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Milano,
la seconda generazione
La strana storia di due imprenditori nella capitale lombarda.
Molto amici di Vittorio Mangano, lo «stalliere».
Molto vicini a Marcello Dell'Utri.
di Gianni Barbacetto
Era un uomo metodico, puntuale fino allossessione.
Maurizio Pierro, consulente finanziario, usciva dalla sua
bella villa appena fuori Varese ogni mattina alle 7, imboccava
lautostrada dei Laghi, arrivava a Milano, si sedeva
alla scrivania nel suo ufficio in zona Fiera, due interi piani
in una palazzina elegante, cinquanta dipendenti ai suoi ordini.
Ogni sera, alle 18.45 in punto, usciva, si buttava nel traffico
dei viali che portano allautostrada, alle 19 con il
cellulare dallauto avvisava la moglie («Sto arrivando»),
attorno alle 20 rientrava a casa.
Vittorio Mangano, in barella e sorvegliato dalla polizia,
depone al processo
contro Marcello DellUtri a Palermo
La sera di martedì 11 febbraio 1997, a casa
lo aspettavano la moglie, i due figli di 18 e 20 anni, i suoceri
e una torta con le candeline. Era il suo cinquantaseiesimo
compleanno. Puntuale come sempre, Maurizio Pierro lasciò
il suo studio alle 18.45. Ma non chiamò la moglie,
alle 19, per dirle «sto arrivando». Lo trovarono
nella notte in via Gattamelata, a meno di un chilometro dal
suo ufficio. Era seduto nella sua auto, al volante, rivolto
verso destra, come se stesse parlando con qualcuno seduto
al suo fianco. Aveva in corpo quattro proiettili calibro 7.65,
sparati da molto vicino: un colpo in mezzo agli occhi, un
colpo al cuore, un colpo in mezzo al petto; il quarto colpo,
dopo avergli sfiorato lo stomaco, si era conficcato nella
portiera della sua monovolume giapponese. Il portafoglio era
al suo posto, nella tasca della giacca, il computer portatile
sul sedile posteriore.
Con chi aveva appuntamento, Maurizio Pierro, quella sera
in via Gattamelata? Chi fu il suo ultimo interlocutore, seduto
accanto a lui in auto?
Pierro era nato a Tripoli ed era diventato un uomo di successo.
Ragioniere, guadagnava più di un commercialista, giro
daffari miliardario, presenza in una miriade di società.
Tra i suoi clienti vi era anche la Chanel. Splendida villa
in Sardegna, grande passione per il golf, nutrito parco auto,
in cui spiccava una bella Porsche. Per la sua società
principale, la Selma, aveva scelto un nome furbo: esiste infatti
una Selma Leasing legata nientemeno che a Mediobanca. Pierro
invece si era legato alla finanza dassalto, tanto da
restare invischiato in una storia da anni Ottanta, il crac
di una società che raccoglieva risparmi e piccoli capitali
promettendo alti rendimenti, aveva convinto 3 mila persone
ed era finita con una bancarotta da 120 miliardi.
Dopo
la notte di via Gattamelata, per un paio danni tutti
si sono scordati di Maurizio Pierro e di quel colpo sparato
in mezzo agli occhi, nella civilissima Milano. Il caso, irrisolto,
delluomo che non arrivò puntuale alla sua ultima
festa di compleanno è tornato dattualità
nella primavera 1999. I fascicoli di quellomicidio senza
colpevole sono stati ripescati dagli archivi e sono arrivati
sulle scrivanie dei magistrati antimafia di Milano: Pierro
infatti era consulente finanziario anche di una galassia di
società che facevano capo a due imprenditori, Natale
Sartori e Antonino Currò, arrestati martedì
9 marzo 1999 a Milano e imputati di rapporti mafiosi insieme
a un più noto imprenditore e politico che li conosceva
bene: Marcello DellUtri.
I magistrati di Palermo Antonio Ingroia, Domenico
Gozzo, Mauro Terranova e Umberto De Giglio nel marzo 1999
chiedono per DellUtri addirittura larresto. Accusa:
aver tentato di convincere un paio di pentiti,
grazie a generose offerte di denaro, a testimoniare a suo
favore. I due, Cosimo Cirfeta e Giuseppe Chiofalo, avrebbero
dovut
o raccontare di essere stati avvicinati da altri collaboratori
di giustizia, che li volevano spingere ad aggiungersi agli
accusatori di DellUtri, inventandosi falsi addebiti
a suo carico. Se loperazione fosse andata in porto,
leffetto sarebbe stato dirompente: sarebbe crollata
la credibilità di tutti i testimoni anti-DellUtri,
sarebbe passata lipotesi di un complotto, di un accordo
tra pentiti ai danni del collaboratore di Berlusconi.
I magistrati di Palermo e gli agenti della Dia scoprono
il piano. Gli agenti della Direzione investigativa antimafia
filmano addirittura alcuni incontri tra DellUtri e Chiofalo,
uno dei due falsi pentiti. Questi poi racconta: «DellUtri
mi disse: Confermi le accuse di Cirfeta e io farò
ricco lei e la sua famiglia, avrà per sempre la riconoscenza
mia, del dottor Berlusconi e quella di tutte le persone che
ci vogliono bene». Il Parlamento, malgrado avesse
ricevuto unimponente documentazione dei fatti, respingerà
la richiesta darresto.
Ma cè una parte tutta milanese di questa
indagine, passata in secondo piano a causa del turbine
di polemiche seguite alla richiesta darresto per DellUtri.
È lindagine che ha messo a fuoco le attività
di Sartori e Currò. Quasi tutta lattenzione è
stata catturata, per forza di cose, dal braccio destro di
Silvio Berlusconi, ieri presidente di Publitalia, oggi deputato
di Forza Italia, accusato dalla procura palermitana di voler
comprare una pattuglia di «pentiti» al fine di
affondare linchiesta sulle sue relazioni pericolose
con Cosa nostra. Ma le indagini del sostituto procuratore
di Milano Maurizio Romanelli e della Dia hanno scoperto ben
altro: gli affari, legali e illegali, di un gruppo di persone
che secondo gli investigatori sono i nuovi colletti bianchi
di Cosa nostra a Milano, i manager in giacca e cravatta della
mafia siciliana. In rapporto diretto con figli e nipoti di
due vecchi boss, Gerlando Alberti e Vittorio Mangano. Insomma:
Cosa nostra, seconda generazione.
Un quarto di secolo è passato da quando i due comparvero
sulla scena: il primo, Gerlando Alberti, con fragore: il più
grande raffinatore di eroina in Sicilia in tempi in cui si
pensava che gli stupefacenti fossero un affare dei marsigliesi;
il secondo, Mangano, in punta di piedi e inosservato: devoto
stalliere nella villa di un costruttore emergente
che era lessenza della milanesità.
Nella Milano delle grandi trasformazioni finanziarie, dei
grandi giochi per costruire i nuovi colossi bancari, assicurativi,
delle telecomunicazioni, nella città dei soldi - danée
e piccioli insieme - si sono rese visibili altre trasformazioni,
in un settore più piccolo ma non meno vivace. Quello
della finanza grigia.
«Il consorzio Cisa ha come missione il coordinamento
armonico degli associati, fondendoli in un Gruppo omogeneo
ed organizzato, fornitore di Risorse e di servizi a terzi,
teso costantemente al raggiungimento di sempre nuovi obiettivi
di Progresso e di Qualità, al fine di offrire ai propri
Clienti elevati livelli di servizio, ottenendo soprattutto
la loro primaria soddisfazione, per un reciproco e durevole
vantaggio economico. Il Cisa è una Impresa di servizi
al servizio delle Imprese». Firmato: «Il Presidente,
Natale Sartori».
Allamericana, la missione, lobiettivo del
Cisa, con tutte le sue maiuscole, è incorniciata in
un quadretto nella sede dellazienda, in via Ripamonti
a Milano. Il Cisa è la capogruppo di una rete di società
e cooperative che offrono servizi alle imprese: soprattutto
pulizie, facchinaggio, trasporti. Terziario flessibile, molto
flessibile: come numero di dipendenti (da 800 a 2 mila), come
numero di aziende (nove sono le cooperative consorziate al
Cisa, ma le imprese che ruotano attorno alla galassia di Sartori
e del suo socio Currò sono molte di più), come
rapporto di lavoro (chi è impiegato nelle cooperative
del gruppo formalmente non è dipendente, ma socio).
Certo è che il giro daffari, per Sartori e Currò,
è miliardario. Forniscono servizi a imprese di primo
piano come la Esselunga supermercati e la Bartolini trasporti.
Un bel risultato, per due messinesi arrivati a Milano nei
primi anni Ottanta e che hanno cominciato da zero (una vecchia
relazione di polizia li segnala come occupanti abusivi di
appartamenti dellIstituto Case Popolari di Milano).
In una decina danni sono diventati imprenditori di successo,
hanno uffici ben arredati, begli appartamenti, auto di grossa
cilindrata. Sartori possiede una splendida villa in Sardegna,
a San Teodoro.
«Ci hanno preso di mira. Solo perché siamo siciliani,
siamo mafiosi», spiega, appena un po imbarazzata,
Provvidenza (detta Enza) Giargiana, una signora quarantenne,
bionda, moglie di Sartori. «Volevano rompere le scatole
a DellUtri, così sono venuti a romperle anche
a noi, perché lo conosciamo, perché lavoriamo
per la società di DellUtri, Publitalia. Sì,
forniamo il servizio di pulizia negli uffici di Publitalia,
come lo forniamo a tante altre aziende. Tutte private, sintende,
non lavoriamo con gli enti pubblici», si affretta a
puntualizzare mentre attorno trillano i telefoni e gli impiegati
si danno da fare. «Lo hanno arrestato, mio marito, ma
noi dobbiamo andare avanti a lavorare: abbiamo nove cooperative
consorziate, 800 dipendenti, e alla fine del mese dobbiamo
dare uno stipendio a tutti».
Ma che rapporti, privati e daffari, ha Sartori con
la famiglia Mangano? Alla parola «Mangano» Enza
Giargiana smette di parlare, cerca con gli occhi gli occhi
di un collaboratore dai modi più bruschi. Lincontro
è finito.
Mangano? Vittorio Mangano è ormai noto alle cronache
come lo stalliere o il fattore di
Berlusconi, perché nel 1974 abitò nella villa
di Arcore del Cavaliere. In realtà è un boss
di Cosa nostra inviato negli anni Settanta a Milano con lincarico
di tenere i contatti con gli imprenditori del Nord; poi fu
reggente della famiglia mafiosa di Porta Nuova, una delle
più importanti di Palermo; infine fu arrestato e recluso
nel carcere di Pianosa. È del febbraio 1980 la famosa
telefonata tra Mangano e DellUtri in cui i due parlano
di «cavalli» da «consegnare in albergo»:
Paolo Borsellino, nella sua ultima intervista prima di essere
ucciso, si disse convinto che il termine «cavalli»
era riferito al traffico di stupefacenti e così fu
accettato dal tribunale di Palermo, in una sentenza diventata
per Mangano ormai definitiva.
Il rapporto tra i Mangano e il gruppo di Sartori è
strettissimo. La moglie di Mangano, quando viene a Milano,
dove vivono anche le sue figlie, è ospitata non da
queste ma dalla moglie di Sartori, nella bella casa di Caleppio
di Settala alla periferia della città. Delle tre figlie
di Mangano, due, Cinzia (30 anni) e Loredana detta Lory (33
anni), si sono trasferite a Milano e vivono in una palazzina
a tre piani nel verde, a Peschiera Borromeo, ai confini est
di Milano. Sono state immediatamente assunte alla Ecosea,
una delle società di Sartori (La terza figlia di Mangano,
nata nel 1975, è stata chiamata Marina, ha raccontato
il padre, proprio come la figlia di Berlusconi e in onore
di un datore di lavoro tanto squisito).
Daniele Formisano (25 anni), nipote di Vittorio Mangano,
è anchegli arrivato a Milano nel 1997 ed è
subito stato assunto dal gruppo. «Bisognerebbe parlargli
per motivi di lavoro», dice Sartori a un suo collaboratore,
«ma con rispetto, perché è il cugino di
Loredana»: i rapporti di parentela, se si tratta di
Mangano, valgono più delletà, dellesperienza,
della professionalità. Il «rispetto», in
questo caso, si trasforma in uno stipendio di 3 milioni al
mese. Poi Formisano, da vero «figlio darte»,
arrotonda con altri affarucci. Nel febbraio 1998, per esempio,
dimostra di avere stoffa e buoni contatti mettendo in piedi
un traffico di 300 chili di marjuana di ottima qualità,
trattando alla pari con fornitori albanesi. È in contatto
con Maniola Prifti, unalbanese che l11 luglio
1998 è stata arrestata nelloperazione Africa.
Che cosa fanno i nostri colletti bianchi di Cosa Nostra?
Innanzitutto affari, con le cooperative di Sartori e con i
mille traffici (molti con i Paesi est-europei) di Currò.
Ma non solo: si danno da fare per tirar fuori di galera il
loro boss di riferimento, Vittorio Mangano; danno supporto
a un mafioso latitante, Enrico Di Grusa, che ha sposato la
figlia di Mangano, Lory; organizzano unincredibile rete
di rapporti con alti ufficiali dei Carabinieri e della Guardia
di finanza.
Per migliorare la situazione carceraria di Mangano sincontrano
con DellUtri, che vedono più volte a Milano,
alla presenza di Di Grusa e di un altro figlio darte,
Vincenzo La Piana, marito di Maria Alberti (la nipote del
boss Gerlando Alberti) e dunque nipote acquisito del mitico
U Paccaré, che cascò dalle nuvole quando gli
chiesero della mafia e rispose: «E che è? Una
marca di formaggi?».
La Piana, che alla fine degli anni Settanta era uno degli
addetti alla raffineria deroina di Trabia (una delle
più grandi dEuropa, capace di produrre miliardi
al giorno), nel 1997 comincia a collaborare con i magistrati
e nei mesi scorsi ha raccontato a Romanelli anche gli incontri
a cui è stato presente tra DellUtri e i colletti
bianchi milanesi.
Il primo incontro avvenne nel 1995 al ristorante Al
Timeout 4 di via Benaco. DellUtri non mangiò,
si fermò soltanto una ventina di minuti, il tempo di
un aperitivo, e sinformò sulle mosse già
compiute per «far volare la quaglia», cioè
per ottenere il trasferimento di Mangano da Pianosa. Concluse:
«Datemi qualche giorno di tempo, ci teniamo in contatto».
Promessa mantenuta: due giorni dopo, nuovo incontro al ristorante
Da Luigi in via Marcona, buon pesce e frutti di
mare. Lì DellUtri assicurò che «si
stava interessando non solo per ottenere il trasferimento
di Vittorio Mangano, ma addirittura per ottenere la sua scarcerazione».
Ma attenti, disse ai suoi commensali: «Il Cavaliere
sta nelle acque sporche e brutte, ci dobbiamo tenere abbottonati».
Poco dopo, l8 novembre 1995, Mangano uscì da
Pianosa e fu ricoverato nel centro clinico di Pisa. Missione
compiuta.
Ma Sartori incontra DellUtri anche altre volte.
Lultima, il 12 ottobre 1998, nel suo ufficio di via
Senato 14. «Sono stato là e gli ho spiegato»,
racconta poi Sartori parlando al telefono (intercettato dalla
Dia) con il socio Currò e il dipendente (da trattare
con «rispetto») Daniele Formisano. «La parola
che mi ha detto lui è: ma mi sembra impossibile, però
verifico e poi le faccio sapere. (...) Son tutte chiacchiere,
la gente chiacchiera».
Che cosa ha «spiegato» Sartori a DellUtri?
Di che cosa aveva paura? Che «verifica» si è
impegnato a fare lex presidente di Publitalia oggi deputato
di Forza Italia? Sartori aveva mangiato la foglia: aveva ormai
forti sospetti che qualcuno del giro (Vincenzo La Piana: era
lui, il Giuda) stava spifferando tutto alla polizia.
Lincontro precedente, quello più cinematografico,
era avvenuto in un capannone di Rozzano, dove Di Grusa si
era recato con La Piana e aveva trovato Sartori e Currò
già in compagnia di DellUtri. Argomento discusso,
secondo La Piana, il finanziamento di unimportazione
di cocaina dalla Colombia: 100 chili, 25 milioni al chilo,
pagamento metà alla consegna, metà a 30 giorni.
Erano dunque necessari 1 miliardo e 2 o 300 milioni. La Piana
ammette però di essere salito nellufficio dove
si è svolta la trattativa con DellUtri soltanto
a discorsi conclusi, per il caffè e i convenevoli finali;
della richiesta di finanziamento a DellUtri e della
sua disponibilità a concederlo ha saputo soltanto in
seguito, dal racconto di Enrico Di Grusa.
«Io alla fine», racconta La Piana, «feci
la battuta: Dottore mi scusi, capisco che lei ci tiene
più di me, ma ce lo portiamo a casa o no?, riferito
a Vittorio Mangano. E DellUtri rispose: Ci stiamo
pensando». Poi dellaffare della cocaina
non si fece più niente, perché alcune difficoltà
e alcuni arresti consigliarono ai protagonisti di sospendere
loperazione. Ma i colletti bianchi continuarono il loro
lavoro pulito.
Vincenzo La Piana, da buon nipote, periodicamente
va a visitare in carcere il vecchio Gerlando Alberti. Lo tiene
informato su ciò che succede fuori, gli chiede indicazioni
e segue i suoi saggi consigli. Ebbene: Sartori e Currò,
confessa il boss al nipote, «sono amici buoni e sono
tenuti stretti». Cioè, interpretano i magistrati,
«pochi sono a conoscenza dei loro nomi o li conoscono
personalmente».
Allorigine della loro carriera i due sono probabilmente
coinvolti in traffici di droga, tanto che già nel 1993
luomo donore Rosario Spatola, diventato collaboratore
di giustizia, aveva definito Sartori «un trafficante
deroina»; e nel 1994 un altro siciliano fattosi
pentito, Luigi Sparacio, aveva dichiarato che
Currò era «pregiudicato messinese trafficante
di stupefacenti su Milano». Ma con il tempo le attività
legali avevano preso il sopravvento. Il business innanzi tutto.
Competition is competition. Lelenco delle società
controllate da Sartori e Currò (in alcuni casi con
la presenza anche di Enrico Di Grusa) è lungo e intricato.
Oltre alla capogruppo Cisa, vi è una lunga catena di
cooperative e società di cui è difficile seguire
le continue metamorfosi: Mistral, Euroappalti, Ucfp, Coas,
Polysystem, Polyservice, Meridiana, Smile, Euras, Finproget,
Cgs, Full Time, Italsipi, Ecosea, Italgest, Bolero, Delta...
E poiché gli affari sono affari, i colletti bianchi
non disdegnano di avere rapporti anche con i colleghi
di altre holding: così Sartori e Currò sono
in contatto con Pasquale Latella, uomo della Ndrangheta
di Reggio Calabria, che è socio nella Italsipi, poi
trasformata in Ecosea.
Natale Sartori, cinquantenne, è il più autorevole
del gruppo. Capelli chiari ondulati, occhi chiari, sempre
elegante, porta occhiali da vista Cartier e al polso un vistoso
Rolex Submarine doro. La sua famiglia è tanto
vicina a Mangano da andarlo spesso a trovare a
Palermo, prima del suo ultimo arresto. Secondo una testimonianza,
i Sartori e i Mangano hanno festeggiato insieme il Capodanno
1995 nella villa siciliana di Mangano, a Carini.
Antonino Currò è più zanza.
Continua fino allultimo a dedicarsi a mille traffici.
Tra questi, la produzione di jeans nella ex Iugoslavia («Ci
costano più o meno 5 mila lire luno», dice
al telefono), poi importati e venduti in Italia con marchio
Levis («Ogni jeans viene venduto a 50 mila»).
Tarocca, cioè realizza con marchi contraffatti, anche
giubbotti Levis («Fatti bene, adesso va forte
il nero»). Nel suo capannone di Rozzano, ora posto sotto
sequestro, sono depositati perfino scatoloni contenenti lampadari.
Currò, del resto, si è costruito una rete di
relazioni daffari in Serbia, Ungheria, Polonia, Bulgaria,
dove periodicamente si reca.
Gli affari dei nuovi siciliani a Milano sono molteplici
e numerosi sono i loro luoghi dincontro. In viale Lucania
19, vicino a unottima salumeria-gastronomia, aveva sede
una ditta in cui erano in esposizione batterie da cucina;
era controllata da Enrico Di Grusa ed era, racconta La Piana,
«luogo di ritrovo di alcuni palermitani a Milano».
Di Grusa, Sartori e Currò a pranzo vanno spesso o al
Timeout di via Benaco (dove hanno incontrato anche
DellUtri), o in un bar vicino, in via Bessarione. Oggi
linsegna gialla dice: «Antica Cafeteria»,
sulla lavagnetta allingresso è scritto: «Primo,
secondo e contorno, 11 mila lire» e sulla parete di
fondo è incollata una struggente gigantografia di New
York al tramonto. La gestione, dice la signora gentile al
banco, è cambiata (chissà?) dal Natale 1999.
Ma il bar di via Bessarione, a un passo da piazzale Corvetto
e dallimbocco dellAutosole, resta un luogo storico
per Cosa nostra a Milano: aperto tanti anni fa con i soldi
di Gerlando Alberti e gestito per lungo tempo da Vincenzo
Citarda e Lia Stassi, vecchie mani di Cosa nostra a Milano.
Laspetto forse più incredibile di tutta questa
storia è la squadretta di alti ufficiali che i
siciliani avevano al loro servizio. Un colonnello dei Carabinieri,
Andrea Benedetti Michelangeli, era a disposizione del gruppo
praticamente a tempo pieno e utilizzava le strutture periferiche
dellArma per procurare contatti e clienti al gruppo,
mobilitava i marescialli sul territorio per portare a casa
nuovi appalti. In cambio, riceveva uno stipendio mensile.
Quando si sente dire dalluomo incaricato da Sartori
delle pubbliche relazioni che «bisognerebbe
un attimino rivedere quel discorso nostro», Benedetti
Michelangeli si inalbera: vuole mantenere il suo fisso mensile,
anche impegnandosi a non chiedere aumenti e a non pretendere
provvigioni da grossi affari. «Quando ha bisogno di
un passaporto, di un rinnovo di porto darmi, di un cazzo
cinese, eh, dove vanno?», grida il colonnello al telefono.
«Digli che laumento Istat non mi interessa, eh,
però cazzo, un minimo così, anche per tutte
le altre esigenze che si possono venire a creare, tipo informazioni
sulle persone. (...) Tutto si può fare se cè
un minimo di comprensione, io parlo di fisso, eh. (...) Anche
se dovessi ottenere, non so, 2 miliardi per una cosa, gestiteveli,
non mi interessa. (...) Se poi lui ha bisogno di qualche altra
cosa, a livello di informative eccetera, sono a dispositivo,
io».
Benedetti Michelangeli la spunta e mantiene il suo secondo
stipendio. Ma legati al gruppo restano anche il colonnello
delle Fiamme Gialle Michele Adinolfi, il colonnello Guglielmo
Petrantoni, sua sorella Angela Petrantoni, in servizio al
palazzo di Giustizia di Milano.
I colletti bianchi cadono nel panico una sola volta, nellottobre
1998, quando una verifica fiscale della Guardia di finanza,
casuale, rischia di scoprire i segreti del gruppo. Nei giorni
della verifica i colloqui telefonici dei siciliani si fanno
drammatici. Sartori: «Vediamo se riusciamo a fermarli.
(...) Ecco, se possiamo chiuderla lì, sennò
diventa un casino, diventa. (...) Io cho unultima
maniglia, eh, eh, non posso spararla ora, devo spararla ora,
devo spararla alla fine, devo spararla per forza quando arrivano
a noi, alla Cisa».
Allora scende in campo il colonnello Adinolfi, che manda
Sartori da un ex collega, Michele Leggiero, che ha lasciato
la Guardia di finanza e ha aperto uno studio di commercialista
a Monza. Miracolosamente i conti tornano in ordine. Tutto
in una notte. Un collaboratore il 30 novembre telefona a Sartori:
«Minchia che nottata... a preparare tutti i documenti,
Natale, tutte le lettere, tutte le contestazioni, tutti i
giustificativi delle ore fatte da Full Time...». La
Guardia di finanza contesta al gruppo, è vero, false
fatture per un miliardo e mezzo, ma i siciliani sono contenti,
festeggiano lo scampato pericolo: cera ben di peggio
da scoprire...
Il lato più oscuro di tutta questa faccenda
è la pista stragista che qualcuno ha indicato.
La bomba mafiosa scoppiata la notte tra il 27 e il 28 luglio
1993 al Padiglione di arte contemporanea di via Palestro a
Milano resta la più misteriosa tra le bombe del 93,
quella di cui meno si sa: chi sono i basisti, chi ha fornito
i materiali necessari, chi sono gli esecutori?
È il Giornale, giovedì 11 marzo, a sparare
in un titolone a pagina 2: «Fra le accuse spuntano le
stragi del 93». Larticolo spiega che gli
imprenditori messinesi Currò e Sartori sarebbero ritenuti
«vicini agli ambienti in cui sarebbero maturati quegli
attentati. Currò, in particolare, è zio di Rosa
Currò, al cui cellulare nel 1993 sarebbero arrivate
chiamate provenienti dallutenza telefonica di Antonio
Scarano, oggi collaboratore di giustizia, condannato a Firenze
proprio per gli attentati».
Pista interessante, ma tutta da verificare. Anzi, gli investigatori
milanesi invitano alla cautela: non è affatto dimostrato
il rapporto tra Rosa Currò e Antonino Currò.
Il secondo elemento della pista stragista parte
da un night club milanese, il Top Town. Durante un controllo
di polizia, nel night furono trovati sia Currò, sia
Elio Boi, il proprietario del ristorante milanese Gigi
il cacciatore dove furono arrestati i fratelli Graviano,
boss di Cosa nostra ritenuti gli organizzatori delle stragi
del 93. Anche questa è una pista interessante,
ma non ci sono le prove che i Boi e Currò fossero insieme
al Top Town, né che Elio fosse non solo il ristoratore,
ma anche il complice dei Graviano.
Restano gli affari, sporchi e puliti, del gruppo dei siciliani
a Milano, Cosa nostra seconda generazione. Girandola di sigle
e di aziende, appuntamenti in capannoni di periferia, cene
al ristorante, incontri al bar di fiducia o in ufficio. Sembra
di essere tornati ai bei tempi di via Larga, negli anni Settanta,
quando in pieno centro di Milano il siciliano Ugo Martello
detto Tanino fu mandato da Cosa nostra ad aprire una succursale
al Nord, nella capitale dei piccioli. Lufficio di via
Larga divenne un punto di riferimento, fu frequentato da personaggi
come Mimmo Teresi e Tanino Cinà. Ci passò perfino
Stefano Bontate in persona, allora numero uno di Cosa nostra,
quella volta che venne a Milano per parlare daffari
con un siciliano trapiantato a Milano: Marcello DellUtri.
Quella volta, racconta il boss Francesco Di Carlo, Bontate
incontrò DellUtri, che gli presentò Berlusconi.
Bontate esortò limprenditore «a investire
in Sicilia», ma Silvio gli rispose che «già
temeva i siciliani che al Nord non lo lasciavano tranquillo»,
aveva paura di essere sequestrato. Allora Bontate rispose:
«Non avrà più nulla da temere, vicino
a lei cè già Marcello DellUtri,
e comunque le manderò uno dei miei in modo da non farle
avere più alcun problema con i siciliani». Poco
dopo, a Milano arrivò Vittorio Mangano, ufficialmente
a lisciare la criniera dei cavalli di Arcore.
Ventanni dopo, sono gli uomini nuovi di
Mangano, «amici buoni e tenuti stretti», a essere
attivi su piazza. Cosa nostra, inabissata a Palermo dopo la
sconfitta della furia corleonese, a Milano è alla seconda
generazione.
Di nuovo, una storia italiana
Guida alla lettura della sentenza di Palermo
che ha condannato Marcello Dell'Utri per concorso esterno
in associazione mafiosa
di Gianni Barbacetto
"Senza soldi, non se ne canta Messa"
Marcello DellUtri, 14 febbraio 1980
Marcello DellUtri ha silenziosamente attraversato le
vicende italiane degli ultimi decenni. È stato alto
dirigente di uno dei gruppi economici che hanno fatto la storia
del Paese. È stato il costruttore di una nuova formazione
politica divenuta immediatamente il primo partito nazionale.
È stato, infine, imputato di mafia: per dieci lunghi
anni la procura della Repubblica di Palermo lo ha indagato,
lo ha mandato sotto processo, ha infine chiesto la sua condanna
a undici anni per concorso esterno in associazione mafiosa.
Sabato 11 dicembre 2004 i giudici della seconda sezione del
Tribunale di Palermo (Leonardo Guarnotta presidente, Giuseppe
Sgadari e Gabriella Di Marco a latere) hanno pronunciato la
sentenza di primo grado: condanna a nove anni di reclusione,
interdizione perpetua dai pubblici uffici.
I fatti che hanno portato alla richiesta di condanna sono
contenuti nel documento che viene presentato, pressoché
integralmente, in questo volume: la monumentale requisitoria
dei pubblici ministeri Domenico Gozzo e Antonio Ingroia, pronunciata
davanti al Tribunale in 16 udienze, dal 5 aprile all8
giugno 2004, dopo un lunghissimo dibattimento a cui ha dato
un importante contributo la professionalità dellavvocato
di parte civile del Comune di Palermo, Ennio Tinaglia.
È il racconto di una lunga storia prima imprenditoriale
e poi anche politica, sempre al fianco di Silvio Berlusconi.
Ma una storia che si è sviluppata, secondo laccusa,
con la presenza costante e determinante della più potente
organizzazione criminale italiana, Cosa nostra.
Questa presenza ha dunque condizionato, in ultima analisi,
alcuni passaggi cruciali delle vicende di Silvio Berlusconi,
della Fininvest, di Forza Italia. Per questo, anche al di
là degli esiti processuali, che potranno anche cambiare
nei successivi gradi di giudizio, vale la pena di rendere
accessibile e disponibile questa requisitoria. Perché
qualunque lettore possa conoscere una ricostruzione dei fatti
che i giornali e le tv non hanno mai compiutamente raccontato.
1.
Marcello DellUtri nasce a Palermo l11 settembre
1941. Cresce e studia nella città siciliana, trasferendosi
a Milano nei primi anni Sessanta per frequentare luniversità.
Qui incontra il giovane Silvio Berlusconi, di cinque anni
più anziano di lui. Comincia a occuparsi seriamente
di calcio, sogna di diventare un tecnico, un arbitro o un
allenatore. Nel 1965 va a vivere a Roma, impiegato per un
paio danni come direttore del centro sportivo Elis,
una struttura dellOpus Dei.
Torna a Palermo nel 1967, per stare vicino al padre. La passione
per lo sport lo porta a fondare e dirigere lAthletic
Club Bacigalupo, che in pochi anni diventa un crocevia della
Palermo bene, ma anche della Palermo mafiosa.
Nel 1970 il padre, che lo vuole sistemato in banca,
lo fa assumere alla Cassa di risparmio delle province siciliane,
la Sicilcassa. Dapprima lavora a Catania, poi alla filiale
di Belmonte Mezzagno, a metà strada tra Palermo e Corleone,
infine al Credito agrario di Palermo.
La svolta nella sua vita arriva nel marzo del 1974: chiamato
da Berlusconi, vecchio compagno duniversità che
sta facendo fortuna, lascia subito la Sicilia e si trasferisce
a Milano, come segretario particolare del giovane imprenditore.
Inizia una carriera e una vicenda professionale e politica
che arriva fino a oggi. Sempre scandita, secondo i magistrati
palermitani, da contatti con uomini di Cosa nostra.
È presso il club calcistico Bacigalupo che si registrano
i primi rapporti certi tra DellUtri ed esponenti mafiosi.
In quegli anni egli frequenta Gaetano Cinà detto Tanino,
esponente della famiglia di Malaspina e coimputato di DellUtri
(condannato a sette anni per associazione mafiosa); e Vittorio
Mangano, che diverrà capo della famiglia di Porta Nuova.
Cinà, figura rimasta silenziosa e in disparte nei lunghi
anni delle indagini e del dibattimento, è luomo
chiave di questa storia: personaggio vicino a Stefano Bontate,
negli anni Settanta capo indiscusso di Cosa nostra, è
lanello di congiunzione tra DellUtri e lorganizzazione
criminale, il punto di riferimento costante per DellUtri
dentro luniverso mafioso.
Tutto nasce quando Silvio Berlusconi, nella prima metà
degli anni Settanta, riceve le prime minacce mafiose: gli
giungono richieste di soldi e avvertimenti che
avrebbero potuto sequestrarlo o rapire uno dei suoi figli.
Erano anni in cui i sequestri di persona erano molto frequenti
(103 nella sola Lombardia, tra il 1974 e il 1983). Eppure
il giovane imprenditore non denuncia, non chiede protezione
alle autorità, non avverte la polizia; si ricorda invece
dellamico siciliano conosciuto dieci anni prima alluniversità,
lo chiama e lo convince a venire al Nord, al suo fianco. DellUtri
lascia la banca e si trasferisce ad Arcore, nella villa che
Berlusconi aveva comprato, con laiuto determinante dellavvocato
Cesare Previti, dalla marchesina Casati Stampa. DellUtri,
dopo un consulto con Cinà, porta con sé Vittorio
Mangano, che arriva a Milano pochi mesi dopo di lui e dal
1 luglio 1974 è assunto come fattore della
villa: in realtà è lassicurazione sulla
vita e sui beni stipulata da Berlusconi, attraverso DellUtri,
con Cosa nostra.
Così DellUtri consegna Berlusconi nelle mani
dellorganizzazione criminale: perché questa offre
sì protezione, ma poi pretende un rapporto più
intenso. Suggellato da un vertice ai massimi livelli: Berlusconi
nel 1974 incontra ad Arcore con la regia di DellUtri
e, dietro di lui, di Cinà nientemeno che il
capo di Cosa nostra, Stefano Bontate, presenti i mafiosi Mimmo
Teresi e Francesco Di Carlo. Bontate, chiamato "il principe
di Villagrazia", era piaciuto a Berlusconi, secondo i
racconti che circolavano tra gli uomini di Cosa nostra: lo
aveva trovato ben diverso da come si immaginava i boss, un
uomo nientaffatto rozzo, anzi intelligente e "affascinevole",
testimonia Antonino Galliano riferendo le confidenze ricevute
da Cinà.
Berlusconi comincia a versare somme di denaro a Cosa nostra
per la sua protezione: il denaro, a partire dalla metà
degli anni Settanta, passa da DellUtri a Cinà
e arriva a Mimmo Teresi e Stefano Bontate. Secondo un testimone
diretto e ben introdotto nellambiente dei palermitani
a Milano il finanziere Filippo Alberto Rapisarda
Cosa nostra chiede però presto a DellUtri e Berlusconi
un rapporto più stretto: offre denaro, proveniente
dai giganteschi profitti che Cosa nostra comincia a realizzare
in quegli anni grazie al traffico di eroina, da reinvestire
e riciclare in business puliti.
Tra il 1975 e il 1979, in effetti, avviene una complicatissima
e per niente trasparente riorganizzazione societaria del gruppo
Berlusconi, che si apre con la nascita, il 21 marzo 1975,
della Finanziaria dinvestimento-Fininvest e prosegue
poi con la moltiplicazione delle società: tre diverse
Fininvest si susseguono e sincrociano tra loro e infine
compare, a controllarle, un bizantino sistema di 23 holding.
In questi anni determinanti, dal 1975 fino al 1983, nelle
casse del gruppo entra un fiume di miliardi di lire di cui
è impossibile ricostruire la fonte. La provenienza
è rimasta ignota anche dopo due poderose perizie: quella
del consulente della Banca dItalia Francesco Giuffrida,
per laccusa, e quella del docente della Bocconi Paolo
Iovenitti, per la difesa.
Perfino il professor Iovenitti, che pure ha ricevuto lincarico
da DellUtri, è costretto ad ammettere durante
il processo di Palermo che alcune delle operazioni finanziarie
del gruppo Berlusconi sono inspiegabile e "potenzialmente
non trasparenti". E che ha dovuto realizzare la sua consulenza
senza una parte dei documenti contabili: quelli che pure erano
stati ritirati da un avvocato di Berlusconi nel 1998 presso
la fiduciaria Bnl Servizio Italia e relativi ai
mandati fiduciari posti in essere dal 1975 in poi.
Secondo alcuni collaboratori di giustizia, è Stefano
Bontate il socio occulto della Fininvest, che vi avrebbe investito
grandi capitali. Non cè però la prova
piena del riciclaggio di denaro mafioso da parte della Fininvest
(tanto è vero che, per questa accusa, le posizioni
di Berlusconi e DellUtri, dopo unindagine a Palermo,
sono state archiviate). Cè però, secondo
laccusa, una prova incompleta, ma pienamente coerente
con le dichiarazioni dei testimoni, tra cui Rapisarda e Francesco
Di Carlo. Lo stesso consulente Iovenitti ha ammesso anomalie
finanziarie e comunque non ha fatto luce sulla provenienza
di quei capitali. Bastava una consulenza che spiegasse chiaramente
i flussi di denaro: invece, a trentanni dai fatti, su
quei flussi è stata stesa ancora una fitta cortina
fumogena. Perché? Non certo, rispondono i magistrati
dellaccusa, per coprire reati fiscali o finanziari,
ormai prescritti.
Cosa nostra era ormai da tempo a Milano. La sua base era un
ufficio a pochi passi dal Duomo, in via Larga, punto di riferimento
per uomini come Ugo Martello, Robertino Enea, i fratelli Pippo
e Alfredo Bono. Frequentavano quellufficio, quando passavano
a Milano, anche i palermitani importanti, da Stefano Bontate
a Tommaso Buscetta... Milano era la capitale degli affari.
Da lì si poteva entrare in contatto con imprenditori
dinamici, pieni didee e spregiudicati quanto basta:
prima attraverso le minacce, poi magari con accordi di reciproca
soddisfazione. Perché i piccioli e i danee, a Palermo
come a Milano, non puzzano.
In questo clima DellUtri sbarca al Nord. E anche lì
continua le sue frequentazioni mafiose. La sera del 24 ottobre
1976, per esempio, il boss catanese Antonino Calderone festeggia
il suo compleanno a Milano, al ristorante Le colline
pistoiesi. Sono presenti a tavola i mafiosi Gaetano
e Antonino Grado, ma anche Mangano e DellUtri. Questi
ammette la cena, spiegando però che non conosceva i
commensali. I fratelli Grado, grandi trafficanti di droga,
secondo il collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo erano
gli stessi che un paio danni prima avevano progettato
il rapimento del figlio di Berlusconi, Piersilvio.
2.
Nellautunno del 1976 Vittorio Mangano appare però
pubblicamente compromesso per le sue vicende criminali: era
stato arrestato una prima volta il 27 dicembre 1974 e, rilasciato
il 22 gennaio successivo, era stato riaccolto ad Arcore; arrestato
di nuovo il 1 dicembre 1975, quando viene rimesso in libertà,
sul registro del carcere segna come domicilio "via San
Martino 42, Arcore", cioè casa Berlusconi. La
situazione è ormai imbarazzante. Così nellottobre
1976 Mangano lascia limpiego presso Arcore. Poche settimane
dopo se ne va anche DellUtri.
Berlusconi è ormai un imprenditore che ha costruito
un piccolo impero immobiliare sotto il segno del Biscione.
Intuisce il danno dimmagine che gli può provocare
la diffusione della notizia daver accolto in casa un
mafioso. In più, forse teme possibili indagini di polizia.
Rompe rapidamente, dunque, con la coppia DellUtri-Mangano.
Mantiene però gli impegni presi con Bontate: continua
a versare il suo regalo a Cosa nostra (la famiglia
Pullarà sostitusce Mangano nellesazione). E cerca
nuove protezioni.
Nel gennaio 1978 si iscrive alla P2 di Licio Gelli. Sotto
le ali di quel club, otterrà massicci fidi bancari
anche senza adeguate garanzie; e tenterà di sviluppare
alcuni affari in Sardegna in cui sono coinvolti piduisti e
personaggi della criminalità organizzata romana e siciliana,
tra cui Flavio Carboni, faccendiere romano nelle mani della
malavita della capitale e frequentatore di mafiosi del rango
di Pippo Calò, linviato di Cosa nostra nella
capitale. Sono questi gli anni in cui la criminalità
organizzata penetra dentro la massoneria e alcune logge diventano
camera di compensazione tra i diversi poteri, luogo dincontro
tra politici, imprenditori e mafiosi (come lo stesso Bontate,
anchegli iscritto a una loggia massonica).
3.
E DellUtri? Dopo il licenziamento da parte di Berlusconi,
Marcello attraversa un periodo di smarrimento. Accarezza lidea
di prendersi un anno sabbatico, di lasciare tutto per trasferirsi
in Spagna, a studiare teologia presso luniversità
di Navarra, o presso i Gesuiti in Italia. È il solito
Cinà a tirarlo fuori dai guai, preoccupato per lamico
("Si vuole fare prete", aveva capito, sintetizzando
un po rozzamente una crisi più complessa). Nel
1977 lo fa assumere da Filippo Alberto Rapisarda, in quegli
anni a capo, a Milano, di un grande gruppo immobiliare, stimato
il terzo in Italia e considerato un luogo privilegiato di
passaggio dei capitali mafiosi.
DellUtri diventa dirigente della Bresciano, unazienda
del gruppo Rapisarda, benché egli stesso ammetta alla
signora Bresciano di non sapere neanche da che parte si cominci
a dirigere unazienda. Il suo gemello, Alberto DellUtri,
viene posto al vertice di unaltra società di
Rapisarda, la Venchi Unica. Non è unesperienza
fortunata: in breve tempo, tutto il gruppo Rapisarda finisce
nellimbuto di un colossale fallimento. Marcello è
incriminato a piede libero, Alberto è arrestato a Torino,
Rapisarda fugge allestero, nel Venezuela dei Caruana,
grandi trafficanti di droga, e poi a Parigi (con un passaporto
intestato a "DellUtri Alberto").
Passato da Berlusconi a Rapisarda, DellUtri trasferisce
la sua abitazione nel lussuoso palazzetto di questultimo,
nella centralissima via Chiaravalle, a Milano. Ma non interrompe
i vecchi rapporti. Con Vittorio Mangano, per esempio: nel
1980, in una telefonata intercettata dalla Criminalpol, DellUtri
parla con lamico di "affari" e di "cavalli".
È la telefonata a cui fa riferimento Paolo Borsellino
nella sua ultima intervista prima di essere ucciso, quando
spiegherà che per "cavalli" si intendono
partite di droga.
Nellaprile dello stesso anno, DellUtri fa un salto
a Londra, dove partecipa alla festa di matrimonio di Jimmy
Fauci, mafioso siciliano che gestisce in Gran Bretagna il
traffico di droga per il clan Caruana. DellUtri ammette:
"Mi portò Cinà, non sapevo chi fosse lo
sposo, mi trovavo a Londra per visitare una mostra sui vichinghi".
4.
Nel 1983 DellUtri lascia Rapisarda (che parla di tradimento)
e ritorna al servizio di Berlusconi, il quale lo inserisce
al vertice di Publitalia 80, lazienda nata un paio danni
prima con la mission di raccogliere pubblicità per
le reti televisive del Biscione. Perché questo ritorno?
E come mai, questa volta, in una posizione così importante?
Quello che approda a Publitalia è lo stesso DellUtri
che al momento del licenziamento, nel 1976, si era sentito
dire da Berlusconi di non essere in grado di dirigere unazienda.
Lo stesso che aveva apertamente ammesso i suoi limiti manageriali
con la signora Bresciano. Lo stesso che, negli anni con Rapisarda,
aveva aggiunto al suo curriculum professionale ununica
esperienza di rilievo: il fallimento della Bresciano. Eppure
ora è posto a capo della società più
delicata del gruppo, quella che fa il fatturato per tutta
la Fininvest.
Per capirne le ragioni, è necessario comprendere la
grave crisi attraversata da Berlusconi nei primi anni Ottanta.
Nel 1981, con la pubblicazione degli elenchi degli iscritti
alla loggia segreta di Licio Gelli, scoppia lo scandalo P2
e Berlusconi si ritrova di nuovo esposto ai possibili attacchi
della stampa e alle possibili indagini della magistratura,
anche a causa dei suoi rapporti con personaggi della P2 legati
alla mafia. Quella stessa mafia che DellUtri gli aveva
portato in casa nel 1974 e che lui aveva creduto di allontanare
licenziandolo.
Non solo. Proprio in quegli anni, Cosa nostra "si era
fatta sotto" di nuovo, e pesantemente, con limprenditore
di successo ormai entrato nel business televisivo: "Gli
stavano tirando il radicone", racconta il collaboratore
di giustizia Angelo Siino, ossia gli avevano fatto forti richieste
di denaro.
In Sicilia erano cambiati gli equilibri: Bontate era stato
sconfitto e ucciso (proprio nel 1981) al culmine della guerra
di mafia che lo aveva contrapposto ai corleonesi di Totò
Riina; e i Pullarà, della stessa famiglia di Bontate
ma alleati dei corleonesi, avevano cominciato a gestire a
loro modo le relazioni con la Fininvest. Quanto a Vittorio
Mangano, già fuori gioco, nel 1983 è oltretutto
di nuovo arrestato, nellambito delloperazione
San Valentino che non solo scopre, proprio sullasse
Milano-Palermo, molti mafiosi, ma individua per la prima volta
anche alcuni colletti bianchi della mafia al Nord.
Per Berlusconi, stretto tra scandalo P2 e nuove pretese di
Cosa nostra, è un momento delicato e difficile. Superato,
secondo i magistrati di Palermo, attraverso una ristrutturazione
complessiva dei rapporti tra la Fininvest e la mafia, che
prevede anche il ritorno di DellUtri al fianco di Berlusconi,
ormai "vittima consapevole" di Cosa nostra.
Totò Riina, nuovo uomo forte dellorganizzazione
criminale dopo luccisione di Bontate, eredita i contatti
a suo tempo stretti da questultimo e li rimodula, avviando
una fase nuova nei delicati rapporti tra la Fininvest e la
Sicilia. È sempre Tanino Cinà, gran padrino
di DellUtri, a mediare anche questo cruciale passaggio,
offrendo ai nuovi capi di Cosa nostra ancora una volta DellUtri
come luomo che può risolvere la crisi.
Lo rivelano, dallinterno, alcuni collaboratori di giustizia
che raccontano come, a metà degli anni Ottanta, allorecchio
di Riina fosse giunta leco della controversia tra Mangano
e i Pullarà, motivata dal fatto che questi ultimi gli
avevano scippato il rapporto con Berlusconi. Cera stato
addirittura un acceso scontro verbale in carcere tra lex
stalliere e Giovan Battista Pullarà. Il
nuovo capo di Cosa nostra decide di estromettere sostanzialmente
i Pullarà (anche se, per non scontentarli, lascia a
loro una parte dei soldi pagati dalla Fininvest) e di utilizzare
quel rapporto a beneficio dellintera organizzazione.
Viene istituzionalizzato (sicuramente a partire almeno dal
1986) il versamento a Cosa nostra di 200 milioni di lire allanno,
ma tornando a impostare i rapporti secondo i principi dellimpresa
amica e del regalo, che sarà infatti
puntualmente fatto giungere ai boss anche negli anni delle
stragi di mafia: certamente fino al 1993 o, secondo altri
riscontri (tra cui le agende di DellUtri che documentano
i suoi rapporti con Cinà), fino al 1995. Il regalo
passa dalla Fininvest a Gaetano Cinà, da Cinà
a Pierino Di Napoli, da Di Napoli a Raffaele Ganci, infine
da Ganci a Riina, che poi provvede a ripartirlo tra i vari
mandamenti di Cosa nostra interessati: come San
Lorenzo (nel cui territorio vi è la sede palermitana
delle Fininvest) e Resuttana (dove sono posizionate alcune
delle antenne siciliane del gruppo).
Che i rapporti siano distesi e cordiali ben diversi
da quelli che di solito intercorrono tra estorsore e vittima
di unestrosione è testimoniato da alcune
telefonate intercettate nel 1986, come quella in cui Cinà,
al telefono con Alberto DellUtri, gemello di Marcello,
racconta delle cassate siciliane inviate per Natale da Palermo
a Milano, alla sede della Fininvest: quella per Berlusconi,
grandissima, pesava più di 11 chili e Cinà ci
aveva fatto scrivere sopra dal pasticciere "Canale 5,
in numero e in lettere".
Ma Riina non pensa solo ai soldi, bensì anche e soprattutto
alla politica: il vecchio rapporto con DellUtri
e Berlusconi potrebbe diventare un buon canale per arrivare
a Bettino Craxi allora presidente del Consiglio, ipotizza
Riina, che comincia ad accarezzare lidea di mandare
un avvertimento alla Dc per i tentennamenti dimostrati nel
sostegno a Cosa nostra.
I primi anni Ottanta, quelli del ritorno di DellUtri
al gruppo Berlusconi, sono anche gli anni in cui la Fininvest
sviluppa il suo impero televisivo. Fa incetta di emittenti
in tutta Italia: anche in Sicilia, dove nasce Rete Sicilia
che ritrasmette i programmi di Canale 5 e che ha nel suo consiglio
damministrazione, accanto ad Adriano Galliani, un certo
Antonio Inzaranto, nominato addirittura presidente senzaltra
competenza se non quella di essere cognato della nipote di
Tommaso Buscetta; Trinacria tv, che trasmette Italia 1, è
invece domiciliata presso la Parmafid, una fiduciaria dietro
cui si muovono personaggi come Joe Monti e Antonio Virgilio,
arrestati nel 1983 come colletti bianchi della
mafia, considerati i terminali milanesi del riciclaggio di
Cosa nostra (condannati in primo grado e in appello, sono
poi assolti in Cassazione da Corrado Carnevale, allora chiamato
giudice ammazzasentenze); Sicilia televisiva,
infine, lemittente che ritrasmette Retequattro, è
avviata da due fratelli, i costruttori Filippo e Vincenzo
Rappa, amici di DellUtri poi processati per mafia (il
secondo sarà condannato).
La Parmafid è considerata dai magistrati palermitani
lo strumento fiduciario attraverso cui Antonio Virgilio gestisce
da Milano il denaro di Cosa nostra per conto di Pippo e Alfredo
Bono, della famiglia di Bolognetta. Ebbene, proprio la Parmafid
controlla, fino al 1994, una quota consistente delle holding
che a loro volta controllano la Fininvest.
Il 28 novembre 1986 scoppia una piccola bomba contro la cancellata
della sede milanese della Fininvest, in via Rovani. È
la seconda: una simile era scoppiata il 26 maggio 1975. Dalle
telefonate (intercettate) si capisce che Berlusconi e Fedele
Confalonieri siano convinti che sia stato anche questa volta
Mangano (che invece è, di nuovo, in carcere): "Una
cosa rozzissima, ma fatta con molto rispetto, quasi con affetto...",
dice Berlusconi. E chiede conto di ciò al suo collaboratore,
evidentemente considerato il responsabile in azienda del ramo,
lo specialista in questo genere di cose. DellUtri non
delude le attese. Due giorni dopo, il 30 novembre, telefona
al capo: Mangano non centra, "assolutamente è
proprio da escludere". Comunque non cè da
preoccuparsi, cè "da stare tranquillissimi".
E spiega: "Ho visto Tanino... che è qui a Milano".
Berlusconi non chiede chi è Tanino. Evidentemente sa
bene chi è Cinà e prende atto con un monosillabo:
"Ah!".
La spiegazione dellattentato arriva dallinterno
di Cosa nostra. Sono i catanesi di Nitto Santapaola, questa
volta, a entrare in campo a gamba tesa: attentati, messaggi
telefonici, lettere minatorie. Riina è stato avvertito
ed è daccordo: lascia fare i catanesi, che potranno
magari ritagliarsi una fetta del denaro pagato dalla Fininvest.
A lui la pressione su Berlusconi serve però soprattutto
in vista della sua strategia politica: lascia
che creino problemi a Berlusconi per far poi risaltare le
capacità di coloro che li risolvono, cioè DellUtri
e Cinà, che possono così stringere ancor più
il loro rapporto con Berlusconi, che Riina vuole utilizzare
come ponte per arrivare a Craxi. Alle elezioni del 1987, infatti,
per la prima volta Cosa nostra ritira il suo sostegno ai democristiani
e fa affluire i suoi voti al Psi, apprezzato per il suo garantismo.
E DellUtri continua a fare il mediatore tra le pretese
di Palermo e le possibilità di Milano. Un mestiere
difficile, che necessariamente incappa in momenti di crisi.
Laltalenante rapporto tra Berlusconi e DellUtri,
infatti, sul finire degli anni Ottanta ha un altro periodo
di raffreddamento. Le minacce proseguono, evidentemente perché
i mafiosi non sono soddisfatti delle risposte ottenute. Il
17 febbraio 1988 Silvio Berlusconi fa al telefono (intercettato)
una confessione drammatica allamico imprenditore Renato
Della Valle: "Sono messo male fisicamente. E poi cho
tanti casini in giro, a destra, a sinistra. Ce nho uno
abbastanza grosso, per cui devo mandar via i miei figli, che
stan partendo adesso per lestero, perché mi han
fatto estorsioni... in maniera brutta. (...). Una cosa che
mi è capitata altre volte, dieci anni fa, e... sono
ritornati fuori. (...) Sai, siccome mi hanno detto che se,
entro una certa data, non faccio una roba, mi consegnano la
testa di mio figlio a me e espongono il corpo in piazza del
Duomo. (...) E allora son cose poco carine da sentirsi dire
e allora, ho deciso, li mando in America e buona notte".
Non si sa se poi Berlusconi abbia fatto o no "la roba"
che gli chiedevano "entro una certa data". Ma certamente
raffredda i rapporti con DellUtri. Questa volta Marcello
non viene licenziato, ma tenuto a distanza. Lo racconta Mariapia
La Malfa, moglie di Alberto DellUtri, in una telefonata
del luglio 1988 a Rita dalla Chiesa: "Per ventanni
Berlusconi ha sempre trascorso i capodanni con Craxi e DellUtri,
ma da quando cè Previti non invita più
Marcello...". Secondo i magistrati palermitani, si ripete
la scena degli anni Settanta: DellUtri ha rimesso Berlusconi
nelle mani di Cosa nostra, eppure le minacce continuano, perché
la mafia alza sempre la posta e questa volta vuole arrivare
a Craxi.
Nel 1991, subito dopo la sua ennesima scarcerazione, Mangano
cerca di riallacciare i rapporti con DellUtri e la Fininvest.
Ma viene bloccato da Totò Cancemi, capo della sua famiglia
mafiosa, che per conto di Riina in persona gli chiede di farsi
da parte, in nome del "bene di tutta Cosa nostra":
Riina vuol gestire lui stesso, direttamente, il rapporto con
Berlusconi.
Intanto i catanesi continuano le loro pressioni. A partire
dal 1990 bersagliano di minacce e attentati incendiari i magazzini
Standa di Catania. La reazione è ancora una volta privata:
nessuna denuncia e, apparentemente, nessun riscatto pagato.
In realtà alcuni titolari di magazzini in franchising
ammettono di avere versato la loro parte, un miliardo. Berlusconi
invece nega tutto e minimizza perfino i danni subiti. Ma è
DellUtri, secondo diversi collaboratori di giustizia,
che come al solito sincarica di risolvere, in maniera
riservata, il problema: riceve a Milano un emissario delle
famiglie catanesi e poi scende personalmente in Sicilia dove
nellautunno 1991 incontra, a Messina, Santapaola in
persona, allora latitante.
In questo periodo, segnala laccusa, il gruppo Berlusconi
acquisisce "appalti in Sicilia senza conflitti con la
locale imprenditoria mafiosa, anzi entrando in società
con alcuni imprenditori che sono risultati legati a Cosa nostra":
è il caso della società di costruzioni Coge,
riconducibile a Paolo Berlusconi, che realizza lavori, per
esempio, nellisola di Favignana.
In questi stessi anni accade anche un fatto che, secondo laccusa,
mette bene in rilievo i metodi professionali di DellUtri
e i suoi rapporti siciliani. Nel 1990 il dirigente di Publitalia
stringe un contratto di sponsorizzazione con la squadra femminile
della Pallacanestro Trapani. Lo sponsor è la Birra
Messina, che simpegna per circa 1 miliardo e mezzo di
lire. Ma DellUtri pretende che metà della cifra
versata dallo sponsor gli sia restituita, in contanti e in
nero, a titolo di intermediazione. Il proprietario della squadra,
Vincenzo Garraffa, si rifiuta e a quel punto DellUtri
dapprima lo minaccia ("Ci pensi, perché abbiamo
uomini e mezzi per convincerla a pagare") e poi gli manda,
a fare un convincente recupero crediti, il boss
di Cosa nostra di Trapani, Vincenzo Virga. Per questo fatto
DellUtri è già stato condannato nel 2004
a Milano a due anni di reclusione, in primo grado, per tentata
estorsione.
Anche i Graviano, boss di Brancaccio, mandanti dellassassinio
di padre Pino Puglisi e protagonisti nel 1992-93 della strategia
stragista di Cosa nostra, hanno contatti con DellUtri.
Laccusa individua rapporti tra il manager di Publitalia
e tre siciliani, Giuseppe DAgostino, Francesco Piacenti
e Carmelo Barone. Il primo viene arrestato il 27 gennaio 1994
in un ristorante di Milano, Gigi il Cacciatore, insieme ai
capifamiglia, i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano.
5.
Intanto lItalia è arrivata a una svolta. Dopo
Mani pulite, il sistema dei partiti si sgretola. Contemporaneamente,
Cosa nostra in Sicilia rompe definitivamente con i suoi tradizionali
referenti politici (Salvo Lima e gli andreottiani) e, dopo
la conferma in Cassazione delle condanne del maxiprocesso
di Palermo, dichiara guerra allo Stato. Inizia la stagione
delle stragi: nel 1992 sono uccisi i democristiani Salvo Lima
e Ignazio Salvo, considerati traditori, e i magistrati
Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Lanno seguente
lattacco si trasferisce sul continente: unautobomba
tenta duccidere il giornalista Maurizio Costanzo, poi
seguono gli attentati di Firenze, Roma, Milano.
È in questo clima drammatico che Silvio Berlusconi,
preoccupato per la sorte delle sue aziende rimaste senza sostegno
politico, decide di "scendere in campo", di buttare
nella mischia la potenza delle sue tv e di fondare Forza Italia.
Ma è DellUtri, che fino a quel momento non si
è mai occupato di politica, il primo a pensare a un
impegno diretto, a spingere il suo capo in questa direzione
e poi a costruire il partito, usando la struttura organizzativa
di Publitalia. Non solo precede Berlusconi, ma è anche
il solo dirigente del gruppo a non avere dubbi, anzi a lottare
contro le cautele e le resistenze degli altri consiglieri
del presidente (Gianni Letta, Fedele Confalonieri, Maurizio
Costanzo, Enrico Mentana...). Lo testimonia un consulente
di DellUtri, Ezio Cartotto, ingaggiato in segreto per
studiare nuove modalità dintervento politico
della Fininvest in previsione del crollo dei partiti amici.
Poi, tra il 1993 e il 1994, si consuma un drammatico contrappunto
Milano-Palermo. Mentre il sistema politico implode e le stragi
prostrano lItalia, Cosa nostra, che come dice Riina
ha "fatto la guerra per fare la pace", è
alla ricerca di nuovi referenti politici. Anche in questo
tesissimo momento, DellUtri ha un compito delicato:
garantire ancora una volta il rapporto tra Milano e Palermo,
mediare tra le richieste di Cosa nostra e le disponibilità
del nascente partito di Forza Italia.
Alcuni tra i boss, dopo aver fondato il movimento Sicilia
libera, si stavano avviando a sostenere una Lega del Sud,
un movimento che avrebbe dovuto nascere, con appoggi massonici,
dalla federazione delle diverse leghe sorte nelle regioni
meridionali: avrebbe dovuto contrapporsi alla Lega Nord, ma
di fatto concorrere insieme ad essa alla spartizione del Paese;
e soprattutto avrebbe dovuto essere sensibile alle esigenze
politiche di Cosa nostra. Dentro lorganizzazione
criminale si svolge, allora, unampia consultazione,
qualcosa di simile alle elezioni primarie, in cui le famiglie
mafiose sono chiamate a esprimere la loro preferenza tra il
progetto sudista e indipendentista di Sicilia
libera e quello milanese e nazionale di Marcello
DellUtri. Prevale questultimo, giudicato più
serio ed efficace.
Il capo di Cosa nostra dopo larresto di Riina, Bernardo
Provenzano, si assume la responsabilità di dare il
proprio appoggio al nuovo soggetto politico, a proposito del
quale vi erano stati contatti con DellUtri: "Finalmente,
si prospetta un discorso serio e che possiamo andare avanti".
La lunga stagione delle stragi sinterrompe e inizia
la fase dellinabissamento di Cosa nostra.
Provenzano prende la sua decisione perché ha avuto
adeguate garanzie di risoluzione dei problemi dellorganizzazione
criminale: "Pressione giudiziaria, sequestro dei beni,
collaboratori di giustizia, regime carcerario duro".
Si stringe così un nuovo patto che prevede, da una
parte, "garanzie politiche" (Provenzano promette
che "entro dieci anni si sistemava tutto") e, dallaltra,
lappoggio elettorale e la realizzazione della "strategia
dellinabissamento" ("Perché se noi
continuavamo a fare attentati... a spargere sempre violenza,
a fare azioni eclatanti, i riflettori delle forze dellordine
e dellopinione pubblica era sempre a controllare, a
guardare, a giudicare a noi e le persone che ci dovevano aiutare...
Per cui era importantissimo, se non vitale, che Cosa nostra
intraprendesse un periodo di quiete, di tranquillità,
in modo che non destasse attenzione nellopinione pubblica
né alle forze dellordine e della magistratura
in modo particolare": così racconta lultimo
dei grandi collaboratori di giustizia, Nino Giuffrè).
DellUtri costruisce in pochi mesi il partito di Forza
Italia che nel 1994 ottiene un clamoroso successo e porta
Berlusconi per la prima volta al governo. Naturalmente i magistrati
di Palermo non pretendono di spiegare con i rapporti siciliani
tutto il successo di Forza Italia, che è spiegabile
solamente con una complessa somma di concause politiche, economiche
e sociali. Ma aggiungono a queste gli elementi emersi nelle
indagini su DellUtri e i suoi rapporti con Cosa nostra.
Concludendo che "DellUtri interviene come sa, secondo
il suo stile, alla grande, senza mezzi termini,
facendosi in prima persona protagonista e artefice di un progetto
politico, quello che poi sfocerà nella nascita del
movimento Forza Italia. Movimento rispetto al quale, intendiamo
ribadirlo una volta per tutte (...), il pubblico ministero
ha il massimo rispetto, così come ha il massimo rispetto
nei confronti dei suoi militanti e dei suoi elettori. (...)
La condotta e le finalità di DellUtri sono assai
meno commendevoli di quelle degli altri fondatori del movimento
politico; anzi, è provato che quelle di DellUtri
furono direttamente condizionate da Cosa nostra, e dalla precipua
finalità di agevolare la realizzazione degli interessi
di Cosa nostra. Ed è per via di DellUtri soprattutto,
e del ruolo da lui esercitato, che il movimento politico di
Forza Italia fin dal suo sorgere costituì un punto
di interesse politico per Cosa nostra: non certo
perché Forza Italia fosse il partito della mafia, ma
perché Forza Italia era il partito di DellUtri
e quello a Cosa nostra bastava".
I rapporti con la mafia proseguono anche negli anni successivi.
Nel 1999, per le elezioni europee, Cosa nostra fa circolare
tra i suoi uomini lordine di sostenere e votare proprio
DellUtri, che devessere aiutato anche in relazione
ai guai giudiziari che gli sono piovuti addosso (nel 1997
è iniziato il processo palermitano per collusioni con
la mafia). Nella nuova Cosa nostra di Provenzano, DellUtri
gode di uninedita autorevolezza: "Una straordinaria
conferma", sostengono i magistrati di Palermo, "dellattuale
vigenza dei patti stipulati a suo tempo, fin dal
1994".
6.
La lunga requisitoria presentata in questo volume è
la storia di un uomo, Marcello DellUtri, e della sua
lunga attività di mediatore tra un imprenditore del
Nord e Cosa nostra. Un incredibile romanzo, il plot di un
grande film. A costruire questa storia non sono solo le testimonianze
dei collaboratori di giustizia, i tanto vituperati pentiti,
vittime di una campagna di delegittimazione che dura ormai
da più dun decennio. No, nel processo
come ciascuno può leggere in queste pagine sono
confluiti dati oggettivi, documenti societari, rapporti di
polizia, intercettazioni telefoniche e ambientali, racconti
e contributi di semplici testimoni, perfino ammissioni degli
imputati.
Finito il processo, però, si apre o almeno dovrebbe
aprirsi la riflessione giornalistica, civile, morale,
politica in senso alto. Ma in Italia questo non succede. Lo
constata Barbara Spinelli, dopo la sentenza, in un suo commento
(Il sonno morale) sulla prima pagina della Stampa di domenica
12 dicembre 2004: "Sia in caso dassoluzione che
di condanna, i processi italiani sono vissuti con atteggiamento
politico piuttosto che morale, e si svolgono tutti in unatmosfera
rarefatta dove non hanno spazio né la coscienza né
i principi, né il giusto né lingiusto".
A parte i commenti dei politici (assolutori e antigiudici
da destra, cauti e chissà perché quasi imbarazzati
da sinistra), la società italiana non ha ritenuto di
fare una riflessione libera, autonoma da ogni schieramento
preconfezionato. Eppure, "non esistono solo la coscienza
personale di Berlusconi e di DellUtri. Esiste anche",
argomenta Spinelli, "la coscienza del Quarto Potere incarnato
da stampa, radio e televisione, ed esiste la coscienza dei
liberi adulti cittadini-elettori. Per costoro il dilemma non
può essere semplicemente accantonato, a partire dal
momento in cui la magistratura cessa doccuparsi in esclusiva
dei casi e li restituisce al pubblico spazio". Barbara
Spinelli continua: "Una volta pronunciata la sentenza,
anche se solo di primo grado, si può tornare a commentare
e giudicare con criteri politici". E invece: "Non
ci sindigna, se i tribunali certificano la collusione
tra mafia e politica, se denuncia i meandri di unimpresa
che ha mescolato affari illeciti e politica".
Perché se è vero che il processo di Palermo
ha avuto come imputato, accanto a Tanino Cinà, il solo
Marcello DellUtri e che esclusivamente sue sono le responsabilità
penali accertate nel dibattimento, un Paese civile non può
sfuggire, fuori dal piano giudiziario, a questioni impronunciabili:
che imprenditoria è mai cresciuta in Italia, nella
ricerca di soluzioni private alle minacce della
criminalità organizzata e nelle commistioni finanziarie
con il denaro sporco? E che nuova élite politica si
è mai consolidata, se deve far catenaccio con personaggi
compromessi, senza riuscire a far valere alcuna autonomia
di giudizio?
La vicenda penale riguarda Marcello DellUtri, ma quella
morale e politica coinvolge direttamente il suo datore di
lavoro: Silvio Berlusconi, "vittima consapevole".
Limprenditore poi diventato presidente del Consiglio
mostra di sapere in che gioco è stato messo da DellUtri
(lo provano oggettivamente le intercettazioni telefoniche).
E perché si è rifiutato di rispondere alle domande
dei pubblici ministeri, il 26 novembre 2003, perdendo così
la possibilità di sgombrare il campo da tanti equivoci
e misteri?
7.
Ecco, dunque, perché può essere utile pubblicare
in volume questa requisitoria, questo lunghissimo e complesso
documento giudiziario. Non certo per ossessione giustizialista.
Anzi, per proporre semmai un uso non giudiziario anche delle
carte giudiziarie. Non ci interessa, qui, la valutazione penale
dei fatti raccontati, delle testimonianze presentate; non
ci interessa, a rigore, neppure se la sentenza sia di condanna
o dassoluzione. Ci interessa, su tuttaltro piano
che quello giudiziario il piano della vita, della convivenza
civile, dunque anche della politica rendere disponibile
a tutti i cittadini la conoscenza di fatti che comunque hanno
a che fare, per la natura dei protagonisti, con la storia
di questo Paese. Non per invocare sanzioni o pretendere condanne,
ma per fare quello che è proprio del giornalismo: far
conoscere vicende, raccontare personaggi, svelare retroscena.
Vicende, personaggi, retroscena che, in questo caso, segnano
la storia del Paese, toccano il cuore della politica italiana,
eppure incredibilmente non hanno mai avuto uno
spazio adeguato sui giornali o nelle tv. Ecco dunque questo
documento, pubblicato per rendere disponibile a tutti la conoscenza
di vicende troppo poco o per niente raccontate dai media.
La requisitoria di Nico Gozzo e Antonio Ingroia contiene una
mole imponente di informazioni, frutto di anni e anni di ricerche,
di centinaia di testimonianze e di documenti che sarebbe un
delitto seppellire in un archivio polveroso, consegnandole
alloblio.
Certo, non è usuale che in questo come in altri
casi del recente passato agli strumenti giornalistici
si sostituiscano atti giudiziari. Non è normale. Ma,
di fronte allenormità della vicenda italiana,
saltano anche i generi letterari per raccontarla. Il giornalismo,
dopo aver pazientemente percorso la strada del resoconto e
dellinchiesta, della cronaca e del reportage, finisce
per doversi avventurare in nuovi percorsi. In qualche caso
il giornalismo cerca di realizzarsi nella fuga (ma solo apparente)
della fiction, o della satira. In altri casi, allopposto,
si rifugia nelliperrealismo dei documenti, ritraendosi
per lasciar parlare le carte. Dopo tante ricerche, inchieste,
reportage e campionari di storie e personaggi italiani, la
soggettività cerca di sparire, quasi addolorata per
la mostruosità dei propri risultati, e lascia il campo
ai freddi fatti, ai nudi documenti.
Ecco dunque, strappato al buio degli scaffali palermitani
asciugati dallo scirocco, questo materiale per una storia
dei rapporti tra Milano e Palermo, tra gli affari e la criminalità,
tra i poteri illegali e la politica. Nodi in gran parte non
sciolti. Ed elementi non secondari, in un Paese che, più
in generale, ha avuto per sette volte come presidente del
Consiglio un uomo che, secondo una sentenza ormai definitiva,
è stato, almeno fino al 1980, in rapporti con Cosa
nostra. Milano-Palermo, Palermo-Roma. Limpresa e la
politica e la criminalità. La storia non si scrive
con le sentenze, si sente ripetere, ma chi vorrà scrivere
la vera storia dItalia dovrà pur rendere conto
anche dei fatti emersi nelle aule di giustizia.
(Da Dossier Dell'Utri, Kaos edizioni, 2005)
Apologia di Cosa nostra
11 novembre 2007. In attesa della sentenza di secondo grado, Berlusconi difende Marcello Dell'Utri, già condannato in primo grado per mafia (ma Mangano fu condannato per mafia!)
La cronaca del Corriere della sera, 12 novembre 2007, dal convegno dei Circoli di Dell'Utri a Montecatini.
«Tutto a posto, è carico come una molla». Alberto Zangrillo, il medico personale del Cavaliere, ha appena finito di visitarlo. Dopo il malore dello scorso anno proprio qui a Montecatini, lo segue in tutte le manifestazioni pubbliche. Zangrillo lascia l' albergo e raggiunge il Palamadigan, dove il fondatore di Forza Italia terrà il discorso finale al convegno dei circoli del senatore Marcello Dell' Utri. E al «caro Marcello» dedica buona parte del suo intervento, tenendolo sottobraccio mentre parla dal palco. (...).
Ad ascoltarlo in prima fila si notano il gruppo dirigente di Forza Italia al gran completo e l' ex deputato ed ex ministro Cesare Previti, ora agli arresti domiciliari, a Montecatini per effetto di un permesso concesso dal magistrato. Berlusconi esordisce rivolgendosi a Dell' Utri: «Lo devo ringraziare per quello che ha fatto, che ha continuato a fare e continuerà a fare sapendo bene di esporsi ad attacchi feroci, di una ferocia giacobina, da chi usa impropriamente, e in modo assolutamente contrario a ciò che si deve fare, il potere che la carica di magistrato conferisce».
Quello del Cavaliere è un amarcord. Esalta il ruolo giocato da Dell' Utri, e si sofferma sui guai giudiziari nei quali è incappato il cofondatore di Forza italia e dei circoli, che, si sa, è stato condannato per concorso in associazione mafiosa. «L' accusa - osserva - è di avere conosciuto delle persone. Dell' Utri, un bibliofilo eccezionale, membro dell' Opus Dei, è nato, ha studiato a Palermo». E a Palermo, lui che ha fondato una squadra di calcio - la Bacigalupo - «ha avuto modo di conoscere persone che dopo si è scoperto avere contiguità con quel cancro che è la mafia».
Evocata la mafia Berlusconi si dilunga su Vittorio Mangano, lo stalliere della villa San Martino ad Arcore, anche lui colluso con l' ambiente dei padrini, ma dice convinto il Cavaliere, «non fu mai condannato per mafia». Mangano, rivela Berlusconi, fu sottoposto alle pressioni più terribili affinché coinvolgesse me e Marcello». Lo stalliere, ricorda ancora l' ex premier, «portava a scuola i miei figli e ha sempre descritto quello di Arcore come il periodo più felice della sua vita». Non solo: «Non accettò mai di dire o inventarsi cose su me e Marcello». Questa notazione serve a Berlusconi per un' ulteriore critica alla magistratura. «Se non erro, il principio della pena in Italia è quello di recuperare alla società civile qualcuno che ha sbagliato ma in questa circostanza devono essere recuperati alla società questi giudici che lo accusano». (...) (Lorenzo Fuccaro)
In verità: Vittorio Mangano fu indicato al maxiprocesso di Palermo, sia da Tommaso Buscetta che da Totò Contorno, come uomo d' onore appartenente a Cosa Nostra, della famiglia di Pippo Calò, il capo della famiglia di Porta Nuova (della quale aveva fatto parte lo stesso Buscetta). Nel 2000, poco prima di morire per un cancro, fu condannato all' ergastolo per il duplice omicidio di Giuseppe Pecoraro e Giovambattista Romano, quest' ultimo vittima della «lupara bianca» nel gennaio del ' 95. È stato inoltre sospettato di aver rapito il principe Luigi D' Angerio dopo una cena nella villa di Berlusconi, nel dicembre del ' 74. Conosciuto come lo stalliere di Arcore attraverso le cronache giornalistiche degli iter processuali che lo hanno visto coinvolto, il boss - che fu assunto da Dell' Utri nella villa di Arcore nella quale visse tra il ' 73 e il ' 75 - passò gli ultimi giorni della sua vita in carcere, perché, si legge nella sua lapide nel cimitero di Palermo, «rifiutò di barattare la sua dignità con la libertà».
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