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Sullorlo
del fallimento
Debiti per 4 mila miliardi. Così la Fininvest ha
rischiato il naufragio. Poi, la quotazione in Borsa. Ovvero:
come diventare ricchi con i «comunisti» al governo.
di Bancomat
Era una domenica buia e tempestosa, la prima dellottobre
1993, quando ad Arcore Silvio Berlusconi convocò per
cena i suoi colonnelli. Da Adriano Galliani a Fedele Confalonieri,
da Giancarlo Foscalea Marcello DellUtri. La notizia
era ferale «Franco Tatò è da domani il
nuovo amministratore delegato della Fininvest». Gelo.
Ma così parlò Berlusconi quella sera, quando
la sua discesa nel campo della politica era ormai decisa e
non poteva prescindere da una svolta nella guida dellaFininvest.
La scelta di Tatò, che dal 1991 guidava la Mondadori,
ma che era visto come il fumo negliocchi sia da DellUtri,
sia da Foscale, aveva un ben precisosignificato: era il commissariamento
della Fininvest, imposto dalle banche creditrici del gruppo.
Perché? Semplice: perché il Biscione era letteralmente
sullorlo del fallimento.
Il bilancio consolidato di quellanno stava per chiudersi
con unfatturato di 11.550 miliardi, ma i debiti avevano raggiunto
il livellomonstre di 4 mila miliardi. Per dare unidea
di cosa significava quel numero, in un momento in cui i tassi
dinteresse applicati dalle banche erano tre volte quelli
odierni, si può fare un parallelo con quanto oggi Berlusconi
ripete sempre cavalcando ilsuo principale spot elettorale,
quello della riduzione delle tasse. Con i governi dellUlivo,
dice Silvio, voi italiani lavorate per più di6 mesi
lanno solo per pagare le tasse, mentre solo da luglio
in avanti cominciate aguadagnare davvero. Ebbene, nel 1992
Berlusconi aveva lavorato per lebanche per tutti i 12 mesi
dellanno, visto che gli oneri del suodebito (556 miliardi)
superavano addirittura lutile operativo del gruppo,
che era di 500 miliardi. Il bilancio si erachiuso con un risicato
utile netto di 20 miliardi (0,17 per cento deiricavi) solo
grazie a qualche (peraltro legittimo) artificio contabile.
Inquegli anni la situazione era talmente drammatica che il
gruppo andava avanti grazie al lavoro della Istifi, una sorta
di banca interna alla Fininvest, che utilizzava la cassa generata
day by day dalla Standa per pagare le spese (compresi gli
stipendi dei 30 mila dipendenti) di tutto limpero. Un
giro che era possibile anche perché la Standa non pagava
i fornitori. O meglio, li pagava con 9-12mesi di mora. Solo
così riusciva a generare il cash necessario per attivare
il circolo virtuoso.Ed era questo il principale motivo per
cui Berlusconi aveva strapagato la casa degli italiani acquistandola
dalla Montedison qualche anno prima e se la teneva nonostantei
bilanci in profondo rosso che andavano ad appesantire lindebitamento
di gruppo.
In quel momento una bella parte della Fininvest era di fatto
ipotecata a favore delle banche, a cui erano stati dati
in pegno i pacchetti di controllodella Standa (54 per cento)
e della Sbe (Silvio Berlusconi editore), che controllava la
quasi totalità della Mondadori. I nomi dei gruppi bancari
più esposti con Berlusconi sono quelli di Cariplo,
Comit, Banca di Roma, Bnl, Montepaschi. Sono loro a chiedere
a Tatò di fare qualcosa e di farlo subito. E Kaiser
Franz esegue: nel giro di unanno, il 1994, colloca in Borsa
la Mondadori, incassa 800 miliardi, e avvia il processo di
quotazione della Mediolanum, il gruppo finanziario guidato
da Ennio Doris, ma controllato, allora come oggi, da un patto
di sindacato paritetico con Fininvest, che frutterà
altri 700 miliardi. In entrambi i casi Tatò riesce
ad andare fino infondo perché coinvolge nelle due operazioni
Mediobanca. Senza Cuccia, che non ha maiamato Berlusconi,
non sarebbe stato facile fare quei due collocamenti chesi
sarebbero poi rivelati decisivi per dare ossigeno al Biscione.
E senza il trait dunion di Tatò Mediobanca non
sarebbe mai arrivata ad aiutare Fininvest.
Il lavoro di Tatò si svolge in parallelo su tutto il
fronte dei costi del gruppo, che vengono tagliati, ridotti,
eliminati, non senza suscitare clamore e malumore in tutta
una fascia di dirigenti che fino ad allora erano stati abituati
aspendere e spandere perché limportante era una
cosa sola :crescere. In questo contesto Tatò si prepara
a vendere anche la Standa, alla Rinascente.
Loperazione era già praticamente conclusa, quando
per bloccarla si muove Berlusconi in persona, che non vuole
rinunciare alla cassa e a 3mila miliardi di fatturato. E'
il segno della rottura, che avviene nel1995, quando Tatò
lascia la Fininvest per tornare in Mondadori (da cui se ne
andrà unpaio danni dopo), e al timone del gruppo
sale Ubaldo Livolsi, luomo chiave nelloperazione
finale del salvataggio di Berlusconi: la nascita e la quotazionein
Borsa di Mediaset.
Livolsi lavorava nel gruppo già dal 1991, nella direzione
finanziaria di cui era diventato il numero uno. Per 3-4
anni il suo compito, nellombra, è stato quello
di risistemare i bilanci del gruppo per preparare l«operazione
wave», come era stato battezzato lo sbarco in Borsa.
Aveva acquisito la stima del sistema bancario e la fiducia
totale di Berlusconi, anche perché, avendo a che fare
con i bilanci del gruppo, si era trovato a trattare inprima
persona anche lo scottante caso All Iberian (la finanziaria«riservata»,
allestero, del gruppo), per il quale ricevette un rinvio
a giudizio proprio alla vigilia della quotazione in Borsa
di Mediaset.
Il lavoro di Livolsi era semplice: mettere in una nuova società,
con un nome diverso da Fininvest, sia le televisioni (Rti)
sia la pubblicità (Publitalia). Poi, per questa sorta
di Fininvest 2, ribattezzata Mediaset e dotata di biscione
dordinanza, bisognava trovare un gruppo di investitori
disponibile ad acquistare il 10-20 per cento. Unaltra
quota analoga sarebbe poistata collocata in Borsa. Risultato
finale: raccogliere quei 3 mila miliardi che sarebbero serviti
per azzerare sia il debito ereditato daMediaset, sia il residuo
rimasto in Fininvest. Il tutto, mentre Berlusconi, dopo il
ribaltone della fine del 1994, era in lizza per tornare a
Palazzo Chigi.
Loperazione riesce e va detto che, in effetti, il materiale
non mancava perché tre concessioni tivù e la
loro concessionaria di pubblicità avevano un preciso
valore di mercato: almeno 5 mila miliardi. Livolsi comincia
con il mettere insieme alcuni investitori stranieri, e nel
luglio del 1995, vara un aumento di capitale di Mediaset di
1.200 miliardi che viene sottoscritto da un vecchio amico
di Berlusconi come Leo Kirch, da un magnate australiano dei
media relativamente sconosciuto come Joahnn Rupert, e in piccola
parte dal principe Al Waleed. Successivamente, sottoscrivono
quote minori anche variinvestitori istituzionali esteri, tra
cui la Morgan Stanley guidata da Claudio Sposito, attuale
numero uno di Fininvest. In dicembre entrano finalmente le
banche italiane. Le vecchie creditrici del Biscione rilevano
il 5,2 per cento di Mediaset direttamente dalla Fininvest.
Sono Imi, Montepaschi, Sanpaolo, Comit, Cariplo e Banca Roma.
E' un passaggio fondamentale perché rappresenta il
nocciolo duro del consorzio che, di lì a sei mesi,
garantirà a Mediaset il collocamento in Borsa. Inparticolare,
risulta decisivo il ruolo dellImi di Luigi Arcuti,che
guiderà la quotazione in Borsa, e che nelloperazione
si assume, in qualche modo, la posizione di garante diBerlusconi
nei confronti del mercato. Anche la Bnl di Mario Sarcinelli
svolge un ruolo importante perché entra in Mediaset
in un secondo momento, in tandem con British Telecom che era
destinata a diventare il partner strategico di telecomunicazioni
del gruppo (una scelta che poi si rivelerà errata).
A tutti questi soci della prima ora Livolsi offre unopportunità
decisiva per capire il senso delloperazione: comprate
oggi, per rivendere domani, se volete. Infatti ai soci viene
proposto di offrire al mercato parte delle azioni sottoscritte
nel momento del collocamento in Borsa. Ma anche di acquistarle
sul mercato a prezzi prefissati: ai grandi soci vengono infatti
riservate alcune opzioni per ilfuturo. In tutto, tra Mediaset
e Fininvest, vengono raccolti 2 mila miliardi. Poi, a luglio
1996, scatta loperazione Borsa, con un collocamento
da altri 2 mila miliardi, inparte attraverso un aumento di
capitale di Mediaset, in parte con la vendita di azioni realizzata
da Fininvest e dai nuovi soci. Il risultato è un successo:
lofferta (a 7 mila lire per azione) va esaurita il primo
giorno. Per Berlusconi è un bel risultato, visto che
è riuscito a salvare il gruppo, a incassare 4 mila
miliardi e, nello stesso tempo, a mantenere il controllo di
Mediaset, che dopo l«operazione wave» rimane
comunque controllata dalla Fininvest al 49 per cento. Gli
altri soci, nel tempo,riduranno tutti la loro partecipazione.
Al punto che oggi, dietro a Fininvest (che ha il 48, 3 per
cento di Mediaset), dei grandi soci della prima ora sono rimasti
solo Bt, con il 2,1per cento, e Al Waleed, con il 2,3 per
cento.
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