Che lintenzione del legislatore sia quella
di offrire un "contentino" ai pubblici ministeri colpiti e
sviliti da una normativa che, di fatto, attribuisce maggiore
credibilità al difensore dellindagato ed ai suoi
atti piuttosto che allorgano pubblico (ed ai suoi atti)
cui è affidato il compito di cercare di scoprire la
"verità" appare chiarissimo, oltre che dal testo della
norma, anche dalla Relazione di accompagnamento presentata
dal sen. Follieri in sede di discussione al Senato. Vi si
legge, infatti, che "la segretazione si fonda sullesigenza
di tutelare le investigazioni del pubblico ministero che potrebbero
essere compromesse dalla loro diffusione". Nel che vi è
il riconoscimento che la diffusione dei "fatti" e delle "circostanze"
"oggetto delle indagini di cui (le persone sentite dal pubblico
ministero) hanno conoscenza" può effettivamente compromettere
le investigazioni del pubblico ministero.
Ciò nonostante, "il divieto (di comunicare
i fatti di cui sopra) non può avere una durata superiore
ai due mesi": termine che di per sé è assolutamente
inadeguato in ordine alle indagini non solo in materia di
criminalità mafiosa e organizzata ma anche in tutte
quelle materie (come quelle relative allo sfruttamento e allabuso
di minori, ai reati in materia familiare, alla criminalità
amministrativa ed economica etc) in cui è normalmente
più frequente o l"intervento" inquinante sulle
persone a conoscenza dei fatti perché adattino le loro
dichiarazioni allinteresse di chi effettua direttamente
o indirettamente lintervento ovvero la predisposizione
di altri strumenti diretti a neutralizzare la portata accusatoria
delle dichiarazioni rese dalle persone sentite dal pubblico
ministero o dalla polizia giudiziaria.
Ma il vero problema non è tanto quella dei
"termini di durata della segretazione", anche perché
sotto questo profilo la precedente normativa, lungi dallimporre
un segreto generalizzato sul contenuto delle conoscenze delle
persone sentite dagli organi inquirenti, sembrava permetterne
la rivelazione in modo pressochè assoluto riservando
la tutela del segreto non già ai "fatti e alle circostanze
oggetto delle indagini" e di cui la persona sentita poteva
essere a conoscenza quanto al contenuto dell"atto di
indagine" compiuto dalla polizia giudiziaria e dal pubblico
ministero. Non solo; ma era opinione corrente sia in dottrina
che in giurisprudenza che non tutti i soggetti partecipanti
allatto fossero tenuti al segreto, ma solo i pubblici
ufficiali che lo compivano e lo formavano e, al massimo, coloro
che vi assistevano ; di sicuro non le persone sentite o in
qualità di soggetti sottoposti alle indagini o in qualità
di persone informate sui fatti.
Il nocciolo della questione sta nel fatto che, con
la nuova disciplina, il "testimone" può essere costretto,
sia pure - in determinati casi - al termine di una serie di
passaggi quanto mai tortuosi (cfr. commi 3 lett. d) e comma
10 del novello art. 391-bis c.p.p.), a riferire - con obbligo
di verità penalmente sanzionato come quello relativo
alle dichiarazioni rese al pubblico ministero - tutto quello
che sa al difensore dellindagato già durante
la fase delle indagini preliminari. E il difensore dellindagato
non solo non ha il dovere di mantenere il segreto con il proprio
assistito ma anzi - per quanto comunemente si ritiene - ha
il dovere contrario, per di più sanzionato sicuramente
a livello deontologico e forsanche a livello penale
dall art. 380 c.p.. E non ci vuol molto a comprendere
quali possibilità di inquinamento tutto ciò
offra allindagato colpevole e specialmente se colpevole
di gravi reati.
Stabilisce dunque il primo comma dellart. 391-quinquies
c.p.p. che "se sussistono specifiche esigenze attinenti allattività
di indagine, il pubblico ministero può, con decreto
motivato, vietare alle persone sentite di comunicare i fatti
e le circostanze oggetto dellindagine di cui hanno conoscenza".
Risulta chiaro, da tale dizione, che loggetto del divieto
è qui rappresentato non tanto, come invece potrebbe
sembrare nel caso dellart. 329 commi 1 e 3 c.p.p., dalla
esistenza di un atto processuale di assunzione delle dichiarazioni
e dal suo contenuto ma dagli stessi fatti e dalle stesse circostanze
relative ai fatti di cui si procede e di cui la persona sentita
è a conoscenza prima ancora di essere chiamata a rendere
dichiarazioni davanti alla Autorità.
Ciò introduce sicuramente una novità
di un qualche rilievo nel sempre abbastanza misterioso campo
dei "segreti", almeno nel settore del processo penale: perché
si è in presenza non già di un fatto già
ab origine destinato a restare segreto (per un tempo maggiore
o minore) e neppure ad una attività processuale (rectius,
procedimentale) coperta da segreto (investigativo o di ufficio)
da parte di tutti o alcuni dei soggetti che vi hanno preso
parte, ma un fatti e circostanze conosciuti da un determinato
soggetto non per ragioni di ufficio pubblico ma perché
caduti sotto la sua diretta percezione che dallo stesso soggetto
possono essere liberamente comunicati a chicchessia fino a
quando non intervenga un magistrato che non gliene imponga
il silenzio.
In proposito il dettato normativo è peraltro
chiarissimo, per cui la persona che abbia ricevuto lordine
del pubblico ministero di cui allart. 391-quinquies,
da quel momento e fino alla scadenza del termine impostogli
dal pubblico ministero non potrà più comunicare
a chicchessia i fatti e le circostanze oggetto delle indagini
di cui ha conoscenza: a pena delle sanzioni penali previste
dal novello art. 379-bis c.p. introdotto dallart. 21
della nuova legge. E facile prevedere quale sarà
lipotesi tipica che si verificherà in concreto:
il pubblico ministero, al termine della audizione della persona
informata sui fatti (o indagata, per quanto infra si dirà),
al termine o in calce al verbale o con provvedimento a parte
comunicato allinteressato disporrà il divieto
di comunicare quanto ha formato oggetto del verbale stesso
(o parte di esso).
Non è neppure difficile prevedere quali possano
essere le "specifiche esigenze attinenti alle indagini": e
cioè, da un lato, quella di cercare nel più
breve tempo possibile acquisire tutti i possibili elementi
di "riscontro" (che spesso potranno essere rappresentate dalle
dichiarazioni di altre persone) senza che vi siano interventi
inquinatori diretti a sopprimerli o ad intaccarne la genuinità;
dallaltro quella di evitare, per la maggior durata possibile,
che la stessa persona sentita possa essere oggetto di "avvicinamenti"
diretti ad indurla a modificare le sue dichiarazioni davanti
alla polizia giudiziaria o alla autorità giudiziaria
(cercando, in ipotesi, di riuscire nel frattempo ad ottenere
ed effettuare l"incidente probatorio"). E, quindi, sempre
nellipotesi tipica, non è neppure difficile immaginare
quale potrà essere loggetto e il percorso logico
della motivazione del decreto.
Maggiori
dubbi possono sollevare i casi, che indubbiamente si
presenteranno, "atipici". E la cui frequenza sarà
tanto maggiore, a mio avviso, quanto più è
insufficiente il termine massimo di due mesi fissato per
il divieto. E infatti del tutto evidente che in alcuni
tipi di indagine (ad es. riduzione in schiavitù,
favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione di clandestini
extracomunitari, ed in genere in tutti i procedimenti riguardanti
la criminalità straniera e soprattutto quella organizzata)
quasi sempre le persone sentite fanno riferimento, nei loro
racconti, ad altre persone di cui non sanno fornire né
le esatte generalità né il preciso recapito,
ma si limitano ad indicare - quando va bene - il nome di
battesimo o il soprannome o, più spesso, uno dei
tanti nomi di battesimo o soprannomi; e - quando va male
- le fattezze fisiche, letà approssimativa,
lultima autovettura utilizzata etc. etc.. Con la conseguenza
che leventuale assunzione del "riscontro" (o della
smentita) rappresentata dalle loro dichiarazioni non può
avvenire né immediatamente né in tempi brevi,
ma a distanza di molti giorni (spesso, molti mesi) necessari
anche solo per la loro identificazione prima e per la loro
"localizzazione" poi.
In questi casi, se imponesse subito alla persona "sentita"
il divieto di comunicare i fatti e le circostanze di cui al
primo comma dellart. 391-quinquies, il pubblico ministero
si "brucerebbe" immediatamente e senza alcuna pratica utilità
il possibile periodo di "segretazione". E pertanto possibile
(e sotto un certo profilo, anche presumibile) che il pubblico
ministero non imponga subito il divieto ma aspetti a farlo
nel momento in cui il rischio derivante dalla comunicazione
si faccia effettivamente concreto. Il che potrà avvenire
o quando vengano individuate e rintracciate le persone "di
riferimento" o quando la persona sottoposta alle indagini
abbia effettivamente conoscenza della pendenza di un procedimento
a suo carico o quando comunque le "specifiche esigenze attinenti
alla attività di indagine" e che impongono la "segretazione"
non siano originarie ma sopravvenute allassunzione dellatto.
Il quesito che a questo punto si pone è se
tutto ciò sia legittimo: e se cioè il pubblico
ministero possa differire lemanazione del decreto motivato
di segretazione ad un momento successivo a quello della assunzione
delle dichiarazioni della "persona sentita" o se sia tenuto
a disporre il divieto immediatamente, al termine dellatto
in cui vengono raccolte le dichiarazioni da segretare.
Credo non vi sia dubbio che la risposta debba essere
nel primo senso. Innanzi tutto perché la lettera della
legge non esclude affatto tale possibilità e non indica
nessun "momento" in cui il provvedimento deve intervenire;
in secondo luogo, perché la possibilità di una
contestualità neppure cè quando la persona
sia stata "sentita" non dal pubblico ministero ma dalla polizia
giudiziaria (la quale non può imporre il divieto in
questione di propria iniziativa e non può neppure essere
a ciò delegata dal pubblico ministero, essendo sicuramente
tale divieto atto "proprio" ed esclusivo del pubblico ministero
); in terzo luogo perché la ratio stessa del divieto
(che tende a limitare le possibilità di inquinamento
probatorio derivanti da una intempestiva diffusione di notizie)
porta a ritenere del tutto logico che il divieto possa "scattare"
quando il pericolo è reale e non quando è solo
"presunto".
In concreto, è facile immaginare che il problema
si porrà allorché una persona già sentita
durante la fase delle indagini preliminari dal pubblico ministero
o dalla polizia giudiziaria venga invitata a conferire ex
art. 391-bis con il difensore di una delle parti private.
Capiterà infatti che la stessa si rivolga al pubblico
ministero per chiedere lumi, per sapere se è obbligato
ad andare, se è obbligato a riferire al difensore quanto
ha già riferito al pubblico ministero o alla polizia
giudiziaria etc. etc.: ed ecco che allora il pubblico ministero
di fatto si dovrà porre linterrogativo se tutto
ciò non comporti dei concreti ed effettivi pericoli
per la genuinità delle indagini e non valga ad integrare
lesistenza di quelle "specifiche esigenze attinenti
allattività di indagine" che non solo permettono
ma doverosamente impongono al pubblico ministero di disporre,
con decreto motivato, la segretazione.
Sotto questo angolo visuale val la pena di osservare,
a scanso di equivoci, che il nocciolo della questione non
consiste tanto in una maggiore o minore fiducia o sfiducia
nel difensore dellindagato o delle parti private, quanto
nel fatto che, da un lato, non è assolutamente previsto
(ed è francamente difficile da sostenere) un dovere
di segretezza del difensore nei confronti dellassistito
e, dallaltro, i pericoli di inquinamento non derivano
tanto dallattività di indagine del difensore
quanto dalla conoscenza del suo contenuto da parte del cliente
. E giova ricordare, in proposito, come i tanti codici deontologici
della professione forense siano assolutamente perentori nello
stabilire il dovere dellavvocato di riferire allassistito
tutto quello di cui vengano a conoscenza nello svolgimento
del mandato e cioè sia nellopera di intervento
ed assistenza nel corso della attività procedimentale
e processuale svolta dalla autorità giudiziaria sia
nello svolgimento della propria parallela attività
investigativa.
(Torino, febbraio 2001)