Luomo nuovo della finanza italiana si chiama Salvatore
Ligresti. È arrivato al centro del sistema assicurativo.
È stato a un passo dallentrare nel salotto
buono che controlla il Corriere della sera. E nei prossimi
mesi sentiremo parlare molto di lui.
Nuovo? Ma Ligresti non è il vecchio protagonista
di tante storie del passato, il finanziere siciliano dalle
origini misteriose, luomo chiacchierato per i suoi
presunti rapporti mafiosi, il palazzinaro travolto dagli
scandali, limprenditore sullorlo del fallimento
salvato dalle banche, il pregiudicato di Tangentopoli affidato
ai servizi sociali? Sì, è lui. Ma è
anche la stessa persona che oggi è celebrata dal
Sole 24 ore con un servizio di cinque pagine sul supplemento
Plus e un titolo entusiasta: «Il nuovo Ingegnere».
Lunedì 9 settembre 2002 cè stato il Ligresti
day. La domanda che ha tenuto sveglio per le settimane precedenti
il mondo della finanza, della politica, del potere era: riuscirà
don Salvatore a entrare nel patto di sindacato di Hdp, la
finanziaria che controlla il Corriere? Di conseguenza, riuscità
a imporre una linea più berlusconiana al primo quotidiano
italiano? La risposta è stata un colpo di teatro, una
mossa a sorpresa: niente Ligresti in Hdp, ma Franco Tatò
nuovo presidente della società.
Eppure un fatto resta: Salvatore Ligresti, che per almeno
un paio di volte negli ultimi quindici anni era stato dato
per spacciato, finito, fallito, fuori dai grossi giri, è
tornato invece alla grande sulla scena dei soldi e del potere.
Assalto al corrierone. Don Salvatore, dunque, inizia ora
una nuova vita. Il vecchio arnese è diventato nuovo
di zecca grazie alla sua conquista, nel maggio scorso, della
Fondiaria, solida compagnia assicurativa fiorentina. Il
punto di svolta avrebbe dovuto poi essere lingresso
nel Corriere della sera. Ligresti, secondo lopposizione,
è il cavallo di Troia di Berlusconi spinto dentro
le mura di via Solferino. Certo, il quotidiano non ha una
linea antigovernativa e ospita spesso interventi fortemente
critici nei confronti delle opposizioni, ma Berlusconi non
riesce comunque a sopportare che sulla più autorevole
testata italiana compaiano anche gli editoriali di Giovanni
Sartori sul conflitto dinteressi, i commenti pungenti
e ironici di Enzo Biagi, i sondaggi di Renato Mannheimer
che quando la popolarità del premier cala lo rilevano.
Cesare Previti, del resto, ha mandato segnali chiari contro
il giornalista Giovanni Bianconi, reo di raccontare i processi
in cui è imputato e le vicende che riguardano lui e
il premier, come fanno anche gli altri scrupolosi cronisti
giudiziari milanesi del quotidiano, Paolo Biondani, Luigi
Ferrarella, Paolo Foschini. E gli avvocati di Berlusconi Gaetano
Pecorella e Niccolò Ghedini hanno addirittura querelato
il direttore, Ferruccio de Bortoli, per un fondo critico sul
«legittimo sospetto», ma in cui, tra laltro,
si criticava duramente anche il centrosinistra.
Insomma, per quanto moderato e pluralista, e qualche volta
cerchiobottista, questo Corriere non piace a Berlusconi, che
da tempo esercita pressioni per «normalizzare»
via Solferino. Larma segreta? Salvatore Ligresti. Sì,
perché il Corrierone è controllato al 100 per
cento da Hdp, la società di Cesare Romiti in cui sono
rappresentati tanti autorevoli soci, e in cui è entrato,
comprando poco meno del 4 per cento, anche don Salvatore.
Per ora larma segreta non ha funzionato: gli autorevoli
soci hanno lasciato Ligresti fuori dalla porta e Berlusconi
a bocca asciutta. Romiti, Mittel, Banca Intesa, Pirelli, Fiat,
Edison hanno costretto gli altri, Mediobanca, Generali, Lucchini,
Pesenti, a non farne niente. Ma domani, si vedrà. Ligresti
resta in piedi fuori dalla porta, è paziente e aspetta.
Certo che il destino gioca strani scherzi: don Salvatore braccio
armato di Berlusconi? Eppure i due non si sono mai amati.
Erano troppo simili per andare daccordo, negli anni
Ottanta: stesso business, il mattone; stessa piazza, Milano;
stessi sponsor, i socialisti; stesso punto di riferimento,
Bettino Craxi. Però di acqua ne è passata, sotto
i ponti del Naviglio di quella che fu la Milano da bere. E
don Salvatore, lamico di Bettino, oggi deve fare i conti
con lamico dellamico. Oggi come ieri, la politica
sintreccia strettamente con gli affari. Ieri fu lui,
Ligresti, ad accompagnare Craxi negli uffici di Mediobanca,
stabilendo il contatto tra il leader socialista ed Enrico
Cuccia: contatto prezioso, per avviare la privatizzazione
di Mediobanca sotto la regia dello stesso Cuccia. Oggi la
regia di Mediobanca ha permesso di consolidare la centralità
di Ligresti, che può diventare una buona sponda per
Berlusconi. Ma i suoi punti di riferimento politico sono più
ampi: spaziano dalle file di An a quelle dei centristi democristiani.
Con la famiglia La Russa il rapporto è storico: don
Salvatore era fin dagli anni Sessanta molto vicino al patriarca,
il senatore missino Antonino La Russa, suo compaesano di
Paternò, in provincia di Catania. Il figlio di Antonino,
Ignazio La Russa, lo ha visto crescere: ragazzino, poi mazziere
del Msi, infine leader e presidente dei deputati di An.
A lui Ligresti mise addirittura a disposizione la sua tv,
Telelombardia, che ha contribuito a rendere famosa quella
faccia luciferina.
Oggi cè un altro uomo dentro An che è
molto vicino a Ligresti: Massimo Pini, consigliere del ministro
delle Comunicazioni Maurizio Gasparri. Anche in questo caso
il rapporto viene da lontano: da quando Pini era socialista,
messo da Craxi a fare prima il consigliere damministrazione
della Rai, poi il membro dellufficio di presidenza dellIri,
con la missione di fare la guerra allallora presidente
Romano Prodi. Ora Pini ha traslocato dal garofano ad An in
nome del suo mai ripudiato credo: la necessità dellintervento
statale nelleconomia; ed è stato voluto da Ligresti
nel consiglio damministrazione della Fondiaria appena
conquistata.
Ma il politico centrale di questa storia è un altro:
Bruno Tabacci. È lui il regista di una vicenda che
intreccia finanza, politica e giornali. Democristiano, ex
presidente della Regione Lombardia, oggi Tabacci, centrista
dc alleato con Forza Italia, è presidente della commissione
Attività produttive della Camera. Ma è anche
luomo più ascoltato da Vincenzo Maranghi, lamministratore
delegato di Mediobanca, il successore di Cuccia.
Fa politica in proprio, Tabacci, incrociando sapientemente
nei mari della finanza e dei poteri italiani. Sul suo rapporto
con la banca che fu di Cuccia ironizza: «Ma quando
si smetterà di dire che Tabacci è molto vicino
a Mediobanca e si dirà invece che Mediobanca è
molto vicina a Tabacci?». Non chiedetegli però
di spiegare con la politica loperazione Ligresti in
Hdp. È solo finanza, giura. È il punto dapprodo
di una partita iniziata un anno fa.
CACCIA ALLA FONDIARIA.
Ai primi di luglio 2001, la Fiat lancia unOpa (unofferta
pubblica dacquisto) sulla Montedison, con lobiettivo
di entrare nel settore dellenergia: un business redditizio
e anticiclico, prezioso, in tempi di crisi, per una Fiat
in crisi nera. Subito si mette in moto Mediobanca, che di
Fiat è diventata la grande nemica: vuole impedire,
costi quello che costi, che la casa torinese si impossessi
di Fondiaria, la compagnia dassicurazioni fiorentina
controllata da Montedison. Maranghi chiede dintervenire
a uno che, con tutto quello che ha ricevuto da Mediobanca,
non può certo rifiutare: Salvatore Ligresti. La sua
compagnia assicurativa, la Sai, compra il 6,7 per cento
di Fondiaria e simpegna a rilevare un ulteriore 22,2
per cento. Il prezzo è da amatori: 9,5 euro per azione,
roba da svenarsi. Ma non importa, tanto è Mediobanca
che sincarica di trovare i soldi.
A questo punto però arriva lintoppo: la Consob
(lautorità di controllo sulla Borsa) analizza
loperazione e dice che è contro le regole:
se la Sai vuole Fondiaria, saccomodi, ma deve lanciare
una trasparente, pubblica Opa sul 100 per cento del capitale.
Una mossa da far affondare la Sai. E troppo anche per Mediobanca.
Ma gli ostacoli si possono saltare, oppure aggirare: e laccoppiata
Ligresti-Mediobanca questo ostacolo lo aggira. Scova una
banda di «cavalieri bianchi» (Jp Morgan Chase,
Interbanca, Mittel, Commerzbank) guidata dal finanziere
Francesco Micheli che compra il pacchetto di Fondiaria e,
a cose fatte, lo gira alla Sai. Visto lanadazzo, alla
Fondiaria non resta che fare buon viso a cattivo gioco e
accettare, nel maggio 2002, la fusione con Sai.
Risultato: Mediobanca ha sgambettato la Fiat, e soprattutto
ha posto le basi per un grande polo italiano delle assicurazioni,
saldamente sotto la sua tutela. Sai più Fondiaria
vuol dire la prima compagnia assicurativa italiana nel ramo
danni. Se poi si sommano anche le Generali, già nellorbita
di Mediobanca, si ottiene un colosso, pieno di ottimi pacchetti
azionari (della Pirelli, di Gemina, di Hdp, della stessa
Mediobanca...). Non solo: si ottiene un polmone finanziario
pronto per nuove operazioni. Insomma, un centro economico
di primo piano, sotto lombrello di quella Mediobanca
che, dopo la morte di Cuccia, sembrava destinata soltanto
a sfogliare lalbum dei ricordi di un passato glorioso.
E Ligresti? In questa operazione ha guadagnato molto in
prestigio, riuscendo a compiere la sua ennesima resurrezione.
Quanto ai soldi, è un altro discorso: ne ha spesi
tanti, e in più la Borsa va male; insomma, don Salvatore
è finito come al solito nelle mani di Mediobanca,
il suo principale finanziatore. E Mediobanca gli ha imposto
proprio a lui, abituato a fare tutto in famiglia
il manager che dora in poi dovrà stare
attento ai conti: Enrico Bondi, ex risanatore di Montedison,
ha lasciato la Telecom e i suoi uliveti in Toscana e il
5 settembre è diventato amministratore delegato della
Premafin, la holding del gruppo Ligresti.
ODORE DI MAFIA.
Non è la prima volta che Ligresti finisce nelle mani
di Mediobanca. Cuccia era già stato la sua salvezza,
lapprodo e la legittimazione di un outsider della
finanza senza alcun passato. Salvatore Ligresti arriva a
Milano sul finire degli anni Cinquanta. Non ha alcun capitale,
solo una laurea in ingegneria conseguita alluniversità
di Padova e una furbizia innata, un gran fiuto per gli affari.
È siciliano, è nato il 13 marzo 1932 a Paternò,
in provincia di Catania. Ma è a Milano che stringe
i rapporti che gli schiuderanno le porte del successo. Il
suo primo maestro è Michelangelo Virgillito, suo
compaesano di Paternò, grande corsaro di Borsa nella
Milano del «miracolo economico». Il secondo
è Raffaele Ursini, luomo che eredita da Virgillito
il gruppo Liquigas e lo porta rapidamente al fallimento.
Da loro Ligresti impara a muoversi nel mondo degli affari
immobiliari e della finanza. Da Michele Sindona rileva la
Richard-Ginori, ricca di aree da valorizzare. Da Ursini
eredita il primo pacchetto dazioni Sai. Anzi, più
che uneredità sembra uno scippo: Ursini, dopo
il crac, scappa in Brasile, lasciando il prezioso malloppo
nelle mani del figlioccio. Non riuscirà più
a ritornarne in possesso. Per Ursini, si trattava di una
«vendita simulata»: il 20 per cento regalato,
il 10 ceduto con la formula del «patto di riscatto».
Ma Ligresti la racconta in modo diverso: le azioni sono
state da lui regolarmente acquistate e pagate. Una sentenza,
dopo un contenzioso iniziato nel 1988 e durato anni, gli
darà ragione.
Lavventurosa conquista della Sai avviene comunque
con la partecipazione di una piccola folla di strani personaggi.
Cè il senatore missino Antonino La Russa, padrino
di Virgillito e Ursini, che dopo che i due escono di scena
prende sotto tutela il giovane Totò Ligresti. Cè
Luigi Aldrighetta, operatore finanziario palermitano che
fa da mediatore per lacquisto da parte di don Salvatore
di un ulteriore, grosso pacco di azioni Sai. Ci sono i sei
fratelli Massimino, costruttori catanesi partiti da zero
(erano muratori) e diventati potenti: erano intestate a
loro due misteriose finanziarie, la Finetna e la Premafin,
che controllavano la Sai nel periodo dinterregno tra
la fuga di Ursini e larrivo palese di Ligresti ai
vertici della compagnia.
Attorno al finanziere siciliano, comunque, a Milano crescono
subito leggende nere, che adombrano rapporti sotterranei
con la mafia. La domanda che circola nei salotti buoni è:
ma dove ha preso, questo signore, tutti quei soldi? Come
ha potuto diventare il padrone della Sai un uomo che nel
1978 dichiarava al fisco un reddito di 30 milioni? Come
ha fatto a diventare, in pochi anni, uno dei cinque uomini
più ricchi dItalia, uno dei pochi italiani
presente nelle classifiche di Forbes e Fortune?
Prima sono solo calunniosi venticelli, poi le maldicenze
singrossano e diventano insistenti, anche perché
la famiglia Ligresti resta vittima di un episodio drammatico
e oscuro. Don Salvatore a Milano ha fatto un buon matrimonio,
perché ha sposato la figlia di un personaggio chiave
per gli affari edilizi, Alfio Susini, provveditore alle
opere pubbliche della Lombardia. Antonietta Susini, detta
Bambi, diventa la moglie del palazzinaro rampante, ma nel
1981 subisce un sequestro di persona. La soluzione è
rapida: Bambi, rapita a Milano il 5 febbraio, viene liberata
nei pressi di Varese dopo poco più di un mese, dietro
il pagamento di un riscatto, pare, di 600 milioni di lire.
Ma cè un risvolto inatteso: degli uomini individuati
come i presunti rapitori, tutti esponenti delle famiglie
perdenti della mafia palermitana, due, Pietro Marchese e
Antonio Spica, finiscono morti ammazzati; il terzo, Giovannello
Greco, fedelissimo del vecchio capo di Cosa nostra Stefano
Bontate, scompare nel nulla. È chiamato «il
re degli Scappati» (i mafiosi palermitani che per
anni sperano nella rivincita). Viene segnalato tra Ibiza
e Maiorca, arrestato in Spagna nel 1997 e poi ancora nel
1999, ogni volta svanisce nel nulla. Fino al maggio 2002,
quando si costituisce e viene estradato in Italia.
Sulla presunta mafiosità di Ligresti vengono compiute
anche indagini ufficiali, molto discrete, senza che nulla
trapeli. Nel 1984 il procuratore della Repubblica di Roma,
Marco Boschi, invia a polizia, carabinieri e guardia di
finanza una richiesta che dice: «Ai fini di uneventuale
proposta per lapplicazione di misure di prevenzione,
prego fornire le informazioni del caso in ordine a Finocchiaro
Franco, residente a Catania, e a Ligresti Salvatore, residente
a Milano». Dunque Ligresti (insieme a Finocchiaro,
che con Carmelo Costanzo, Mario Rendo e Gaetano Graci è
uno dei quattro «cavalieri dellApocalisse»
catanesi) è stato oggetto di unindagine di
polizia, di quelle che si facevano nei confronti dei sospetti
mafiosi per valutare leventuale richiesta di misure
di prevenzione quali il confino. Nel 1985 il fascicolo Ligresti,
che era stato assegnato al sostituto procuratore Franco
Ionta, viene inviato a Milano, dove se ne occupa Piercamillo
Davigo, in un secondo momento affiancato da un altro magistrato
della Procura, Filippo Grisolia, che già si occupava
dellinchiesta per corruzione (come vedremo) sulle
aree doro.
Dopo alcuni anni di accertamenti, il dossier Ligresti a
Milano è stato chiuso, senza alcuna conseguenza.
Aperte restano però alcune domande: perché
la Procura di Roma aprì linchiesta? sulla base
di quali elementi e segnalazioni? e perché Ligresti
era affiancato a Finocchiaro, cavaliere catanese? Il nome
di Ligresti compare anche in unaltra indagine giudiziaria,
svolta da Ernesto Cudillo, in rapporto alla compravendita
di un palazzo alluniversità romana di Tor Vergata,
che ha come protagonista Manlio Cavalli, secondo i carabinieri
legato alla banda della Magliana e al boss di Cosa nostra
nella capitale, Pippo Calò. Indagine senza risultati,
dunque archiviata.
Il nome di Ligresti torna a essere avvicinato alle vicende
di mafia negli anni Novanta, a Palermo. Questa volta a parlarne
è una voce dallinterno di Cosa nostra, lultimo
dei grandi collaboratori di giustizia: Angelo Siino, limprenditore
considerato il «ministro dei lavori pubblici»
della mafia siciliana. Siino, che conosce bene gli affari
e i loro protagonisti, racconta che Ligresti aveva come
diretto referente mafioso nientemeno che Nitto Santapaola,
il boss di Cosa nostra a Catania. Tanto potenti erano i
suoi protettori, che nel 1991, secondo Siino, furono addirittura
sconvolti gli equilibri consolidati nellassegnazione
degli appalti, quelli che esigevano che fosse la Gambogi,
gruppo Ferruzzi, a costruire in Sicilia; sempre secondo
Siino, intervenne il potentissimo commercialista palermitano
Piero Di Miceli, con la mediazione di Raffaele Ganci, a
sollecitare che la Gambogi si facesse da parte per lasciare
alla Grassetto di Ligresti un ricco appalto palermitano.
In mancanza di altri riscontri, anche queste dichiarazioni
sono però rimaste lettera morta.
Di queste storie, don Salvatore non vuole sapere niente.
Tace. Costruisce in silenzio il suo impero del mattone,
senza curarsi delle cattiverie che circolano su di lui.
Negli anni Ottanta è già limmobiliarista
più potente di Milano, con in cassaforte, oltretutto,
il pacchetto di azioni che gli permette di controllare la
Sai e una serie di piccole quote di società importanti,
dalla Pirelli (5,4 per cento) alla Cir di De Benedetti (5,2),
dalla Italmobiliare di Giampiero Pesenti (5,8) allAgricola
Finanziaria di Raul Gardini (3,7). Tanto che qualcuno comincia
a chiamarlo «Mister 5 per cento». Resta, per
la finanza italiana, un oggetto misterioso, dalle origini
sconosciute e con un impero dai confini incerti.
IL PRIMO MILIARDO E LE
AREE DORO. Per la prima volta accetta di concedere
unintervista nel febbraio 1986. A raccogliere le sue
spiegazioni è Anna Di Martino, del settimanale Il
Mondo. A lei, il suo primo miliardo lo racconta così:
«È una storia bellissima. Avevo saputo della
possibilità di acquistare il diritto per costruire
un sopralzo, in via Savona, in zona Genova. Ma ci volevano
15 milioni e io ne avevo solo 5. Ma non mi sono perso danimo.
Sono andato al Credito commerciale per chiedere un prestito
e mi ha ricevuto il direttore generale Mascherpa».
«Senza farle fare anticamera e senza raccomandazioni...»,
annota incredula lintervistatrice. E Ligresti: «Mascherpa
era un grande banchiere, un uomo di grosso intuito: io parlavo
e lui ascoltava e a un certo momento mi ha detto: Le
do 10 milioni. Quasi non ci credevo... Con quei 10
milioni ho fatto il progetto, ho rivenduto il diritto per
50 milioni, guadagnando in un colpo solo 35 milioni. Era
il 1962». E 35 milioni di allora erano più
o meno un miliardo di lire. Ma i veri metodi di lavoro di
don Salvatore saranno scoperti qualche mese più tardi,
quando scoppia il primo scandalo che lo coinvolge.
Ottobre 1986: il nuovo assessore allUrbanistica di
Milano, Carlo Radice Fossati, scopre nei suoi uffici tre
documenti con cui alcuni imprenditori (tra cui Ligresti)
promettevano di vendere al Comune, a prezzi stracciati,
le loro aree che invece stavano per essere comprate a prezzi
di mercato. Emerge un grande caso politico-urbanistico che
mette in evidenza, sei anni prima di Mani pulite, la trama
di commistioni tra politica e affari, gli accordi sotterranei,
le stecche, le corsie preferenziali. Salvatore Ligresti,
amico di Bettino Craxi e in ottimi rapporti con il sindaco
socialista Carlo Tognoli e lassessore comunista Maurizio
Mottini, diventa il simbolo dellimprenditore che riesce
a concludere ottimi affari grazie alla politica. Viene indagato
per corruzione e un pretore coraggioso, Francesco Dettori,
scopre una miriade di reati urbanistici compiuti nei suoi
cantieri, disseminati in tutta Milano.
Ma la scoperta più clamorosa agli occhi dei milanesi,
in realtà, è che lamministrazione di
sinistra ha dato la città in mano allo sconosciuto
palazzinaro venuto da Paternò: due terzi delle edificazioni
avviate dalla giunta, a colpi di miracolose varianti al
piano regolatore, sono targate Ligresti. Segue dibattito,
con polemiche infuocate. Cade la giunta, Tognoli è
costretto a dimettersi e Ligresti esce distrutto dallo scandalo
delle aree doro: con limmagine a pezzi e uno
stillicidio di piccole condanne per abusi edilizi. Ma è
il mercato il suo nemico più grande: i suoi palazzi
non si vendono, gli uffici restano vuoti, il terziario è
bloccato. Un fallimento anche per la politica e per la gestione
del sindaco Tognoli, che sullespansione del terziario
aveva puntato tutto, anche barando: quello che era stato
chiamato Piano Casa, varato in nome della necessità
di costruire abitazioni a prezzi contenuti, si era via via
trasformato in un diluvio di uffici, il più grande
mai permesso a Milano.
Ma gli affari sono più severi della politica, non
perdonano gli errori: palazzi invenduti vuol dire crisi.
Lindebitamento finanziario netto di Ligresti, infatti,
è da vertigine: più di 1.150 miliardi di lire,
una dozzina di volte il patrimonio netto. Per di più
il vecchio maestro, Ursini, si rifà vivo e trascina
Ligresti in tribunale, perché pretende che gli sia
restituita la sua Sai. Uno senza santi in paradiso, in queste
condizioni, sarebbe miseramente fallito nel corso di una
notte. Ligresti invece si salva: è nientemeno Enrico
Cuccia a correre in suo aiuto, inventando una manovra di
salvataggio da brivido. Il presidente di Mediobanca nel
1989 decide di imporre la quotazione in Borsa della Premafin,
chiedendo al mercato, come al solito in Italia, di sborsare
i soldi necessari. Cuccia impone per la Premafin una valutazione
di oltre 1.000 miliardi, quattordici volte gli utili (eccezionali:
72 miliardi) di un anno che non si ripeterà mai più.
La promessa di utili per 72 miliardi viene mantenuta, ma
soltanto grazie alle corsie preferenziali della politica
e dunque alle vendite di alcuni dei palazzoni vuoti di Ligresti
agli enti pubblici, forzando il mercato. Era Tangentopoli
allopera, ma ancora la parola non era stata inventata.
Ma perché Cuccia ha fatto questo per don Salvatore?
La risposta più convincente è una sola. Lasciar
fallire Ligresti significava lasciar andare chissà
dove la Sai, e con la Sai un suo piccolo pacchetto azionario,
a cui Cuccia teneva più dogni altra cosa: quello
di Euralux, finanziaria lussemburghese che controlla un
fascio determinate di Generali. Per tenerlo nellorbita
di Mediobanca, Cuccia era disposto a fare patti anche con
il diavolo. Così Ligresti è salvato e risorge
la prima volta.
Naturalmente il mercato, bistrattato nel 1989, si è
presto vendicato. Oggi Premafin, ristrutturata e ridotta
a una scatola cinese che controlla quasi soltanto Sai, vale
meno della metà del prezzo imposto da Cuccia nelle
giornate eroiche della quotazione in Borsa.
TANGENTOPOLI. La
via crucis di don Salvatore costruttore e martire continua.
Caduto la prima volta sul Golgota delle aree doro
e del terziario invenduto, rialzato da un Cuccia buon centurione,
cade la seconda volta sulla via di Mani pulite. Nel 1992,
infatti, il vento cambia, salta lomertà degli
anni delle aree doro. Iniziano le confessioni a catena,
i protagonisti delle tangenti, questa volta, parlano. Così
il 16 luglio, cinque mesi dopo larresto di Mario Chiesa
il «mariuolo», Ligresti viene portato in una
cella di San Vittore, che è costretto a dividere
con un tossicodipendente. «Se arrestano perfino Ligresti,
vuol dire che fanno sul serio», si commenta a Milano.
È accusato di corruzione per aver comprato a suon
di tangenti, per la sua società di costruzioni Grassetto,
gli appalti della metropolitana milanese e anche qualche
terreno pubblico. Nel 1993, nuova imputazione: è
accusato di aver fatto ottenere alla Sai, con supermazzette,
un superaccordo che sposa Eni e Sai, a cui è affidata
la gestione di tutti i contratti assicurativi dellente
petrolifero. Poi le accuse si moltiplicano, in una Mani
pulite che contagia una buona parte dItalia. Ligresti
è considerato un personaggio di primo piano nel sistema
di Tangentopoli, tanto che quando i magistrati di Milano
simbattono in una megatangente da 21 miliardi pagata
a Craxi da una misteriosa società estera chiamata
All Iberian, pensano che dietro ci sia Ligresti. Scopriranno
che invece cera il suo concorrente, Silvio Berlusconi.
«Facci il nome, facci quel nome, mi ripetevano,
e mi facevano una x con le dita. Ma io quel nome non lho
fatto», racconta oggi agli amici don Salvatore, ricordando
i lunghi mesi di galera. Il nome con la x, naturalmente,
è Craxi. Ma qualcosa, alla fine, ammette anche il
duro di Paternò. Il minimo indispensabile, ma parla.
Poi arrivano i processi e le condanne. La prima, per Eni-Sai,
è di 3 anni e 6 mesi, che sarà limata (2 anni
e 4 mesi) ma confermata anche in Cassazione. Niente galera,
nel sistema italiano, solo affidamento ai servizi sociali,
cioè una chiacchierata ogni tanto con unassistente
sociale e un piccolo impegno per la Caritas ambrosiana.
Ma la pena ha un risvolto assai spiacevole: il codice prevede
che una condanna definitiva faccia venire meno i requisiti
di «onorabilità» necessari per guidare
le compagnie dassicurazione; per questo il pregiudicato
Ligresti ha dovuto lasciare tutte le cariche sociali. A
sostituirlo, almeno per la legge, sono i figli: Jonella,
35 anni, è presidente della Sai, vicepresidente di
Premafin e unica donna a sedere nel consiglio damministrazione
di Mediobanca; Giulia, 34 anni, siede nei consigli di Sai,
Premafin e Telecom, ma è più interessata alle
sue borse e accessori in pelle, che disegna di persona e
commercializza con il marchio Gilli. Paolo, 33 anni, è
presidente di Sai International e vicepresidente di Atahotel,
la società che controlla gli alberghi del gruppo.
Ora, con Bondi alla guida di Premafin, i rapporti al vertice
del gruppo saranno più complicati, specie per Jonella,
che ha già dimostrato di non voler essere solo una
prestanome del padre. Ligresti, comunque, benché
sotto la tutela di Mediobanca, è tornato sulla scena
della finanza italiana. Possiamo essere certi che si farà
sentire.