Profumo e la linea della palma
Scene di pulizia etnica in bassa padana. Cacciato dal vertice di Unicredit il banchiere che non piaceva a Silvio Berlusconi, a Cesare Geronzi, a Fabrizio Palenzona, a Umberto Bossi. Č cosė finita l'anomalia di un manager che non amava il “capitalismo di relazione” e non faceva “operazioni di sistema”
Lo chiamavano “imperatore delegato”, oppure “Mister Arrogance”. Lui, Alessandro Profumo, si considerava, se non con arroganza almeno con orgoglio, semplicemente un banchiere: un banchiere europeo, attento al mercato e lontano dalla politica. Il suo principio guida: “Creare valore per gli azionisti”. Poi è arrivata la crisi finanziaria e l’anomalia Profumo, nell’Italia dei Geronzi e dei Palenzona, è andata via via evaporando, fino alla sconfitta finale.
Si dice che in Italia funziona il “capitalismo di relazione”. E che le banche compiono spesso “operazioni di sistema”. Due ipocrisie linguistiche per non dire che da noi il mercato conta poco, pochissimo; il merito e le capacità ancor meno; e che ciò che pesa sono i rapporti di partito, di cricca, di loggia, alla faccia del liberismo esibito ogni giorno e tradito ogni notte. Profumo, almeno negli anni del suo pieno successo, ha tentato di fare banca senza “operazioni di sistema” e infischiandosene dell’italico “capitalismo di relazione”. Negli ultimi anni, mentre la “linea della palma” bancaria saliva da Roma fino a Milano, anche lui ha più d’una volta ceduto. E non è servito ad allungargli la vita al vertice di Unicredit.
Nasce a Genova nel 1957, ultimo dei cinque figli di un ingegnere che porta la famiglia a Palermo, dove ha impiantato un’azienda elettronica. Si trasferisce a Milano agli inizia degli anni Settanta, in tempo per fare il classico all’ottimo liceo Manzoni e l’università alla Bocconi. Intanto, nel 1977, a vent’anni, si sposa con una ex compagna del Manzoni, Sabina Ratti, e s’impiega al Banco Lariano. Comincia come sportellista, fa un po’ di carriera interna, ma dopo la laurea in economia aziendale, nel 1987, approda alla consulenza aziendale, prima in McKinsey, poi alla Bain, Cuneo e associati.
Torna in banca negli anni Novanta, come manager. Direttore centrale del gruppo Ras. Poi, dal 1994, condirettore centrale del Credito italiano di Lucio Rondelli. L’ex McKinsey boy scala le posizioni di vertice della ex banca pubblica fino a diventare, nel 1997, amministratore delegato. L’anno dopo nasce il gruppo Unicredit, che Profumo fa diventare la prima banca italiana e la quinta in Europa. Nel 2005, mentre i “furbetti del quartierino” e la politica italiana si gingillano a disquisire d’italianità delle banche, Profumo acquisisce il gruppo tedesco Hvb e conquista altri istituti di credito dell’Est, dalla Polonia all’Ucraina, divenendo l’unica banca veramente europea tra quelle con base in Italia.
Da “imperatore delegato” di Unicredit dice alcuni no che indicano tutta la sua anomalia, dimostrano la sua forza, ma forse spiegano anche perché alla fine sia stato sconfitto, malgrado le divisioni, ieri sera, dentro il consiglio d’amministrazione. Nel 1999, ai tempi del centrosinistra guidato da Massimo D’Alema, rifiuta di partecipare alla scalata dei “capitani coraggiosi” a Telecom. Nel 2008 si sfila dall’operazione Alitalia, lanciata in campagna elettorale da Silvio Berlusconi. L’anno prima era uscito dall’azionariato di Rcs-Corriere della sera, sostenendo che i banchieri i giornali li devono solo leggere, non esserne editori. Infine, dopo la grande crisi della finanza del 2008, dice “no grazie” ai Tremonti bond, preferendo mantenere la piena autonomia sulla sua banca.
Già, la crisi. Se negli anni delle vacche grasse gli erano tutti amici, con il titolo in Borsa a 6,5 euro, l’utile a quota 6 miliardi, il dividendo a 26 centesimi per azione, oggi (titolo a 2 euro, utile a 1,7 miliardi, dividendo a 0,03) i suoi nemici non fanno fatica a coalizzarsi e a trovare la scusa buona (la crescita dell’azionista libico) per dargli il ben servito. Dopo un’azione di logoramento che dura mesi. Prima una sottile campagna sotterranea soffia che Unicredit è gonfia di titoli tossici ed è a un passo dal tracollo. Poi arrivano Bossi e la Lega, a chiedere posti, come vecchi democristiani, con la scusa della banca “legata al territorio”.
Commette errori, Mr Arrogance. Troppi derivati ai tempi della finanza allegra e creativa. Troppi rapporti rotti con il management negli ultimi mesi, durante la ristrutturazione della “Banca Unica”. E forse, errore degli errori, ha fatto male a portarsi in casa nel 2007, per diventare grandissimo, la Capitalia di Cesare Geronzi. Ha dovuto infine cedere anche lui alle “operazioni di sistema”, dal salvataggio della Roma calcio di Rosella Sensi alla recente ristrutturazione del debito di Salvatore Ligresti.
Per i politici di centrodestra, l’ex boy scout Profumo era un banchiere “rosso”, poiché era andato a votare alle primarie che nel 2005 incoronarono Romano Prodi candidato del centrosinistra e nel 2007 Walter Veltroni. Allora uno stizzito Giulio Tremonti aveva commentato: “La sinistra sta dalla parte dei grandi banchieri, e i grandi banchieri stanno dalla parte di Veltroni e hanno fatto la coda per votare alle primarie del Pd, figuriamoci alle secondarie. Ma a noi, dei grandi banchieri non c’è ne frega un cavolo”. Oggi, al di là delle mediazioni dell’ultimo Tremonti, sappiamo che non era vero.
(Il Fatto quotidiano, 22 settembre 2010)
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