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Anni Settanta, non solo piombo

L'ultimo decennio vissuto dentro una dimensione collettiva. Colorato e chiassoso

Che equivoco, quella definizione: «Anni di piombo». In realtà si riferiva, nell’omonimo film di Margarethe von Trotta, ai primi anni del dopoguerra in Germania e alla rimozione collettiva del passato nazista da parte di tanti volonterosi carnefici tornati alla vita civile. Poi divenne però il marchio degli anni Settanta: grigi, duri, pesanti. Come il piombo. Anni di scontri ideologici, di bombe nere, di terrorismo rosso. Vero. Eppure basta un piccolo sforzo di memoria (per chi c’era) o un giro alla mostra in Triennale (per tutti) per riaffermare la verità: erano (anche) anni colorati, coloratissimi, lisergici, chiassosi, musicali, allegri e melanconici, spudorati e ingenui, sfrenati e pudichi, passionali e appassionati, ribaldi e creativi, generosi e aperti al mondo.

Certo bisogna stare attenti a non cadere nell’effetto nostalgia, nell’epoca del revival istantaneo, in cui si celebra tutto subito, anche l’estate appena trascorsa. Ma come non ricordare che i Settanta non furono affatto anni tristi, ma intensi e allegri, gli ultimi vissuti dentro una dimensione collettiva? Non c’erano ancora i non-luoghi della solitudine di massa, niente mall e centri commerciali: c’erano i bar con i tavoli in formica, le osterie sul Naviglio dove si cantava, le vecchie balere e le nuove discoteche dove si ballava. In San Babila non c’erano soltanto i ragazzi con i Ray Ban e i coltelli, c’era Fiorucci dove faceva un giro, il sabato pomeriggio, anche chi usciva dalle interminabili assemblee nell’aula magna della Statale.

Esce dal grigio anche la tv, negli anni Settanta, e a colori racconta come può, con le prime prove tecniche di lottizzazione, le grandi tensioni di un’Italia in cui si stava combattendo una guerra segreta. Il decennio si apre e si chiude con una strage (piazza Fontana e la stazione di Bologna): è al lavoro un esercito invisibile che combatte una guerra non dichiarata. Ma è anche il decennio dei fermenti più innovativi della storia del dopoguerra. Sì: lotte per diritti civili, divorzio, grandi movimenti operai, sindacali, studenteschi. E poi il femminismo, la critica delle guerre d’aggressione, la fine dell’eurocentrismo, il sostegno alla libertà dei popoli.

Lo ricorda, nel suo ultimo libro, Giovanni Moro, che pure è segnato dal fatto più traumatico del decennio, il rapimento di suo padre: negli anni Settanta milioni di persone – e in prima fila le donne – escono dalle loro case e s’impossessano delle strade e delle piazze, si prendono il diritto di manifestare, non si lasciano impaurire né dall’esercito segreto delle bombe, né dai gruppi del terrore rosso. E poi entrano nei consigli scolastici, nei comitati di quartiere, si occupano della cosa pubblica, s’impossessano della politica. Certo, dicono cose nuove con parole vecchie, quelle delle grandi ideologie del Novecento. Ma i comportamenti e gli stili di vita sono inediti, a dispetto delle gabbie ideologiche.

Certo, c’è anche il rosso sangue tra i mille colori degli anni Settanta. Ma la riduzione di quel decennio al gesto minoritario della P38 è un trucco ideologico, una violenza ai fatti, una comoda rimozione di un decennio che è stato molto di più e molto di meglio. È una paradossale resa a quella P38, che riuscirà dove avevano fallito le bombe nere: farà tornare la gente a casa, a coltivare il “privato”, mentre i partiti si prenderanno tutta la politica, e anche qualcosa di più. Il decennio a colori finisce, arrivano gli Ottanta monocromatici di un solitario e confuso “edonismo reaganiano".

La Repubblica, 8 novembre 2007

 

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