viene
ucciso a Palermo il presidente della Regione Piersanti Mattarella
(6 gennaio 1980) il capo del governo Spadolini denuncia
meccanicamente non la mafia ma il nuovo atto di "terrorismo".
Come volete che gli italiani pensino alla mafia nellanno
in cui il terrorismo fa più di cento morti? Chi volete
che si preoccupi sentendo parlare degli Spatola, che pure
nell80 risulteranno essere al quinto posto nella classifica
dei contribuenti italiani? Bisognerà aspettare un
giovane giudice di nome Giovanni Falcone per sapere, carte
processuali alla mano, che gli Spatola erano signori miliardari
trafficanti in droga, nuova vertiginosa espressione della
potenza della mafia di Bontate e Badalamenti. Stretti alleati
degli Inzerillo, responsabili -questi ultimi- nellagosto
di quellanno 1980, dellassassinio del procuratore
Gaetano Costa. Ebbene, Renis è amico intimo pure
degli Spatola. Ma- anche in questo caso- mica amico di sghimbescio.
Amico vero. Tanto da esserne ospitato non in albergo, ma
in casa. Sentiamolo: "Sono andato da Rosario Spatola,
nella sua villa hollywoodiana sui colli di Palermo. Nella
villa degli Spatola ho trascorso un periodo di vacanze nel
mese di agosto". E degli Spatola nel frattempo finiti
in carcere come complici della vicenda Sindona che ne pensa?
Risposta: "Io non penso mai, non mi occupo degli affari
degli altri, non giudico perché giudicare è
difficile e non vorrei mai essere nei panni di un giudice,
è brutto mestiere. Questa è la mia dottrina
e quando mi sveglio ogni giorno mi dico: giudica solo te
stesso. Che ne so io, della gente, delle cose degli altri?".
Insomma, dopo lamicizia con Joe Adonis, Tony Renis
ha continuato imperterrito. Amico intimo dei Gambino. Amico
intimo degli Spatola. Di qua e di là dellAtlantico,
il futuro direttore artistico di Sanremo (e futuro amico
del capo del governo italiano) coltiva le più potenti
famiglie della mafia con meravigliosa metodicità.
E non basta. Perché purtroppo, nella vicenda Sindona,
cè un problema di date che complica un po
il quadro. Seguite infatti con attenzione il calendario.
Il falso sequestro di Sindona dura due mesi e mezzo: dal
2 agosto al 16 ottobre. E Renis è ospite degli Spatola
a Palermo giusto in quel periodo. E i Gambino, in quei mesi,
li vede? Renis viene interrogato se abbia avuto rapporti
anche con i Gambino in quel medesimo, compromettente, arco
di tempo. Risponde (nel febbraio 80) di non ricordare
se sia stato in America in settembre. Una risposta
incredibile. E che appare ancora meno credibile di fronte
alla testimonianza del parroco di "Regina Coeli"
di Brooklyn. Il quale afferma invece di essere certo che
nel settembre precedente Renis fosse proprio con i Gambino
a New York. Dunque: avanti e indietro tra gli Spatola e
i Gambino, tra Palermo e New York, nei mesi in cui gli Spatola
e i Gambino organizzano il finto sequestro di Sindona tra
New York e la Sicilia.
A questo punto la domanda -che coinvolge il terzo e maggiore
protagonista della storia- è dobbligo: ma Tony
Renis conosceva Sindona? Il cantante risponde di no. Che
si tratta di "pura fantasia". Lo ha forse conosciuto
la scorsa estate alla festa di Santa Rosalia?, gli viene
chiesto. "No, cerano tutti gli amici italiani
di Filadelfia, Boston, Chicago e New York. Sindona non cera.
Me lo avrebbero presentato". Ma interrogato altrove,
è lo stesso Sindona che lo smentisce. Sentito dal
procuratore distrettuale John Kenney, il finanziere-bancarottiere
racconta: "Sì, tra la gente che mi venne a trovare
nel mio ufficio, prima del rapimento di cui sono rimasto
vittima il 2 agosto 79, ci fu un cantante di qualche
fortuna nella colonia italiana di New York. Si chiama Tony
Renis, e questo era il suo nome darte. Lo incontrai
fuggevolmente, mi disse che veniva da parte di amici".
Aggiunge la polizia federale: Renis incontrò Sindona
nella hall del Pierre Hotel. Il finanziere lo licenziò
dicendogli: "Se ha bisogno di qualcosa, caro, si faccia
pure vivo, cercherò di esserle utile. Lasci pure
i suoi recapiti alla mia segretaria". La quale, al
secolo Xenia Vago, conferma la circostanza alla magistratura
newyorkese.
Perché tanto interesse dei magistrati italiani (Sica
e Imposimato) per il cantante? Semplice. A torto o a ragione,
gli investigatori pensano che egli possa avere svolto un
ruolo di intermediario; e più in generale che i rapitori
si siano serviti di qualche "insospettabile" per
comunicare con la famiglia di Sindona o con uomini della
finanza e della politica cui far giungere i messaggi necessari.
Ed è appunto questo che essi cercano di chiarire
con gli interrogatori. Invano.
Il 29 gennaio dell80 il cantante viene ascoltato dal
giudice Imposimato, che lha già sentito in
novembre. Renis entra da testimone ed esce da indiziato
di reato. Quando gli viene chiesto se sia tornato in America
nel settembre precedente, egli dice infatti di non ricordare.
Afferma di non conoscere nessuno dei protagonisti della
vicenda. Imposimato lo minaccia di arresto per testimonianza
reticente, chiama i carabinieri e lo fa fermare per mezzora
nella caserma del nucleo traduzioni del tribunale. Poi il
cantante, a cui un po di memoria è nel frattempo
tornata, rientra con tanto di avvocato. Riconosce
tutti i personaggi che gli vengono indicati nelle foto dellFbi
ma dichiara di non sapere nulla del sequestro Sindona. Alluscita
spiega: "Non ho capito a cosa tendessero le domande
del magistrato. Io ho detto quanto avevo da dire. Ci siamo
lasciati bene con il giudice. Gli ho promesso anche uno
dei miei dischi". Quindi aggiunge sibillinamente: "Io
canto solo per la Warner Brothers, non canto altrove"
(quasi ventanni dopo ricorderà testualmente
in unintervista alla "Stampa": "Il
giudice mi voleva fare cantare ma io avevo perso la voce").
Chiosa il "Messaggero" del 30 gennaio 1980: "Questa
frase è sembrata ad alcuni osservatori un messaggio,
quasi un segnale in codice".
Già, facciamo finta per un attimo che Tony Renis
non sia diventato ventanni dopo un caro amico del presidente
del consiglio in carica e -per riflesso- dei suoi giornali
e delle sue televisioni. E poniamoci le domande che una
libera mente si pone, anzitutto per rispetto a se stessa,
di fronte a simili dichiarazioni. Che cosa avrebbe dovuto
"cantare" Tony Renis che egli, per sua stessa
orgogliosa ammissione, si rifiutò di "cantare"?
Quale pezzo di verità inconfessabile di quella storia
si tenne per sé, dando un mirabile esempio di fedeltà
alla causa? Di più: perché disse di cantare
solo per la Warner Brothers? Che messaggio mandava? In effetti
la casa di produzione cinematografica si chiama Warner Bros:
dove Bros, certo, sta per Brothers, ma nessuno, proprio
nessuno, usa altro termine da "Bros". Voleva fare
riferimento più esplicito e più rassicurante
ai famosi "fratelli"? Quelli italo-americani sopra
richiamati? O i fratelli Gambino che lavevano fatto ingaggiare
-appunto- per cantare alla festa di Santa Rosalia a New
York? O i fratelli Rosario e Vincenzo Spatola? O tutti insieme?
La vicenda ha però una coda, almeno in termini di
informazioni acquisite documentalmente. Quando Renis si
presenta ai giudici italiani, in effetti, questi sono convinti
(almeno stando alle notizie di stampa dellepoca) che il
sequestro, per quanto anomalo, abbia avuto comunque finalità
estorsive. E che Sindona non si sia mosso dagli Stati Uniti.
Successivamente però sono stati accertati alcuni
fatti di qualche importanza da parte dei soliti rompiscatole:
i giudici di Palermo (inchieste di mafia) e i giudici di
Milano (inchiesta Sindona), ossia gli esponenti per antonomasia
delle turbe mentali che affliggono la magistratura italiana.
Quali sono questi fatti? Anzitutto, come abbiamo detto,
che Sindona sparì in America per venire (da latitante)
in Sicilia. Che egli fece sosta ad Atene, dove andarono
a prelevarlo il cognato di Stefano Bontate e un importante
massone, Giuseppe Miceli Crimi, in buoni rapporti con la
questura di Palermo e con la P2, e che gli procurò
il primo alloggio nel capoluogo siciliano. Che allarrivo
in Sicilia Sindona e il suo seguito furono ospiti in albergo
di Gaetano Graci, uno dei quattro potentissimi "cavalieri
del lavoro" di Catania. Che in Sicilia egli venne successivamente
raggiunto da John Gambino, che lo accompagnò sia
a incontri riservati con i boss sia in giro per ristoranti
e pubblici locali di lusso. Che da un certo punto in poi,
e per più settimane, Sindona fu ospite degli Spatola
nella loro villa di Torretta, località fuori Palermo
ad altissima densità mafiosa, a trecento metri sul
livello del mare. Che nel 78 era stata fatta a favore di
Sindona, alla presenza di molti boss, una raccolta di fondi
in un motel di Staten Island di proprietà di
John Macaluso, socio in affari di Sindona.
Da qui alcune domande. Sindona e Renis furono dunque ospitati
(a rotazione o addirittura insieme) nella stessa casa degli
Spatola in quellagosto del 79 (Sindona, sappiamo per certo,
nella villa di Torretta; Renis, parole sue, "nella
villa hollywoodiana sui colli di Palermo")? In quel
periodo Renis incontrò anche a Palermo il fraterno
amico John Gambino, visto che si trovava anche lui in Sicilia
mentre il cantante era ospite degli Spatola, cugini dello
stesso Gambino? Il motel di Staten Island di John Macaluso
(il socio di Sindona) è lo stesso in cui Tony Renis
ha detto di essere stato, come dabitudine, ospitato dai
Gambino oltreoceano nel mese di luglio del 79?
The end. Finisce qui, per quanto ne sappiamo, questo inquietante
pezzo di storia. Fatta di boss di prima grandezza, di amicizie
intime, di viaggi ripetuti, di verità taciute e di
"cantate" rifiutate. Preceduta, nella più
grande vicenda mafiosa, dallassassinio di Ambrosoli e da
quello di Boris Giuliano. Suggellata, nel corso del "rapimento",
tre settimane prima della sua conclusione, il 25 settembre,
dallassassinio del Consigliere istruttore di Palermo Cesare
Terranova e della sua scorta, il maresciallo Lenin Mancuso;
un assassinio che secondo Pio La Torre era strettamente
connesso con la contemporanea presenza di Sindona in Sicilia.
Ricordare questa storia non è una colpa. E
un dovere. Soprattutto per chi continua a pensare che la
mafia sia una cosa cattiva e sciagurata; e che dunque gli
amici dichiarati dei mafiosi non possano avere in regalo
dal governo un pezzo del costume nazionale, diventare tuttuno
con un simbolo culturale e musicale del popolo italiano,
quale è, nonostante tutto, il festival di Sanremo.
E che se questo avviene, quel simbolo debba essere svuotato
di senso, e che glie se ne debba contrapporre un altro.
Perché, sembrerà strano, esiste unItalia
che proprio della mafia non ne vuole sapere. E non ci vuole
convivere.
lUnità, 21 ottobre 2003
Il controfestival
di Nando dalla Chiesa
Lo so che ci sono problemi ben più importanti. So
dei condoni; e delle ville e officine abusive nei parchi.
So pure che cosa pensa il capo del governo, del fascismo
e dei magistrati, specie davanti a una bottiglia di champagne
(e se beve un superalcolico che penserà mai?). So
ancora della Rai mandata a picco per trasferire soldi alle
tivù del capo del governo medesimo. Ma ecco, proprio
a proposito di Rai, questo fatto che Tony Renis diventi
direttore artistico del festival di Sanremo davvero non
mi va giù, davvero non riesco a capacitarmene. Mi
sembra uno di quegli sberleffi che i regimi fanno ai sudditi
per dargli il senso smargiasso della propria potenza. Sberleffi
inutili, insolenti, dannosi anzi allimmagine culturale
ed estetica del regime (cè la libertà
di dirlo, o scatta la querela della Casa delle libertà?).
Ma utilissimi a dimostrare che il potente si scapriccia
con la cosa pubblica come vuole, allo stesso modo che i
signorotti di un tempo si scapricciavano con le servette.
Potere assoluto. Stile "qui comando io".
Nando
dalla Chiesa
Sembra quasi di vederli, Silvio Berlusconi e il Tony 2
(Tony 1 è Blair, almeno per ora...) che parlano mentre
il capo dà disposizioni al fido collaboratore che
gli organizza le feste private in Sardegna. Chissà
chi ha preso il discorso per primo. Forse il capo del governo:
"Tony, ma come posso esprimerti la mia gratitudine
per queste feste tanto sapientemente e con tanta classe
organizzate, con questi champagne che, solo a vederli, ti
trasformano in un oratore politico stupefacente? Dimmi,
hai mai pensato ad assumere in Italia un ruolo allaltezza
delle tue qualità? Te lhanno mai proposto?".
A quel punto il Tony 2 deve avere chinato in una parvenza
di umiltà il proprio capino una volta inciuffolito.
E deve avere risposto "Be, no, non mi ricordo;
sai Silvio, qua in Italia se non sei raccomandato non vai
da nessun parte". E il capo del governo, nel pieno
delle sue funzioni di presidente dellUnione europea:
"Ma bisogna rimediare, basta con questa fuga dei cervelli,
con i geni italiani costretti a lavorare allestero.
Faremo ciò che chiede la gente. Dove preferisci andare?
Alla Biennale, alla Scala, o al teatro greco di Siracusa,
lì i cactus ci starebbero una meraviglia, dove?".
Forse rispose Tony 2: "Veramente a me basterebbe fare
il direttore artistico al festival di Sanremo". Il
presidente dEuropa ebbe un moto di giubilo: "Davvero
ti basta il festival di Sanremo? Ma certo, come ho fatto
a non pensarci prima? Hai ragione, daltronde hai mosso
lì i tuoi primi passi di artista e di manager internazionale".
Tony 2 fu felice. Il maestro Apicella (in Italia a un posteggiatore
basta cantare con il capo del governo per diventare Maestro,
un po come Raffaello o Toscanini), ascoltò
tutto in silenzio e meditò trepidante su ciò
che avrebbe potuto chiedere a sua volta, se il dipartimento
musicale della Rai o il teatro Lirico a Milano, appena negato
a Marcello DellUtri per via di un appalto un po
birichino (si può dirlo o si rischia la citazione
in giudizio da parte dei nemici della "via giudiziaria"?).
Che sia andata così o che il discorso labbia
intrapreso Tony 2 in un momento di abbandono del capo davanti
a una bottiglia di champagne, che possa essere stato il
primo a chiedere con una punta di impertinenza "Silvio,
ma non ci sarebbe qualcosa per me in Italia?", non
fa molta differenza. Fatto sta che la rassegna e trasmissione
canora che ha segnato decenni di storia popolare italiana,
che ha attraversato la biografia di intere generazioni,
è stata messa nelle mani di Tony Renis durante una
serata privata del capo del governo. Nessun ostacolo dalla
Rai, dove i dipendenti del Capo hanno subito apprezzato
la formidabile intuizione -"ragazzi, ma come abbiamo
fatto a non pensarci noi?"-. Nessun ostacolo sulla
stampa amica e nemmeno su quella neutrale, che si limitano
a trasmetterci la fotina di un signore tutto vestito di
bianco che sembra riemerso da un vecchio album di famiglia.
Già, lalbum di famiglia. La ricordate la Milano
da bere? Lo ricordate il clima della grande abbuffata che
affondò (lui, non i magistrati) il riformismo craxiano?
Sfoglio i giornali di allora. Milano che onora Frank Sinatra,
"la voce", al Palatrussardi; prezzo, mezzo milione
a poltrona. E Craxi e Ligresti e Pillitteri, il sindaco
cognato. E tutta la corte dei tempi. Un mondo eterogeneo
ma compatto. Nel quale spuntava ogni tanto come autista,
a qualche matrimonio che contava, proprio lui, Tony Renis.
Amico di Frank Sinatra e, come "la voce", amico
di qualche potentissima "famiglia" doltreoceano.
Quel lontano profumo atlantico si sentiva, arrivava anche
a Milano e in qualche occasione veniva perfino rivendicato
con una punta di civetteria (ma guarda un po...).
Forse è per questo che non riesco a capacitarmene.
Non posso pensare che la celebre Seconda Repubblica, con
i suoi nuovi sistemi elettorali e i suoi nuovissimi contesti
mondiali (non per niente cè un Tony 1...),
ripeta il film già visto: anzi, a essere onesti,
veda ora montare in cattedre allora inarrivabili i comprimari
da festa e champagne di quegli anni. Non posso pensare che
nella scoppiettante, aitante Seconda Repubblica trionfi
un clima da basso impero (si può dire, o è
pronta la denuncia dell unico governo che abbia messo
nei suoi programmi labolizione dei reati di opinione?).
Forse, mi dico, è maturo il momento per progettare
qualcosa di clamoroso. Non il lancio di pomodori contro
Tony Renis a Sanremo, sulla falsariga del lancio squadristico
propagandato da Giuliano Ferrara contro Benigni. Ma una
manifestazione alternativa organizzata negli stessi identici
giorni, se possibile proprio a Sanremo. Alternativa, sia
chiaro, non perché minoritaria, o destinata a un
pubblico culturalmente o socialmente marginale; ma perché
occasione di un nuovo festival della canzone che soppianti
questa creatura tanto decrepita da potere essere tranquillamente
trasformata, con i soldi del contribuente (si dice così,
no?), in povera e luccicante rassegna del regime. Senza
gli intrallazzi e i trucchi e i sospetti che hanno gravato
su Sanremo negli ultimi anni. Che dia il senso delloriginalità,
ma anche di una fresca e piacevole normalità umana
proprio nel luogo del crepuscolo, là dove i potenti
si scapricciano.
Può avvenire in ogni modo, in ogni forma, cè
solo da discuterne. Ma una manifestazione di livello e qualità
ben più alta di quella annunciata da Tony 2 e Fabrizio
Del Noce è auspicabile e possibile, anche sotto il
profilo del ritorno economico. Diciamo -per ipotesi- qualcosa
di simile, in due serate, al concerto del primo maggio.
Ci sono professionisti, imprenditori, artisti e intellettuali,
radio e tivù private, disposti a fare da "pacchetto
di mischia", così come nei concerti organizzati
in due mesi per i più nobili motivi civili o sociali?
Disposti, anche se non hanno mai amato Sanremo, a mostrare
che cosa può diventare quel festival ("il festival")
fuori dalle umiliazioni del conformismo mediatico e dalle
"turbe di onnipotenza" del premier? Lo so, qualcuno
dirà: chissenefrega, mandiamolo a fondo. Facile,
giusto; ma lo faremmo in pochi. Una grande impresa collettiva,
questo ci vuole. Che usi le risorse esiliate dal Capo e
dai suoi cortigiani. E quelle libere, che in Rai non ci
hanno mai potuto metter piede. E tutta la vitalità
della musica e della cultura. Nulla è efficace, di
questi tempi, come mostrare le alternative.
P.S. Scommetto che se il pacchetto di mischia ci fosse e
riuscisse nellimpresa, ci sarebbe, oltre alle tivù
straniere, una tivù italiana pronta a saltare sullevento.
La Rai no, naturalmente. Ma una tivù di Berlusconi
di sicuro. Quando si dice che è un regime strano...
Tony Renis, picciotti
e pezzi da novanta
di Nando dalla Chiesa
Non per infierire su Tony Renis che è tanto un bravo
professionista, ma rieccoci. Questa volta con una barzelletta
fresca di giornata. Meglio: una barzelletta vecchia di un
quarto di secolo ma praticamente sconosciuta. E lucidata
a nuovo dall'impertinenza dell'attualità. L'importante
è non lasciarsi fuorviare dai colori un po' cupi
del contesto d'inizio. Alla fine, è garantito, si
ride per davvero.
Correva dunque il febbraio del 1978. Il paese era sotto
l'incubo del terrorismo. Era stato appena ucciso il giudice
Riccardo Palma. E il mese dopo le Bierre avrebbero colpito
il cuore dello Stato: Aldo Moro, con il sanguinoso contorno
degli uomini della scorta. Dunque dovevano essere degli
irresponsabili perdigiorno quei carabinieri in servizio
tra Legnano, Gallarate e Busto Arsizio che, nel clima di
tragedia dell'epoca, si dilettavano di indagare su una banale
vicenda di sequestri di persona, fra l'altro frequentissimi
allora nel nord Italia. Individuarono, tali carabinieri,
una banda legata a un signore di nome Pippo Mirabella, nativo
di Belpasso, vicino a Catania. Fonti confidenziali suggerirono
che proprio quella banda fosse l'autrice del sequestro di
un imprevidente industriale torinese, Francesco Stola, rapito
pochi giorni prima. La soffiata apparve credibile. Il Mirabella
era inseguito da qualche mandato di cattura emesso dal giudice
istruttore di Torino. Poca roba: associazione a delinquere
(allora saggiamente la legge non prevedeva l'associazione
mafiosa) e concorso nell'omicidio di un commissario di polizia.
Di più. Secondo altre informazioni di servizio, il
Mirabella risultava legato agli ambienti della malavita
siciliana e in particolare al noto boss mafioso Gerlando
Alberti.
Una normale palazzina
Alla fine i carabinieri individuarono il domicilio del Mirabella
a Legnano. Un appartamento in una normale palazzina, acquistato
poco tempo prima dalla sua convivente. I carabinieri - conoscete
anche voi il loro ruolo nelle barzellette - sono un po'
testoni. Perciò si misero a perdere tempo con ostinazione.
Andarono in giro per Legnano mostrando la foto del signore
catanese. Finché alcuni vicini la riconobbero. Allora
essi si misero a fare, pensate un po' che termine ridicolo,
il servizio di appiattamento davanti alla palazzina. Seppero
chissà come (la gente parla, certe dicerie dovrebbero
essere cestinate all'istante) che il Mirabella se n'era
andato via da casa per circa una settimana. E loro, cocciuti,
rimasero ad aspettare. Il 16 febbraio lo videro finalmente
arrivare. Bmw bianca, targata Torino, qualche movimento
sospetto. Il giorno dopo all'ora di pranzo il movimento
si intensificò. Arrivarono davanti alla palazzina
due auto: ancora la Bmw con quattro persone a bordo e una
127 blu, anche lei targata Torino. C'era di nuovo il Mirabella.
Che fece salire tutti in casa. Poco dopo il gruppo ridiscese
nella stessa formazione per andarsene via sulle due auto.
Tempo un paio d'ore e la 127 blu tornò con quattro
persone a bordo. A questo punto i carabinieri decisero di
intervenire. Circondarono lo stabile e irruppero nell'appartamento.
Volete già sapere che cosa c'entra il festival di
Sanremo? Aspettate un attimo, per favore. E sentite prima
chi c'era in quell'appartamento. Vi si intrattenevano cinque
signori. Che vennero, secondo il buffo gergo degli investigatori,
così "generalizzati": Luigi Pelullo, Luca
Bonanno, Salvatore Montalto, Francesco Rinella e John Richard
Li Voti. Mancava il Mirabella, il quale aveva evidentemente
messo a disposizione dei "colleghi" la sua casa
in un'area considerata franca e al di sopra di ogni sospetto
e se n'era andato. Proprio in quei minuti giunse davanti
alla palazzina anche la Bmw. Stavolta si passò all'azione:
l'auto venne circondata e l'autista fu portato anche lui
nell'appartamento. Si chiamava Antonino Barbagallo e venne
trovato in possesso di una rivoltella carica, con tre colpi
mancanti dal tamburo. Poi suonò il campanello un
altro signore, bello fresco e ignaro di tutto, si chiamava
Roberto Bacciulli.
I picciotti
Domanda ovvia: ma che ci facevano i sette signori a simposio
in quell'appartamento, in assenza del padrone di casa? Be',
è un po' quello che - barcamenandosi in questa barzelletta
- si chiesero pure i carabinieri. Anche perché essi
trovarono nella casa i seguenti oggettini assolutamente
insignificanti: una copia del "Giornale di Sicilia"
del giorno prima (ossia il 16 febbraio) aperto sul tavolo
del soggiorno alla pagina 5, su un articolo dal titolo "Il
boss è morto in mezzo ai suoi picciotti"; due
biglietti aerei Palermo-Roma-Milano emessi a Palermo il
15 (ossia il giorno dell'uccisione del boss e dei suoi due
sicari) e usati il 16 mattina. Biglietti intestati al Montalto,
il quale preso alla sprovvista spiegò che uno dei
due gli era stato fornito dal Li Voti. Infine una fiala
deposta sul comodino della stanza da letto contenente un
liquido per "anestesia locale". Sì, forse
con qualche sfumatura di differenza, state pensando esattamente
ciò che pensarono i carabinieri, o almeno quel che
pensò l'ufficiale che guidò l'operazione:
doveva esserci una qualche relazione tra i magnifici sette
e quel che era successo a Palermo due giorni prima.
Risposte surreali
Dunque, come spiegavano i distinti signori la loro presenza
lì? Forse solo chi ignora il clima da tragicommedia
in cui sempre è stata combattuta la mafia, può
trovare surreale la risposta che essi diedero. Ma sì,
i sette riuniti nella stessa casa dissero di non conoscersi
l'un l'altro (tranne, per necessità a quel punto,
il Montalto e il Li Voti). E spiegarono di essere finiti
lì perché poco prima uno sconosciuto in vena
di beneficenza, avendoli sentiti parlare ad alta voce (loro
che non si conoscevano...) del proprio desiderio di unirsi
carnalmente con donne possibilmente belle, li aveva generosamente
condotti fin su nell'appartamento. Che lì li aveva
affidati a una donna, la quale se ne era andata anche lei
promettendo di tornare con tante giovani avvenenti, un cast
erotico al completo. E, guarda un po', invece delle donnine
legnanesi erano arrivati i carabinieri. Cabaret, purissimo
cabaret.
Vediamo il pedigree
Ora vediamo il pedigree di alcuni di questi incontinenti
signori. Signor Pelullo: arrestato in Pinerolo e Torino
per porto abusivo di pistola e sequestro di persona, perseguito
per concorso in furto aggravato a Milano. Signor Bonanno:
scarcerato da qualche mese dopo essere stato arrestato dai
carabinieri di Torino per furto, sequestro di persona e
associazione per delinquere, perseguito a Milano per emissione
di assegni a vuoto. Signor Rinella, precedenti a Torino
per sfruttamento della prostituzione e reati contro il patrimonio.
Signor Montalto: per una maledetta combinazione (un complotto
giustizialista si direbbe oggi) molto somigliante con il
photofit di uno degli esecutori del triplice omicidio palermitano
del 15 febbraio, intestatario del biglietti aerei acquistati
a Palermo quello stesso giorno, vittima dell'informazione
proveniente da Palermo secondo cui i killer dopo la strage
si erano diretti a Cinisi, vi avevano acquistato biglietti
aerei ed erano partiti per località sconosciute.
Signor Barbagallo (quello della colt con tre colpi mancanti
dal tamburo): vittima della improvvida dichiarazione della
moglie secondo cui il marito se n'era tornato il giorno
prima in aereo dalla Sicilia (circostanza poi non confermata
in sede di prima testimonianza ufficiale; il marito sostenne
di essere andato e tornato in autostrada con la Bmw); e
vittima soprattutto della malvagia combinazione che aveva
voluto che la strage palermitana fosse compiuta con arma
analoga a quella trovatagli addosso.
Insomma, un bel pacchetto di mischia. Uno spumeggiante gruppetto
di amici in cerca di riparo nella casa di un boss latitante,
il quale gliela aveva messa a disposizione ritenendola evidentemente
al sicuro (tanto da abitarvi tranquillamente lui stesso).
A fare da collante tra picciotti palermitani e picciotti
catanesi c'era il comune terreno operativo piemontese; e
insieme ai siciliani ecco Li Voti, l'amico americano, la
grande America che non perde mai di vista le famiglie della
madrepatria.
E Renis?
D'accordo, volete sapere di Tony Renis. Tra un poco ci arriviamo.
I carabinieri, sulla base degli elementi raccolti, dichiararono
dunque in arresto i sette simpatici precursori dell'odierno
turismo sessuale e, in attesa di mandarli a San Vittore
a disposizione dell'autorità giudiziaria, li tennero
in camera di sicurezza per alcuni giorni. Molte le accuse.
Montalto, Barbagallo e Li Voti vennero ritenuti responsabili
del triplice omicidio palermitano. Di Montalto e Barbagallo
abbiamo già ricordato qualcosa. Di Li Voti bisogna
aggiungere che egli era, stando ai parametri in voga in
quegli ambienti, l'uomo di maggior rispetto. Era il più
anziano, infatti, essendo allora cinquantenne. Era palermitano
come Montalto. Con radici palermitane. Ma abitava da molto
tempo a New York, e perciò faceva John Richard di
nome. La procura milanese non convalidò gli arresti
per ragioni procedurali; ma fece scattare contemporaneamente
ordine di cattura per tutti gli imputati, data la estrema
gravità degli indizi, rafforzata dalla circostanza
che gli arrestati, di fronte alle dettagliate contestazioni
dell'accusa, dovettero finalmente ammettere di conoscersi
tra loro.
Agendina, maledetta agendina
Vennero dunque condotte indagini scrupolose sui singoli
succitati signori. Ebbene, sull'agendina personale di John
Li Voti l'americano, uno dei tre "fortemente indiziati"
per il triplice omicidio palermitano, spiccò tra
i numeri di telefono italiani un'utenza romana, intestata
al signor Elio Cesari. Volete sapere chi era? Semplice,
era un signore che in arte, ancora oggi, fa Tony Renis.
Oddio, lo sappiamo, certo che lo sappiamo. Che male c'è
se si trova il nome di un tizio sull'agendina personale
di un presunto boss omicida, può capitare a chiunque,
anzi capita spesso; addirittura in America (così
ci è stato assicurato dai massimi dirigenti Rai)
guai se non capita almeno una volta, nessuno può
avere altrimenti successo nel mondo della musica, del cinema,
del teatro e forse della letteratura. Eccetera eccetera.
E che male c'è, poi, se sulla stessa agendina compare
anche l'utenza milanese del padre di quella persona? Se
c'è il figlio può benissimo starci anche il
padre, no?
A questo punto del racconto vorrete sapere se nella lepida
vicenda vi sia qualcosa d'altro oltre ai numeri di telefono
di Tony Renis trovati nell'agenda dell'uomo di rispetto
venuto da New York. Qualcosa di più impegnativo,
di più coinvolgente per il cantante. Giusta curiosità.
Ma per soddisfarla dovrete aspettare fino a domani. D'altronde
sono già passati venticinque anni...
l'Unità, 29 gennaio 2004, 1/continua
Le calorose telefonate
di Tony Renis
di Nando dalla Chiesa
Le chiamate (numerose), gli inviti a cena e le tempestive
offerte di soccorso a John Li Voti incappato nelle maglie
della giustizia: continua il nostro viaggio tra le relazioni
pericolose dell'autore di "Quando quando quando"Che
rapporto c'era dunque tra John Richard Li Voti, l'uomo venuto
in Italia da New York, e accusato dai carabinieri di Legnano
e di Milano di avere preso parte all' omicidio di tre mafiosi
a Palermo il 15 febbraio del 1978, e il cantante Tony Renis?
Davvero tutto si limitava alla (ovvia, naturale, ci mancherebbe...)
presenza dei recapiti telefonici del cantante nell'agendina
personale dell'italo-americano? E perché abbiamo
presentato questa piccola storia come una amabile barzelletta?
Vediamo.
Telefonate e lauti pranzi
Il dettaglio rivelatore venne messo nero su bianco il 20
febbraio. Quel giorno, mentre i carabinieri avrebbero dovuto
occuparsi, indisciplinati che non sono altro, delle Brigate
rosse, vi fu un balordo sottufficiale che, a stento dissimulando
il suo sconcerto, lasciò scritto per il proprio comandante
un appunto da niente, roba che in America neanche ci badano,
tante sono le volte che capitano questi episodi. Annotò,
il sottufficiale, che all'ora di cena aveva telefonato in
caserma (provate a indovinare) un tale Tony Renis. Il quale
si informava se il signor Li Voti aveva ricevuto il pacco
che lui, sì, proprio il cantante di "Quando
quando quando", gli aveva fatto mandare tramite il
padre. Ed essendo un tipo davvero premuroso, il Tony Renis
pregava anche di chiedere all'arrestato se per caso avesse
bisogno di un avvocato. Un tentativo di contatto sporadico,
o addirittura solitario? No: le chiamate del cantante furono
molte di più di quella registrata il 20 sera. Lo
riferì per iscritto l'ufficiale competente del nucleo
investigativo, il quale rilevò che il Renis aveva
"soventemente telefonato" e che anzi il suo genitore
aveva garantito al Li Voti una assidua e generosa assistenza
portandogli o facendogli portare tutti i giorni dei "lauti
pranzi" in camera di sicurezza.
C'entra pure Santa Rosalia
I carabinieri andarono oltre. Fecero indagini a ritroso
sui viaggi del siculo-americano a Milano. E appurarono che
dall'hotel milanese in cui aveva soggiornato l'anno prima,
il signor Li Voti aveva chiamato (provate sempre a indovinare)
proprio Tony Renis. Contemporaneamente procedettero ai primi
interrogatori. E in quella sede l'eclettico cittadino di
New York fornì la sua versione sul viaggio che lo
aveva portato in Sicilia. Raccontò che, non potendo
la sua ditta di costruzioni lavorare a causa del maltempo,
aveva preferito, proprio come il più dinamico dei
manager, fare un salto nel nostro paese per sbrigare delle
commissioni. E da buon costruttore edile, appena arrivato
a Milano il sabato mattina, dove era andato? In treno a
Sassuolo per visitare una fabbrica di ceramiche.
Purtroppo, ci credereste?, il sabato pomeriggio aveva trovato
la fabbrica chiusa. Una faticaccia inutile, non gli era
venuto in mente di fare prima una telefonata per verificare
se la fabbrica fosse aperta. Così era andato a dormire
a Modena. Per partire da Bologna verso Palermo il giorno
dopo, senza lasciare traccia del suo passaggio per Milano.
Li Voti, che risultò imparentato con la famiglia
Inzerillo (ai vertici della gerarchia mafiosa palermitana
dell'epoca), disse anche di essere presidente di una associazione
che a Brooklyn onorava Santa Rosalia; e di avere perciò
approfittato del viaggio a Palermo per comprare (in attesa
di cercare donnine allegre a Legnano) una statua della santa
per le processioni religiose. E che poi era tornato da Palermo
a Milano per incontrare il "vecchio amico" Tony
Renis, venuto più volte in America; amico che lui
voleva invitare di nuovo negli Stati Uniti per una tournée.
Precisò pure che era tale l'amicizia che egli pensava
di potersi fare ospitare proprio da Tony Renis non appena
tornato dalla sua, diciamo così, missione a Palermo;
e che lo aveva cercato telefonicamente più volte
senza trovarlo. Aggiunse che con Tony Renis, in Italia,
si era incontrato l'anno prima a Roma, e che ne era stato
invitato a cena. Manco a dirlo, era venuto dall'America
con un impresario dello spettacolo suo amico, tale Fragale,
che andava...al festival di Sanremo.
Roba da film? No...
Vanterie, frottole di un italo-americano astuto che nel
suo interrogatorio sembrò in effetti raccontare molte
cose inverosimili, degne della più faceta cinematografia
sulla mafia? No, perché lo stesso Tony Renis, sentito
dall'autorità giudiziaria (ma qui rispetteremo la
riservatezza della sua deposizione nella veste di testimone),
confermò proprio tutto. Le tournée, il cordiale
rapporto, le telefonate, l'invito a cena a Roma. Sicché
anche quella con John Richard Li Voti va fatta rientrare
a pieno titolo tra le sue (come recita il linguaggio Rai)
"presunte amicizie".
Sette poveri innocenti...
La barzelletta continua così. Il processo venne scomposto
in tre tronconi per le diverse imputazioni: a Palermo, a
Torino e a Milano. A Palermo i tre accusati di omicidio
furono prosciolti due anni dopo in sede istruttoria. Gli
strumenti investigativi ma anche le conoscenze dell'epoca
(ad esempio sull'esistenza di una struttura di comando come
la Cupola o Commissione) non consentirono, per rispetto
delle garanzie, di andare oltre. In Piemonte ci fu un simpatico
proscioglimento dalle altre accuse maggiori. A Milano, invece,
restò la contestazione della associazione a delinquere
per tutti e sette. Come finì? Dopo la bellezza di
otto anni la sentenza del giudice istruttore (del quale,
giusto per rendere più salace la barzelletta, verrebbe
la voglia di fare il nome) confermò al millimetro
i fatti raccontati ma prosciolse leggiadramente tutta la
comitiva; e questo benché da Palermo i giudici in
prima linea, che nel frattempo avevano messo a fuoco il
ruolo degli imputati, si affannassero a sottolinearne la
pericolosità.
Si ebbe insomma una di quelle tipiche decisioni che hanno
costellato la storia amena dei rapporti tra Stato e mafia;
una sentenza in tutto simile, per logica giudiziaria, a
quella che mandò assolti gli assassini del capitano
Basile. Con l'eccezione del porto d'armi per il Barbagallo,
fu così stabilito trattarsi di sette poveri innocenti,
a cui i carabinieri (da bravi sbirri bacchettoni) avevano
ingiustamente negato sul più bello la soddisfazione
di umanissimi desideri sessuali. Tirarono essi dunque il
fiato e ripresero ad andare per la propria strada. Come
qualcuno, è certo, tirerà il fiato anche oggi.
Perché, non c'è che dire, fa davvero la sua
bella figura il Tony Renis che offriva generoso e tempestivo
soccorso al signor Li Voti immacolato e devoto di Santa
Rosalia, alla stregua di un evangelico missionario. Anche
se proprio la presenza del Li Voti era apparsa al sostituto
procuratore milanese (che aveva chiesto per i sette almeno
la libertà vigilata) un indizio consistente che quella
riunione nella palazzina di Legnano fosse in realtà
un "vertice mafioso".
Ah, il caso maligno...
Volle poi il caso maligno che proprio uno di quei signori
trovati nell'appartamento e che -per carità- non
facevano parte di un'associazione a delinquere, ossia Francesco
Paolo Rinella, venisse assassinato poco tempo dopo in uno
scontro tra i clan mafiosi di Torino, a certificare che
la "giustizia" mafiosa, sbrigativa e sanguinaria,
arriva anche quando non arriva quella dello Stato. Volle
ancora il caso maligno che Salvatore Montalto, quello che
aveva accompagnato a Milano John Li Voti alla ricerca di
Tony Renis, fosse individuato e condannato all'ergastolo
come capo-mandamento di Villabate e componente della Commissione,
e che per gli anni settanta venisse annoverato tra i fedelissimi
di Salvatore Inzerillo; e ancora che il triplice omicidio
fosse avvenuto proprio sul territorio, Passo di Rigano,
controllato dagli Inzerillo, imparentati, come abbiamo detto,
con il Li Voti, che di Passo di Rigano era -per combinazione-
originario. Ma si tratta di dettagli.
Per il resto c'è da ridere. Certo, la barzelletta
è vecchiotta, pur se quasi inedita, visto che ha
avuto forse circolazione limitata alle caserme dell'Arma.
Ma diventa nuova di zecca se si pensa che il suo benefico
protagonista è oggi il testimonial della Rai, del
servizio pubblico che festeggia il suo mezzo secolo di vita,
della televisione di quello stesso Stato -mica un altro-
che ogni tanto celebra compunti funerali dei propri improvvidi
servitori eliminati da Cosa nostra.
Eccoci a Sanremo
Così è lo Stato, così è Sanremo.
Dove può vincere, commuovendo tutti, "Minchia
signor tenente", e poi può arrivare con il bastone
di comando l'amico dichiarato dei mafiosi. Avevamo già
raccontato, in ottobre su questo giornale, delle amabili
frequentazioni degli ambienti di Cosa nostra da parte di
Tony Renis: da Joe Adonis agli Spatola a John Gambino, con
tutti i dintorni del falso sequestro Sindona. Non illazioni,
non malignità, non "presunte amicizie",
non "prestazioni artistiche". Ma atti ufficiali,
dichiarazioni dello stesso Tony Renis, amicizie rivendicate
pubblicamente come trofei, proprio come l'auto di Al Capone
con cui egli -si era già passati agli anni novanta-
arrivò festante al suo matrimonio milanese tra una
folla di autorità. E ancora: non "una telefonata",
ma tante telefonate, rapporti di intimità e di deferenza
con Joe Adonis e Samuel Lewin (altro trafficante internazionale),
come può verificare qualsiasi parlamentare della
commissione antimafia che si voglia prendere la briga di
consultarne gli atti riservati (dei quali per discrezione
non farò citazione ).
Ricorderemo solo che, fra tutti, John Gambino in particolare
era per Tony Renis un benefattore, "il più grande
amico che ho in America", "un uomo che stimo,
che lavora, intelligente, generoso", a cui "voglio
dire un grazie con la 'G' maiuscola". Dice: ma che
c'entra, Gambino è roba americana. Purtroppo no.
Gambino è stato condannato in via definitiva proprio
in Italia. Sei anni e mezzo di carcere. Il motivo principale?
Era al vertice, "il punto di convergenza e la destinazione
finale in America", scrissero i magistrati siciliani
negli anni ottanta, di tutta l'eroina spedita dalle famiglie
palermitane oltreoceano. Tra le sue fonti di approvvigionamento
una raffineria di Alcamo che produceva l'inezia di quattro
tonnellate di eroina all'anno.
Che non si fa per gli amici...
Che cosa non si fa per gli amici. Ognuno se li sceglie dentro
le barzellette che preferisce. E con l'intuito che si ritrova.
Renis, d'altronde, di intuito ne ha da vendere. O non fu
lui che telefonò ai carabinieri per chiedere come
stesse John Richard Li Voti quando questi era ancora in
camera di sicurezza e senza avvocato? Oddio, già,
perché se non si trattasse di intuito miracoloso,
verrebbe da chiedersi: ma come lo seppe, da quali amici
seppe che avevano preso l'uomo di New York?
P.S. Tutti i fatti raccontati sono tratti scrupolosamente
da atti e documenti ufficiali
l'Unità, 30 gennaio 2004, 2/fine
Regime alla sanremese
Se qualcuno aveva un dubbio (ma c'è il regime
in Italia?), la puntata di "Porta a porta" di
mercoledì il 14 gennaio 2004 l'ha dissolto, disperso
nel vento. Sui temi politici si sa, il padrone non vuole
sbavature. Ma è sui "temi leggeri" che
si mostra la terribile, agghiacciante realtà della
propaganda. Il berlusconismo si fa senso comune, deborda
dalla politica, entra nelle vite, s'impone come immaginario
collettivo. Ed ecco qua: Sanremo, Vespa, Tony Renis: terrificante.
Con i sorrisi, gli elogi al grande Tony Renis del reduce
Pappalardo, le facce tristi dei redivivi cantanti un tempo
famosi, il ministro che si compiace. E, ciliegina sulla
torta di regime, Willer Bordon, che era lì per par
condicio (uno contro tutti in quota all'opposizione...)
e invece (Vespa ci aveva scommesso e conoscendo il
nostro pollo ci avremmo scommesso anche noi) è
stato il più zuccheroso, il più insopportabile
supporter dell'operazione. Ma quando Willer smetterà
di tenere bordon a Vespa? (gb)
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