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Chi gioca d'azzardo con i soldi pubblici

La brutta faccenda dei "derivati" sottoscritti dal Comune di Milano

Che brutta storia, quella dei “derivati” in cui è rimasto impigliato il Comune di Milano. Per due motivi: perché l’amministrazione, e dunque in ultima analisi i cittadini, rischiano di perdere un mucchio di soldi; ma, ancor prima, per l’oscurità, l’opacità, la mancanza di trasparenza e d’informazione in cui il sindaco e la giunta hanno lasciato la città. Di questa contorta vicenda si conoscono, finora, pochi punti fermi. Nel giugno 2005 il sindaco Gabriele Albertini, il city manager Giorgio Porta e i ragionieri capo Elfo Butti e Angela Casiraghi hanno ottenuto dalle banche un credito di 1,7 miliardi di euro. Da quattro istituti: Ubs, Deutsche Bank, Depfa Bank, JpMorgan. In seguito, il debito è stato rinegoziato più volte: le ultime, nel luglio e poi ancora nell’ottobre 2007, sotto la giunta di Letizia Moratti.

L’operazione è stata realizzata senza alcuna gara tra le banche fornitrici e utilizzando quegli strumenti finanziari complessi che si chiamano “derivati”: contratti in cui il cliente si lega al gioco d’azzardo di scommettere sull’andamento dei mercati. Se vince risparmia. Ma se perde paga, e salato. Le banche, a ogni buon conto, vincono sempre: incassano ricche commissioni sui prodotti derivati, siano swap, collar, swaption o altro. E anche quando stipulano contratti formalmente a costo zero, possono contare su alti margini di profitto, nascosti nelle pieghe degli accordi stipulati.
Nel caso concreto, con quei contratti il Comune di Milano si è garantito denaro sonante oggi, rimandando a domani uscite e costi. Costi crescenti e difficili da quantificare, vista la complessità e la sofisticazione dei contratti. Ma se è difficile fare i conti perfino per chi li ha sottoscritti, per gli altri (cioè per la città) i conti sono addirittura impossibili: perché finora l’amministrazione quei contratti li ha tenuti segreti. Solo ora, dopo molte richieste e qualche polemica giornalistica, alcune informazioni e alcuni documenti cominciano a filtrare. 

Milano non è la sola ad aver usato i derivati. L’impiego di questi strumenti è dilagato negli ultimi anni negli enti locali e nelle società a controllo pubblico. Nel solo 2006, le Regioni italiane hanno contratto nuovi debiti, associati a prodotti derivati, per oltre 10 miliardi di euro: la cifra è stata resa pubblica dalla Corte dei conti, che qualche mese fa ha lanciato un preoccupato allarme sull’accumulazione di debito che peserà sulle generazioni future.

A corto di soldi, governatori, assessori e manager pubblici si sono improvvisati finanzieri: ma spesso con la preparazione di un giocatore di roulette. Gli amministratori si sono rivelati incauti, imprudenti, impreparati, incapaci di gestire strumenti finanziari che hanno bisogno di competenze sofisticate. Le banche, d’altra parte, si sono confermate ancora una volta spregiudicate a piazzare prodotti altamente remunerativi per loro, ma ad alto rischio per il cliente, che in questo caso è, oltretutto, un soggetto pubblico. Milano non fa eccezione. Anzi, si è già scottata con la finanza: l’Atm aveva comprato obbligazioni Del Monte per 10 milioni di euro, diventate spazzatura dopo il crac Cirio.

In mancanza di informazioni complete, è impossibile dire oggi se esista davvero un rischio-derivati e, se c’è, quant’è pesante. Impossibile anche valutare se ci siano state leggerezze, errori, responsabilità. Ora sappiamo però che l’amministrazione di Letizia Moratti non ha solo ereditato il problema dalla giunta precedente, ma nel luglio scorso ha rinegoziato il debito con due banche, Depfa e JpMorgan, e addirittura a ottobre con tutte e quattro. C’è dunque un solo modo semplice con cui il sindaco e la giunta possono cominciare a dissolvere le ombre: rendere pubblici i contratti e dare informazioni chiare e complete su tutta la vicenda. Altrimenti come potrà il Consiglio comunale discutere e approvare, nei prossimi giorni, il bilancio? Come potrà farlo, senza sapere quali sorprese per il futuro, quali congegni a orologeria possono essere nascosti nelle pieghe dei contratti sottoscritti?

La Repubblica, 29 novembre 2007

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