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L’odore dei soldi

Le origini (oscure) di un promettente imprenditore. Società svizzere. Sconosciute casalinghe. Commercialisti e prestanomi. Poi, una bizantina architettura di holding.

di Luca Andrei

«È una casalinga di Segrate il socio misterioso di Berlusconi». Correva l’anno 1983 e il mensile economico Espansione titolava così il ritratto indiscreto di un rampante protagonista della Milano degli affari. A quei tempi Silvio Berlusconi era ancora lontanissimo dal teatrino della politica. Al più la gente sentiva parlare di lui come l’abile costruttore che aveva tirato su dal nulla il quartiere di Milano 2. E molte migliaia di italiani incominciavano ad appassionarsi ai programmi di Canale 5, in rapida ascesa grazie anche al fresco acquisto di Italia 1 dall’editore Edilio Rusconi. Il futuro leader di Forza Italia, però, dimostrava già una spiccata attitudine alle pubbliche relazioni. Apriva la villa di Arcore ai giornalisti amici, mostrava orgoglioso la collezione di quadri del Quattro-Cinquecento e la superbiblioteca da 10 mila volumi e agli intimi riservava un’esibizione al pianoforte. Ma non era solo una questione di convenevoli.

Nei primi anni Ottanta il futuro leader di Forza Italia si preoccupò di costruirsi attorno una leggenda da self made man all’americana, da imprenditore che si è fatto da sé grazie alle sue straordinarie capacità di venditore.
Nella carriera del nuovo Paperone facevano bella mostra i più diversi mestieri: cantante nel locali da ballo e sulle navi da crociera, fotografo ai matrimoni, piazzista di elettrodomestici. Tutto veniva buono per creare l’immagine dell’uomo d’affari vincente, anche grazie all’uso abilissimo della grancassa dei media. Resta memorabile, a questo proposito, un’intervista rilasciata al mensile Capital nel 1981, dove un Berlusconi in vena di confessioni spiegava come riuscì a far fruttare il piccolo gruzzolo (qualche milione) affidatogli dal padre Luigi, funzionario di banca.
Ovviamente la realtà dei fatti risulta un po’ più complessa. Non basta la leggenda per spiegare come il fondatore della Fininvest abbia potuto accumulare una fortuna personale di svariate centinaia di miliardi nel giro di un decennio o poco più: dagli esordi da immobiliarista a metà degli anni Sessanta fino alla fine degli anni Settanta, quando prese il via l’attività televisiva. Per raccontare questa storia servono dati concreti, numeri e percentuali. Ma su tutto questo Berlusconi ha sempre glissato.
E allora conviene tornare alla casalinga di Segrate, quella di cui parlò il mensile Espansione nel 1983.

La signora in questione si chiama Nicla Crocitto e oggi dovrebbe avere una settantina d’anni. Un giorno di giugno del 1978 alla signora Crocitto venne affidato un compito molto importante. Fu lei a sottoscrivere la quota di maggioranza di 38 società, tutte con lo stesso nome, Holding italiana, e distinte una dall’altra in base a una numerazione progressiva: Holding italiana prima, seconda, terza e così via fino all’ultima della serie. Molte di queste finanziarie negli anni successivi si persero per strada. Furono accorpate tra di loro oppure con altre società.
Le prime 22 però, nel loro piccolo, erano destinate a passare alla storia. A ciascuna di queste venne attribuita una piccola quota del capitale della Fininvest. E fino a oggi, a parte un paio di holding fuse di recente tra di loro, la situazione è rimasta la stessa. Ma perché mai fu scelta un’architettura così complessa? Non sarebbe stato più comodo, sull’esempio di tutti i grandi gruppi industriali italiani, cavarsela con un paio di finanziarie di controllo. «Motivi fiscali», questa la spiegazione offerta innumerevoli volte dai portavoce di Berlusconi. Eppure, a ben guardare, in soli bolli e imposte di registro la gestione di ben 22 finanziarie finisce per risultare molto costosa. Piuttosto, se si considerano gli ingenti flussi di capitali transitati dalle holding verso la Fininvest, allora è possibile immaginare una spiegazione diversa da quella ufficiale. Sì, perché anche le somme più ingenti, se divise in 22 parti, danno meno nell’occhio e consentono di mimetizzare al meglio operazioni di grande rilievo finanziario.

La signora Crocitto era ovviamente solo una comparsa in una storia molto più grande di lei. Pochi mesi dopo aver posato la prima pietra del futuro impero Fininvest, la casalinga di Segrate si fece da parte. Arriva Berlusconi? Proprio no, perché il capitale delle holding passa a due fiduciarie: la Saf del gruppo bancario Bnl e la Parmafid. Il padrone vero, il miliardario di Arcore, resta ancora dietro le quinte e sulla poltrona di amministratore unico delle finanziarie arriva
Luigi Foscale, classe 1915, zio di Berlusconi. A questo punto, e siamo nel dicembre del 1978, la girandola dei miliardi è davvero pronta a partire. Attenzione però, siamo alle prese con una giostra velocissima. I miliardi vanno e vengono, girano a gran velocità da una scatola all’altra. E allora conviene concentrarsi sui movimenti più importanti e lasciar perdere le operazioni di contorno, che rischiano di portarci fuori strada. Che poi, con ogni probabilità, era proprio l’obiettivo di chi ha costruito queste complesse operazioni finanziarie. Così a conti fatti si scopre che tra il 1978 e il 1980, dalle 22 holding transitano circa 82 miliardi di lire. Una somma che vale circa 315 miliardi di oggi. Dove vanno a finire questi soldi? E da dove arrivano?

La risposta alla prima domanda è
relativamente semplice. Quei flussi finanziari servono ad alimentare la Fininvest, impegnata nel lancio delle televisioni e in svariati affari immobiliari. Al secondo quesito invece non ci sono risposte certe. Francesco Giuffrida, il tecnico della Banca d’Italia che nel 1998 ha svolto una consulenza tecnica per conto della Procura di Palermo sui flussi finanziari delle holding, racconta per filo e per segno gli affari in questione. Raramente però si arriva ad afferrare il bandolo della matassa. A volte perché la documentazione bancaria, a distanza di quasi 20 anni, è andata perduta. Ma, più spesso, perché le operazioni appaiono costruite ad arte per dissimulare la reale provenienza del denaro.
Facciamo un esempio e torniamo nell’ottobre del 1979, quando le holding dalla settima alla diciassettesima fanno il pieno di capitali. In totale incassano 11 miliardi, che corrispondono a circa 40 miliardi attuali. E per questo grazioso regalo devono ringraziare la Ponte, una piccola società spuntata dal nulla proprio per rifornire di denaro quelle piccole finanziarie berlusconiane. Dove ha preso quei soldi la Ponte? Mistero, dalle carte ufficiali non si capisce. Quel che si sa per certo è che questa società era amministrata da un anziano signore di nome Enrico Porrà, che per di più era reduce da un ictus. Sembra l’identikit di un prestanome. E Amilcare Ardigò, il commercialista milanese che seguì quell’operazione, ha in effetti confermato agli investigatori della Procura di Palermo che Porrà era al servizio di Berlusconi. Sta di fatto che una volta completata l’operazione, la Ponte sparisce nel nulla. E di questa società risulta smarrita qualunque documentazione contabile.

Tempo un paio di mesi e scende in campo la Palina, un’altra società usa e getta intestata a Porrà, che, per la cronaca, è morto nel 1986. Nel dicembre del 1979, dopo soli due mesi di vita, la Palina è già pronta a finanziare le holding (dalla 1 alla 5 e dalla 18 alla 23) per un totale di 27,6 miliardi, cioè oltre 100 miliardi di oggi. È stato Silvio Berlusconi in persona, come risulta dai documenti ufficiali, a disporre l’accredito di quel denaro dai conti bancari della Palina a quelli delle holding. Resta da capire da dove arrivassero i soldi, visto che non c’è traccia della contabilità della Palina, liquidata già nel maggio del 1980. Insomma, la tracce dei finanziamenti si perdono nel nulla. Ed è inutile anche bussare alla porta delle fiduciarie Parmafid, Saf e poi Servizio Italia a cui erano formalmente intestate le quote di controllo delle holding. Già, perché molto spesso le operazioni si svolgevano «franco valuta». Cioè venivano regolate direttamente tra il fiduciante, ovvero Silvio Berlusconi, e le sue holding. Le fiduciarie si accontentavano di una conferma scritta dell’affare, senza parteciparvi direttamente e senza ottenere documentazione contabile.

Insomma, Saf e Servizio Italia compravano
a scatola chiusa, mentre dietro le quinte il rampante leader della Fininvest dirigeva il traffico dei miliardi. Non era una novità. Facciamo un altro passo indietro fino al 1963, quando Berlusconi, a soli 27 anni, lancia il suo primo progetto immobiliare a Brugherio nell’hinterland milanese. Per gestire l’operazione nasce la Edilnord di Silvio Berlusconi & C., una società in accomandita con un unico finanziatore. E questo finanziatore batte bandiera svizzera. Già, perché nel ruolo di socio accomandante compare la Finanzierungesellschaft di Lugano, una società gestita dall’avvocato ticinese Renzo Rezzonico. Lo schema funziona, se è vero che anche per l’operazione Milano 2, che scatta nel 1968, i capitali di partenza arrivano da Lugano. Per l’occasione nasce la Edilnord di Lidia Borsani & C, finanziata interamente dalla Aktiengesellschaft für Immobilienalangen in Residenzzentren. Quest’ultima ha sede a Lugano ed è gestita da Rezzonico. Lidia Borsani, invece, è una cugina di Berlusconi. La costruzione di Milano 2 viene però portata a termine da una terza società, la Italcantieri, nata nel 1973. Soci fondatori: le finanziarie Cofigen di Lugano ed Eti di Chiasso.

A questo punto chi fosse dotato di molto tempo
e di grande buona volontà potrebbe risalire di scatola finanziaria in scatola finanziaria nel complicato organigramma che sta dietro queste ultime due finanziarie. Si imbatterebbe in banche e fiduciarie, in società non sempre al di sopra di ogni sospetto per via dei loro rapporti con il riciclaggio di denaro sporco. Tutto questo però non basterebbe a risolvere il mistero della reale provenienza del denaro che ha permesso il finanziamento delle prime iniziative immobiliari di Berlusconi. Da sempre il sistema bancario elvetico è organizzato in modo da rendere praticamente impossibile ricostruire le fonti del denaro. E nella gran massa di capitali che prendono il volo verso gli accoglienti forzieri della Confederazione spesso si mescolano capitali di provenienza criminale e denaro frutto di evasione fiscale. Senza contare che nell’Italia degli anni Settanta la legge puniva gli esportatori di capitali. E quindi centinaia di imprenditori che avevano depositato parte delle loro fortune in Svizzera, quando avevano bisogno di capitali in Italia spesso si affidavano agli spalloni oppure si servivano di società schermo con base oltreconfine. Tutto questo per eludere i controlli della Guardia di finanza.

Anche Berlusconi, a dire il vero, fu sottoposto
a una indagine delle Fiamme Gialle già nel 1979. Interrogato dagli investigatori nel novembre di quell’anno, l’attuale leader di Forza Italia si descrisse come un semplice consulente della Edilnord, un «progettista» a cui era stato affidato «l’incarico professionale della progettazione e della direzione generale del complesso residenziale di Milano 2». Berlusconi aveva anche prestato delle garanzie personali a favore della Edilnord presso le banche creditrici. Piuttosto strano per un semplice progettista. Anche su questo punto, interrogato dalla Guardia di finanza, il padrone della Fininvest aveva la riposta pronta. Eccola: «Non ho avuto alcuna difficoltà a prestare fideiussioni, apparendomi anzi tale fatto come una possibilità di acquisire benemerenze nei confronti delle mie principali clienti, con la sicurezza di non incorrere in alcun rischio, essendo io a perfetta conoscenza della solvibilità e delle serietà» di queste società.

Così parlò Berlusconi, tradotto nel burocratese della Guardia di finanza. A voler credere a questa versione, un semplice progettista avrebbe prestato garanzie personali per centinaia di milioni nei confronti di società sue clienti per fare bella figura nei loro confronti. E le banche avrebbero accettato senza batter ciglio. La Guardia di finanza però prende questo racconto per oro colato. E archivia l’accertamento valutario che ipotizzava che la Edilnord centri residenziali dipendesse da una società off shore. «Non è emerso alcun elemento comprovante che nella persona del dottor Berlusconi si possa identificare l’effettivo soggetto economico delle società estere Afire (che sta per Aktiengesellschaft für Immobilienanlagen in Residenzzentren, ndr) di Lugano e Cefinvest di Lugano».
Resta una ciliegina sulla torta. A raccogliere le dichiarazioni di Berlusconi fu un capitano del Nucleo speciale di polizia valutaria. Il suo nome è Massimo Maria Berruti, che negli anni Ottanta lasciò le Fiamme Gialle per mettersi in proprio come commercialista. In seguito Berruti lavorò a lungo per conto del gruppo Fininvest. Ora è deputato. Il partito? Forza Italia.



Mi consenta, mi avvalgo...


Silvio Berlusconi ha fatto scena muta, martedì 26 novembre, davanti ai giudici del tribunale di Palermo che lo dovevano interrogare, in trasferta a palazzo Chigi, nel processo per mafia con imputato Marcello Dell'Utri. Berlusconi era stato indicato come testimone dalla difesa dell'amico Dell'Utri, ma evidentemente ha cambiato idea e, in quanto ex indagato, ha potuto avvalersi della facoltà di non rispondere. Un silenzio assordante.

Non ha mai risposto con chiarezza alle domande sugli inizi della sua carriera imprenditoriale e sui suoi rapporti con ambienti siciliani. Questa volta non ha permesso neppure che gli venissero poste le domande. Erano pronte da mesi, da anni. Più volte Berlusconi aveva fatto rimandare l'appuntamento. Questa volta ha dovuto accettarlo, ma non ha aperto bocca.

Restano così senza risposta le domande che i magistrati avrebbero voluto fargli. Come decise di assumere Dell'Utri? Come visse la spola di Marcello tra lui e il faccendiere siciliano Filippo Alberto Rapisarda? Che rapporti ebbe con Gaetano Cinà, attuale coimputato di Dell'Utri? Come avvenne l'assunzione del capomafia Vittorio Mangano, diventato fattore della villa di Arcore? La Fininvest pagò il pizzo per installare le sue antenne tv in Sicilia? E trattò con Cosa nostra dopo gli incendi dei magazzini Standa a Catania? E soprattutto: da dove arrivarono i soldi che servirono a finanziare gli inizi delle aziende di Berlusconi, la Fininvest e poi le 22 misteriose holding che la controllano? Ci sono stati capitali mafiosi alle origini del successo Berlusconi?

Gli anni dal 1975 al 1978 sono un vero buco nero, con flussi finanziari che non sono stati ricostruiti, in anni di indagini, né dal funzionario della Banca d'Italia Francesco Giuffrida, né dal maresciallo della Dia Giuseppe Ciuro, e nemmeno dal consulente incaricato dalla difesa Dell'Utri, il professore della Bocconi Iovenitti. Berlusconi ha perso un'altra occasione per chiarire, per dissolvere i dubbi, fugare le ombre. Un dovere come cittadino, come imprenditore, ma ancor più come presidente del Consiglio.

I magistrati dell'accusa, Antonio Ingroia e Domenico Gozzo, preso atto dell'indisponibilità di Berlusconi a parlare, hanno chiesto di acquisire i verbali di vecchi interrogatori resi da Berlusconi tra il 1974 e il 1996 sugli argomenti sopra indicati e anche sulla sua iscrizione alla loggia P2 e sui suoi rapporti con il banchiere Roberto Calvi, morto impiccato a Londra, e con il faccendiere Flavio Carboni.

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