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Il caso Paolo Scaroni
Ovvero il manager all'italiana

«In termini personali, io ho pedalato in discesa tutta la vita. All’improvviso, mi sono trovato davanti questo enorme problema, che mi ha reso più fiducioso in me stesso e mi ha fatto capire che sarei in grado di pedalare anche in salita». Chi parla, intervistato sulle colonne dell’autorevole Financial Times, è Paolo Scaroni, 55 anni, uomo ottimista e manager di successo. L’«enorme problema» a cui accenna è un arresto, subìto da Scaroni nel pieno di Mani pulite e seguito da una pena, patteggiata, di 1 anno e 4 mesi. Per tangenti: pagate per ottenere appalti e ammesse davanti ai magistrati. Ma dieci anni dopo, Scaroni, sul quotidiano londinese, si autoassolve: «In un paese in cui gli affari e il governo erano così strettamente intrecciati, dove le istituzioni erano controllate dai politici, era possibile comportarsi in modo diverso? La risposta semplice è: no, non era possibile».

Chiusi così i conti con Mani pulite, il manager riprende felicemente a pedalare in discesa. Dopo un breve esilio è tornato in Italia ed è risalito sulla cresta dell’onda: il 13 maggio 2002 è stato nominato dal governo Berlusconi amministratore delegato dell’Enel: proprio l’azienda pubblica da cui dieci anni prima aveva «comprato» appalti, a suon di tangenti («Something that in retrospect is somewhat ironic», si permette di commentare il Financial Times). Ora, con la sua intervista del 3 ottobre 2002, si offre di fatto come caso emblematico, diventa paradigma dei rapporti tra affari e politica in Italia: una vicenda esemplare, una microstoria da studiare. Vale la pena dunque di accettare il terreno di confronto. E allineare materiali e informazioni per illuminare il caso e capire il fenomeno.

Tangentopoli, due volte protagonista

Paolo Mario Scaroni, vicentino, studia alla Bocconi e si specializza a New York, alla Columbia University. Lavora alla McKinsey, alla Chevron, alla Saint Gobain, infine alla Techint, il gruppo della famiglia Rocca, con grandi interessi in Messico e Argentina. Proprio come amministratore delegato della Techint inciampa nell’inchiesta Mani pulite: il 14 luglio 1992 viene arrestato con l’accusa di aver pagato tangenti ai partiti per ottenere appalti dall’Enel.

Dopo qualche tempo confessa: «Dal 1985 a oggi ho versato al Partito socialista circa 2 miliardi e mezzo, sempre su richiesta dell’onorevole Balzamo, consegnandogli denaro a volte in contanti e a volte su conti esteri». Racconta a verbale di essere stato convocato a metà degli anni Ottanta da Vincenzo Balzamo, segretario amministrativo del Psi e braccio destro finanziario di Bettino Craxi, il quale gli avrebbe spiegato che gli appalti alla Techint sarebbero stati condizionati da contributi versati al partito socialista. Gli uomini del Psi messi nei posti chiave, spiega Scaroni ai magistrati, «erano in grado di stoppare qualsiasi iniziativa del gruppo Techint, qualora non ci fossimo adeguati al sistema».

Il manager si adegua. Agli inizi degli anni Novanta, però, il sistema sembra incepparsi: «Craxi aveva espresso uno sgradimento nei miei confronti», gli viene spiegato nel 1991 da un collaboratore di Balzamo, Vittorio Valenza. Scaroni chiede allora udienza al rappresentante di Craxi nel settore energia, Bartolomeo De Toma: «Mi fece capire che la ragione per cui Craxi ce l’aveva con noi era perché voleva più soldi dall’impresa». Il leader socialista voleva alzare il prezzo. «Transattivamente, convenimmo su un versamento della somma di lire 800 milioni».

Tornerà in cella, per un giorno, nell’aprile 1993. Ammesse le tangenti – ma non un ruolo da regista nelle mazzette Enel – al processo, che si celebra nel 1996, Scaroni chiede di patteggiare la pena: 1 anno e 4 mesi, sotto la soglia che obbliga a entrare in carcere. Con ciò, chiude i suoi problemi penali.

Segue un periodo di eclissi, durante il quale però Scaroni realizza il suo capolavoro: la compravendita della Siv. Scoppiata Tangentopoli, lo Stato avvia la gigantesca operazione delle privatizzazioni. Ancor prima, però, deve mettere in liquidazione, sotto la regia di Giuliano Amato e Alberto Predieri, l’Efim, carrozzone di Stato che fa acqua da tutte le parti, ma che contiene anche qualche boccone prelibato: come la Siv, un’azienda che produce vetri per auto. Scaroni, che ha iniziato giovanissimo la sua carriera come manager proprio di un’impresa del vetro, la Saint Gobain, fiuta l’affare e, per conto della Techint in alleanza con la britannica Pilkington, compra la Siv per soli 210 miliardi di lire: circa la metà del valore assegnatole da una perizia di Mediobanca, protesta invano qualche ex manager del gruppo. Dopo qualche tempo, la Pilkington rileva l’intera Siv e Scaroni si trasferisce a Londra, come chief executive officer dell’azienda britannica.

Di Tangentopoli Scaroni è stato dunque due volte protagonista: la prima, come manager che ha comprato appalti pubblici in cambio di mazzette ai partiti, contribuendo così a formare la voragine del debito pubblico che ha portato nel 1992 l’Italia sull’orlo della bancarotta; la seconda, come beneficiario delle privatizzazioni rese necessarie per salvare il paese dai guasti di Tangentopoli.

Trasversale, tra Londra e Roma

Gli anni londinesi, più che un esilio, sono un periodo di intensi rapporti stretti con gli italiani che contano. In vista, evidentemente, del grande rientro. Scaroni ha sempre avuto ottime relazioni: è cugino di Margherita Boniver, ex ministro socialista; è amico di Massimo Pini, già uomo di Craxi all’Iri e oggi consigliere economico di An; e ha sempre avuto buoni rapporti con Gianni De Michelis, ex doge socialista. Non si può dunque dire che fosse taglieggiato da un Psi estraneo e nemico.

Ma le sue amicizie sono sempre state trasversali: Luigi Bisignani, democristiano, tessera P2, ex giornalista, condannato a 2 anni e 8 mesi per le tangenti Enimont, è il lobbista che ha lavorato per lui, contribuendo a costruire il suo ritorno in Italia: prima, nel 2001, come presidente degli industriali di Venezia; poi, l’anno successivo, come amministratore delegato dell’Enel. Per Scaroni le pubbliche relazioni, si sa, sono importanti, tanto che ha incaricato un’agenzia specializzata di Londra, la Fensbury, di ricostruirgli l’immagine. Con ottimi risultati, a giudicare dall’articolo del Financial Times.

Del resto, la carta stampata è sempre stata una sua passione, tanto che a metà degli anni Ottanta, insieme a un giornalista di Panorama, Angelo Maria Perrino, scrisse un libro, Professione manager, edito da Mondadori. In copertina il suo nome non compariva: «Anonimo», era scritto prima del titolo, mentre il nome di Perrino era preceduto da un «a cura di». Il gioco però era fatto per essere scoperto: l’«Anonimo» autore di Professione manager era proprio lui, Paolo Scaroni, fisico alla Gene Hackman e voglia di cavalcare l’onda anni Ottanta dei manuali all’americana dove si indica la strada più breve per il successo.

Nella sua città ha mantenuto salde radici, tanto da diventare, per un periodo, presidente del Vicenza Calcio. Ma le sue capitali d’adozione sono Londra e, naturalmente, Roma. E la sua relazione più preziosa è quella con un uomo anch’egli molto attivo sull’asse Roma-Londra: Mario Draghi, ex direttore generale del Tesoro, l’uomo che nel momento delle privatizzazioni tolse alla Mediobanca di Enrico Cuccia il monopolio delle operazioni finanziarie in Italia aprendo alle merchant bank straniere.

La trasversalità dell’uomo ha il culmine naturale in Forza Italia: Scaroni ha buoni rapporti con Giancarlo Galan, ex venditore di pubblicità per Publitalia e oggi il presidente della Regione Veneto, ma soprattutto con Bruno Ermolli, personaggio chiave del mondo berlusconiano all’incrocio tra affari e politica. Basti pensare che Ermolli è il tutore di Marina Berlusconi, l’uomo-ombra che ha gestito la ristrutturazione della Fininvest restata senza il capo, ormai prestato alla politica. Così Scaroni, uomo dall’ottimo curriculum e dalle ottime relazioni, ha potuto arrivare alla poltrona che è stata di Franco Tatò.

Il manager ha però qualche sponda anche a sinistra, se è vero che ai tempi dei governi dell’Ulivo era circolato il suo nome come possibile risanatore dell’Alitalia; e che la sua nomina ai vertici dell’Enel ha provocato, accanto alle reazioni critiche dell’ex ministro Pierluigi Bersani, Ds, anche i commenti soddisfatti di un altro ex ministro della Quercia, Vincenzo Visco. Un bel risultato, per l’autore di un manuale che consigliava agli aspiranti manager di non schierarsi troppo, di non bruciarsi brandendo una sola bandiera politica.

La leggenda del povero manager

Ora al corruttore dell’Enel diventato manager dell’Enel (ironica sorte, come scrive il Financial Times) toccherà gestire la strana stagione di una grande azienda privatizzata ma a metà (il ministero dell’Economia ne detiene ancora il 68 per cento), diversificata ma a metà (che fine farà Wind?), risanata ma a metà (24 miliardi di euro di debito, 20 mila dipendenti considerati in eccesso). Certo è che ha già preso a soffiare un’arietta neo-statalista (il suo amico Massimo Pini, per esempio, è passato da Bettino Craxi a Maurizio Gasparri, ma con il medesimo programma: lavorare per mantenere un solido intervento statale – cioè dei partiti di governo – nell’economia).

In tutto ciò, i cattivi spiriti di Tangentopoli sono ormai solo un lontano ricordo. In quell’Italia non si poteva lavorare senza pagare mazzette, scolpisce Scaroni per sempre sulle colonne austere del Financial Times. Lo ha dichiarato perché sa che, presumibilmente, nessuno s’alzerà a smentirlo, nessun manager gli risponderà: parla per te. Pagava lui, grande manager della grande Techint, come pagavano alla Fiat e alla Ferruzzi, alla Fininvest e all’Olivetti. Resta da spiegare perché grandi gruppi come Fiat, Ferruzzi, Techint, con attività multinazionali e immenso potere di pressione sulla politica, si comportassero come le piccole imprese di pulizia che barattavano un appaltino con una bustarella.

Per smontare la leggenda dei cattivi politici che vessavano loro malgrado i poveri imprenditori, Maurizio Prada, ex cassiere della Dc milanese, ha riempito pagine memorabili di verbali giudiziari, che oggi si leggono come un romanzo balzacchiano. Un suo collega cassiere “riservato”, Roberto Mongini, ha spiegato al magistrato Piercamillo Davigo: «Ma quale concussione, dottore, i concussi siamo noi: gli imprenditori ci corrono dietro per poterci pagare le tangenti prima che arrivino i loro concorrenti». E Antonio Di Pietro, che ha subito capito il sistema in cui s’incistavano politici e imprenditori, per descriverlo ha coniato un’espressione delle sue: «dazione ambientale».

Agli imprenditori, ai manager – almeno a quelli dei grandi gruppi – sarebbe bastato alzare la voce, svelare in pubblico il sistema. Invece, evidentemente, i patti con la politica e gli accordi di cartello sono più comodi della concorrenza e del libero mercato. E più facile, così, è rimpinguare i conti all’estero. Eppure non era quello che c’era scritto su Professione manager.

 
 
 

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