di Gianni Barbacetto
È la seconda carica dello Stato: presidente del Senato. Con ambizioni da padre costituente. E con tanto d'invito a «scelte condivise», a riforme da fare insieme, maggioranza e opposizione. Per «smussare gli angoli del federalismo» e rassicurare tutto il Paese. Chi l'avrebbe mai detto che Schifani Renato, classe 1950, siciliano di Palermo, sarebbe arrivato così in alto? No, non lo immaginava neppure lui, quando, nel 1994, aveva cominciato la sua corsa dentro Forza Italia. Era iniziato tutto quasi per caso una quindicina d'anni prima. Nella Palermo inquieta dei primi anni Ottanta, Schifani faceva coppia fissa con un altro giovanotto destinato a fare carriera: Enrico La Loggia. Insieme erano stati giovani simpatizzanti della Dc. Insieme avevano fatto qualche affare urbanistico nell'area attorno a Palermo. Insieme avevano messo in piedi un'azienda di brokeraggio. Schifani stava nella scia dell'amico La Loggia. E lo aveva seguito anche quando, crollata la Dc e i vecchi partiti della Prima Repubblica, La Loggia aveva aderito al nuovo movimento di Silvio Berlusconi, diventando subito senatore di Forza Italia.
A Palermo raccontano che Schifani è «come le attrici che confidano di avere iniziato la carriera accompagnando un'amica a un provino». Lui accompagnava La Loggia. Gli faceva da portaborse. Passava nelle tv private siciliane a saldare i conti degli spot elettorali dell'amico. Un paio d'anni all'ombra di Enrico La Loggia gli bastano per entrare nella serie A del partito azzurro. Nel 1996 Schifani è eletto senatore, nel collegio di Corleone. Lascia Palermo e la sua professione di avvocato civilista, che aveva esercitato senza diventare proprio un numero uno (l'ex ministro della Giustizia Filippo Mancuso, come lui palermitano e come lui di Forza Italia, lo aveva definito «principe del Foro del recupero crediti»).
A Roma arrivano le svolte. La prima: tutt'Italia impara pian piano a conoscere il suo ineffabile sorriso, la sua pettinatura col riporto e le sue dichiarazioni televisive, brevi e secche, pillole perfette per i tg della sera. Lo nota, naturalmente, anche Berlusconi, che apprezza le sue esternazioni tv, anche se ironizza (come una schiera di comici) sul suo riporto. La seconda svolta è più traumatica: rompe con gli amici, divide le sue sorti da quelle di La Loggia. Vuole volare da solo. E sa che ormai la sua carriera dipende dalla fedeltà non ai gregari, ma direttamente al capo.
La grande occasione arriva quando Berlusconi va al governo la seconda volta, nel 2001, ma deve risolvere il fastidioso problema dei processi in cui è imputato a Milano insieme all'amico Cesare Previti. Schifani mette la sua faccia davanti alla ricetta magica che salva il capo: nasce così il «lodo Schifani», la legge che riprende la proposta avanzata dall'esponente del centrosinistra Antonio Maccanico, il quale aveva avuto l'ideona di rendere improcessabili per legge le cinque maggiori cariche dello Stato, dal presidente della Repubblica a quello della Corte costituzionale. Solo uno dei cinque ne aveva bisogno: il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Ma Schifani procede sorridendo e dispensando le sue consuete pillole tv. Il riporto no: su quello cede. E poco gli importa che alla fine, nel 2004, la Corte costituzionale bocci irrimediabilmente il suo «lodo»: ormai Silvio è salvo e, soprattutto, eternamente riconoscente.
Del resto Schifani, per avere il grande capo vicino, è disposto perfino a festeggiare due volte il compleanno, lui che è nato l'11 maggio. Così nel 2005 organizza una grande festa per i suoi 55 anni. Riunisce gli amici a Villa Bordonaro, nei pressi di Palermo. Sceglie la data di venerdì 13 maggio: comoda per i parlamentari che tornano da Roma a fine settimana, ma forse non gradita a Berlusconi per ragioni scaramantiche (venerdì 13!). Il capo a Villa Bordonaro non si vede. E Schifani che fa? Ci riprova il 29 luglio (martedì), al circolo velico Telimar, sul mare di Palermo. E questa volta Berlusconi arriva a festeggiarlo e si unisce ai cori: «Perché è un bravo ragazzo, perché è un bravo ragazzo...».
Il bravo ragazzo palermitano entra a far parte dell'inner circle di Silvio. Tre anni dopo, il 25 aprile 2008, dopo la vittoria elettorale che riporta per la terza volta Berlusconi al governo, a palazzo Grazioli c'è la riunione dove si cominciano a discutere i nomi di chi sarà ministro e di chi andrà a ricoprire le più alte cariche istituzionali. Sono presenti Gianni Letta e Paolo Bonaiuti, Sandro Bondi e Claudio Scajola, Franco Frattini e Niccolò Ghedini. E Renato Schifani, che - chi l'avrebbe mai detto? - si conquista la seconda carica dello Stato.
Sono ormai lontani i tempi duri della gavetta siciliana. I suoi amici d'un tempo - Enrico La Loggia - o gli avversari - Gianfranco Miccichè - quel giorno a palazzo Grazioli non ci sono. Lui sì. Renato dal Riporto li ha stracciati, battuti, surclassati. Chi si ricorda più di quando faceva l'avvocato a Palermo? O di quando, già senatore, litigava per entrare gratis al cinema Aurora? Sì, nel maggio 2002 è successo pure questo. Pretendeva di entrare senza pagare, con la moglie, a vedere il film "Amen", esibendo una tessera Agis non valida. «Ma la sua tessera è scaduta da gennaio, con questa lei non può entrare», gli fa notare la maschera. Schifani non reagisce dicendo proprio «lei non sa chi sono io», ma fa di più: chiama la polizia. Gli agenti arrivano, identificano il gestore dell'Aurora, Nino Cordaro, il quale ribadisce al senatore che la sua tessera è scaduta e per di più la sala è al completo. A questo punto Schifani se ne va, ma quel biglietto di cinema gli costerà carissimo. Perché Repubblica scrive la storia, il senatore querela il giornalista Carmelo Lo Papa, il giudice lo assolve e condanna invece Schifani al pagamento delle spese: 9 mila euro.
Ancora più lontani i tempi eroici degli affari siciliani, con soci non proprio illibati. Sì, Renatino Schifani deve essere fortunatissimo in amore, perché negli affari proprio non gli va bene. Erano gli anni Ottanta quando si mette in società con un certo Antonino Garofalo, in seguito accusato di usura. Poi fonda la Sicula Brokers, che ha tra i suoi soci l'amico La Loggia, ma anche Benny D'Agostino (poi condannato per concorso esterno in associazione mafiosa) e Nino Mandalà (futuro boss di Cosa nostra a Villabate, fedelissimo di Bernardo Provenzano).
Proprio a Villabate il giovane Schifani si dà da fare parecchio. Diventa consulente urbanistico del Comune. Come mai? Lo spiega l'amico La Loggia ai magistrati che indagano su Mandalà: «Schifani aveva perso molto tempo» per i suoi impegni politici e «aveva avuto dei mancati guadagni»; così la cittadinanza di Villabate (ignara) compensa il futuro presidente del Senato con una ricca consulenza. Ma attenzione, Schifani poi lavora davvero. Lo testimonia il pentito Francesco Campanella: «Le quattro varianti al piano regolatore furono tutte concordate con Schifani, che interloquiva anche con Mandalà». Il piano regolatore di Villabate fu dunque deciso dall'ultimo braccio destro di Provenzano, Mandalà, che agiva attraverso Schifani. Almeno secondo quanto racconta Campanella: «Mandalà mi disse che aveva fatto una riunione con Schifani e La Loggia e aveva trovato un accordo: i due segnalavano il progettista del piano regolatore, incassando anche una parcella di un certo rilievo».
Nulla di penalmente rilevante, comunque, secondo i giudici di Palermo. Quando poi nel 1999 il Comune di Villabate viene sciolto per mafia, Miccichè, coordinatore siciliano di Forza Italia, insorge: «È una vergognosa pulizia etnica». Ma Schifani è già senatore. Si è lasciato il passato alle spalle. È ormai l'uomo nuovo di Forza Italia, quello delle battute fulminati al tg, del riporto irriso dai comici, della fedeltà apprezzata dal capo, del «lodo» magico che prenderà il suo nome. Schifani è pronto per il grande salto, verso i vertici delle istituzioni della Repubblica. Oggi è arrivato dove non avrebbe mai creduto di arrivare. E mostra di essere un uomo di Stato, pronto al dialogo, pronto a «smussare gli angoli», lui che per amore di Silvio ha smussato perfino il riporto.
(7 maggio 2008)
The Guardian sul caso Schifani
In Italia destra e sinistra
tutti insieme contro Travaglio
guardian.co.uk/commentisfree
May 13, 2008
Compromised by compromise
di John Hooper
In Italia l'opposizione si é unita al coro di coloro che attaccano un critico del nuovo presidente del Senato. L'opposizione non ha imparato proprio nulla dai rapporti avuti in passato con Berlusconi?
Non c'è voluto molto per individuare nei media italiani gli effetti della vittoria di Silvio Berlusconi. Domenica, il conduttore di un talk show di attualità si é presentato di fronte alle telecamere della Rai, il servizio televisivo pubblico, e ha chiesto perdono alla nazione: "L'offesa non mi appartiene e quando accade non posso che scusarmi". E' stata una scena degna della rivoluzione culturale.
(...)
Suppongo che, in altri paesi, il nuovo presidente sarebbe stato invitato alla puntata successiva del programma per spiegare come mai fosse rimasto coinvolto con certi soggetti. La Rai, invece, si è scusata per averlo offeso.
Da parte sua, Schifani ha detto che le accuse di Travaglio si basano su "fatti inconsistenti e manipolati che non hanno dignita' di generare sospetti" e ha aggiunto che "qualcuno vuole minare il dialogo tra il governo e l'opposizione". La frase allude ad un altro aspetto di questa strana storia. Si potrebbe essere indotti a pensare che gli oppositori di Berlusconi del centrosinistra avrebbero colto la palla al balzo per mettere in imbarazzo il nuovo presidente del Consiglio e il suo governo. Nemmeno per sogno.
Con l'unica eccezione di Antonio Di Pietro, un ex pubblico ministero anti-corruzione, si sono schierati tutti dalla parte di Schifani contro Travaglio. Il capogruppo del centrosinistra in Senato ha detto che le parole del giornalista erano inaccettabili e ha deplorato il fatto che Schifani non fosse stato presente per confutare le accuse.
Ma, dopo tutto, non é la prima volta che, nella recente storia d'Italia, l'opposizione spera di concludere un accordo con Berlusconi. Spera di persuaderlo ad accordarsi su una serie di riforme, compresa la riforma elettorale, che reputa di vitale importanza per il futuro della nazione. E' per questo motivo che non vuole in alcun modo irritare o, per dirla con Fazio, "offendere" il nuovo presidente del Consiglio italiano.
Ci siamo già passati. Alla fine degli anni '90, quando la sinistra era al governo, alcuni dei suoi leader pensarono di poter raggiungere un accordo con Berlusconi per modificare la Costituzione. Ma le trattative andarono talmente per le lunghe, e furono così complicate, e la collaborazione di Berlusconi venne considerata di tale importanza, che la sinistra finì col dimenticare di mantenere la promessa fatta di approvare una legge che regolasse i conflitti di interesse tra i due ruoli di Berlusconi, quello di magnate dei media e quello di leader di un partito politico. Alla fine le modifiche alla Costituzione non si fecero. E Berlusconi tornò al potere con il suo impero mediatico intatto. Si sarebbe ben potuto immaginare che da tutto ciò avessero imparato qualcosa.
http://commentisfree.guardian.co.
uk/john_hooper/2008/05/compromised_by_compromise.html
La zattera della Medusa
di Barbara Spinelli
(...) La perdita di memoria è stupefacente, ramificandosi s’espande. D’un tratto Berlusconi è «un’altra persona», al pari di suoi amici come Dell’Utri, Schifani. Non hanno dovuto fare ammenda: sono altre persone perché il conformismo fa letteralmente magie. Non si ricorda quel che è stato Berlusconi ancora ieri: come quotidianamente ha delegittimato Prodi, trascinando dietro di sé l’informazione. Di conflitto d’interesse non si parla più. Non si ricordano i trascorsi dei suoi uomini. I rapporti con la mafia o il vivere vicino a essa sono pur sempre una loro macchia. Travaglio ha avuto il cattivo gusto di non uniformarsi, di dirlo a Fabio Fazio su Rai3. Sta pagando per questo.
Fa parte del conformismo giornalistico il fascino per il potere (il vizio infantile descritto nel libro di Scalfari: non solo i buoni vincono ma chi vince è buono). E anche se il fascino esiste altrove, in Italia è diverso: proprio perché lo Stato è debole, la massima irriverenza verso le cariche repubblicane si mescola non di rado a riverenze esagerate (verso il presidente del Senato, anche verso il Capo dello Stato). L’usanza non esiste in regimi presidenziali come America e Francia.
Travaglio è un professionista che ha molto investigato, ma ve ne sono altri: Abbate che ha indagato su mafia e politica, o Peter Gomez, Gian Antonio Stella, Elio Veltri, Carlo Bonini, Francesco La Licata. Anche D’Avanzo è fra essi, e per il lettore non è chiaro perché si sia tanto accanito contro Travaglio, il cui carattere non è più spigoloso di altri astri giornalistici. Travaglio si è chiesto come mai un politico dal passato non specchiato sia presidente del Senato. Non è illegittimo. Ha violato il sacro della carica, ma la prossimità di Schifani alla mafia è già stata descritta da Lirio Abbate e Peter Gomez ne I Complici - in libreria dal marzo 2007 - senza che mai sia stata sporta querela. Berlusconi s’avvia a esser osannato allo stesso modo, metamorfizzandosi in tabù. L’antiberlusconismo non è più una normale presa di posizione politica; sta divenendo un insulto che disonora oppositori e giornalisti.
Qui è l’altra originalità italiana. Nessuno si sognerebbe in America di accusare il New York Times o i democratici di anti-bushismo, nessuno in Francia denuncerebbe l’anti-sarkozismo di Libération o dei socialisti. Da noi lo spirito dell’orda è tale che ieri era indecente difendere Prodi, oggi è indecente attaccare Berlusconi. (...)
La Stampa, 18 maggio 2005