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Perry Mason all’italiana

di Marcello Maddalena
Procuratore della Repubblica a Torino

Perry Mason, quello vero,
operava per smascherare
il colpevole. In Italia, invece,
una nuove legge impone...

 


L’art. 391-quinquies del codice di procedura penale, introdotto dall’art. 11 della legge, vorrebbe rappresentare, nel quadro di una disciplina potenzialmente devastante per la efficacia e la genuinità delle indagini del pubblico ministero, una sorta di "contentino" per i pubblici ministeri e di "compensazione" alla voragine aperta, di fatto, sul piano del segreto investigativo, il quale pare così destinato a trasformarsi, per effetto della presente legge, da strumento di tutela delle indagini a mezzo di difesa della onorabilità delle persone indagate; e cioè da garanzia del "processo" contro i possibili "inquinamenti" del materiale probatorio a garanzia di non pubblicità per le persone sottoposte ad indagini. Con un ribaltamento dell’impianto originario del codice non solo sul terreno della tecnica normativa ma anche su quello dei "valori" meritevoli di tutela.

Che l’intenzione del legislatore sia quella di offrire un "contentino" ai pubblici ministeri colpiti e sviliti da una normativa che, di fatto, attribuisce maggiore credibilità al difensore dell’indagato ed ai suoi atti piuttosto che all’organo pubblico (ed ai suoi atti) cui è affidato il compito di cercare di scoprire la "verità" appare chiarissimo, oltre che dal testo della norma, anche dalla Relazione di accompagnamento presentata dal sen. Follieri in sede di discussione al Senato. Vi si legge, infatti, che "la segretazione si fonda sull’esigenza di tutelare le investigazioni del pubblico ministero che potrebbero essere compromesse dalla loro diffusione". Nel che vi è il riconoscimento che la diffusione dei "fatti" e delle "circostanze" "oggetto delle indagini di cui (le persone sentite dal pubblico ministero) hanno conoscenza" può effettivamente compromettere le investigazioni del pubblico ministero.

Ciò nonostante, "il divieto (di comunicare i fatti di cui sopra) non può avere una durata superiore ai due mesi": termine che di per sé è assolutamente inadeguato in ordine alle indagini non solo in materia di criminalità mafiosa e organizzata ma anche in tutte quelle materie (come quelle relative allo sfruttamento e all’abuso di minori, ai reati in materia familiare, alla criminalità amministrativa ed economica etc) in cui è normalmente più frequente o l’"intervento" inquinante sulle persone a conoscenza dei fatti perché adattino le loro dichiarazioni all’interesse di chi effettua direttamente o indirettamente l’intervento ovvero la predisposizione di altri strumenti diretti a neutralizzare la portata accusatoria delle dichiarazioni rese dalle persone sentite dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria.

Ma il vero problema non è tanto quella dei "termini di durata della segretazione", anche perché sotto questo profilo la precedente normativa, lungi dall’imporre un segreto generalizzato sul contenuto delle conoscenze delle persone sentite dagli organi inquirenti, sembrava permetterne la rivelazione in modo pressochè assoluto riservando la tutela del segreto non già ai "fatti e alle circostanze oggetto delle indagini" e di cui la persona sentita poteva essere a conoscenza quanto al contenuto dell’"atto di indagine" compiuto dalla polizia giudiziaria e dal pubblico ministero. Non solo; ma era opinione corrente sia in dottrina che in giurisprudenza che non tutti i soggetti partecipanti all’atto fossero tenuti al segreto, ma solo i pubblici ufficiali che lo compivano e lo formavano e, al massimo, coloro che vi assistevano ; di sicuro non le persone sentite o in qualità di soggetti sottoposti alle indagini o in qualità di persone informate sui fatti.

Il nocciolo della questione sta nel fatto che, con la nuova disciplina, il "testimone" può essere costretto, sia pure - in determinati casi - al termine di una serie di passaggi quanto mai tortuosi (cfr. commi 3 lett. d) e comma 10 del novello art. 391-bis c.p.p.), a riferire - con obbligo di verità penalmente sanzionato come quello relativo alle dichiarazioni rese al pubblico ministero - tutto quello che sa al difensore dell’indagato già durante la fase delle indagini preliminari. E il difensore dell’indagato non solo non ha il dovere di mantenere il segreto con il proprio assistito ma anzi - per quanto comunemente si ritiene - ha il dovere contrario, per di più sanzionato sicuramente a livello deontologico e fors’anche a livello penale dall’ art. 380 c.p.. E non ci vuol molto a comprendere quali possibilità di inquinamento tutto ciò offra all’indagato colpevole e specialmente se colpevole di gravi reati.

Stabilisce dunque il primo comma dell’art. 391-quinquies c.p.p. che "se sussistono specifiche esigenze attinenti all’attività di indagine, il pubblico ministero può, con decreto motivato, vietare alle persone sentite di comunicare i fatti e le circostanze oggetto dell’indagine di cui hanno conoscenza". Risulta chiaro, da tale dizione, che l’oggetto del divieto è qui rappresentato non tanto, come invece potrebbe sembrare nel caso dell’art. 329 commi 1 e 3 c.p.p., dalla esistenza di un atto processuale di assunzione delle dichiarazioni e dal suo contenuto ma dagli stessi fatti e dalle stesse circostanze relative ai fatti di cui si procede e di cui la persona sentita è a conoscenza prima ancora di essere chiamata a rendere dichiarazioni davanti alla Autorità.

Ciò introduce sicuramente una novità di un qualche rilievo nel sempre abbastanza misterioso campo dei "segreti", almeno nel settore del processo penale: perché si è in presenza non già di un fatto già ab origine destinato a restare segreto (per un tempo maggiore o minore) e neppure ad una attività processuale (rectius, procedimentale) coperta da segreto (investigativo o di ufficio) da parte di tutti o alcuni dei soggetti che vi hanno preso parte, ma un fatti e circostanze conosciuti da un determinato soggetto non per ragioni di ufficio pubblico ma perché caduti sotto la sua diretta percezione che dallo stesso soggetto possono essere liberamente comunicati a chicchessia fino a quando non intervenga un magistrato che non gliene imponga il silenzio.

In proposito il dettato normativo è peraltro chiarissimo, per cui la persona che abbia ricevuto l’ordine del pubblico ministero di cui all’art. 391-quinquies, da quel momento e fino alla scadenza del termine impostogli dal pubblico ministero non potrà più comunicare a chicchessia i fatti e le circostanze oggetto delle indagini di cui ha conoscenza: a pena delle sanzioni penali previste dal novello art. 379-bis c.p. introdotto dall’art. 21 della nuova legge. E’ facile prevedere quale sarà l’ipotesi tipica che si verificherà in concreto: il pubblico ministero, al termine della audizione della persona informata sui fatti (o indagata, per quanto infra si dirà), al termine o in calce al verbale o con provvedimento a parte comunicato all’interessato disporrà il divieto di comunicare quanto ha formato oggetto del verbale stesso (o parte di esso).

Non è neppure difficile prevedere quali possano essere le "specifiche esigenze attinenti alle indagini": e cioè, da un lato, quella di cercare nel più breve tempo possibile acquisire tutti i possibili elementi di "riscontro" (che spesso potranno essere rappresentate dalle dichiarazioni di altre persone) senza che vi siano interventi inquinatori diretti a sopprimerli o ad intaccarne la genuinità; dall’altro quella di evitare, per la maggior durata possibile, che la stessa persona sentita possa essere oggetto di "avvicinamenti" diretti ad indurla a modificare le sue dichiarazioni davanti alla polizia giudiziaria o alla autorità giudiziaria (cercando, in ipotesi, di riuscire nel frattempo ad ottenere ed effettuare l’"incidente probatorio"). E, quindi, sempre nell’ipotesi tipica, non è neppure difficile immaginare quale potrà essere l’oggetto e il percorso logico della motivazione del decreto.

Maggiori dubbi possono sollevare i casi, che indubbiamente si presenteranno, "atipici". E la cui frequenza sarà tanto maggiore, a mio avviso, quanto più è insufficiente il termine massimo di due mesi fissato per il divieto. E’ infatti del tutto evidente che in alcuni tipi di indagine (ad es. riduzione in schiavitù, favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione di clandestini extracomunitari, ed in genere in tutti i procedimenti riguardanti la criminalità straniera e soprattutto quella organizzata) quasi sempre le persone sentite fanno riferimento, nei loro racconti, ad altre persone di cui non sanno fornire né le esatte generalità né il preciso recapito, ma si limitano ad indicare - quando va bene - il nome di battesimo o il soprannome o, più spesso, uno dei tanti nomi di battesimo o soprannomi; e - quando va male - le fattezze fisiche, l’età approssimativa, l’ultima autovettura utilizzata etc. etc.. Con la conseguenza che l’eventuale assunzione del "riscontro" (o della smentita) rappresentata dalle loro dichiarazioni non può avvenire né immediatamente né in tempi brevi, ma a distanza di molti giorni (spesso, molti mesi) necessari anche solo per la loro identificazione prima e per la loro "localizzazione" poi.

In questi casi, se imponesse subito alla persona "sentita" il divieto di comunicare i fatti e le circostanze di cui al primo comma dell’art. 391-quinquies, il pubblico ministero si "brucerebbe" immediatamente e senza alcuna pratica utilità il possibile periodo di "segretazione". E’ pertanto possibile (e sotto un certo profilo, anche presumibile) che il pubblico ministero non imponga subito il divieto ma aspetti a farlo nel momento in cui il rischio derivante dalla comunicazione si faccia effettivamente concreto. Il che potrà avvenire o quando vengano individuate e rintracciate le persone "di riferimento" o quando la persona sottoposta alle indagini abbia effettivamente conoscenza della pendenza di un procedimento a suo carico o quando comunque le "specifiche esigenze attinenti alla attività di indagine" e che impongono la "segretazione" non siano originarie ma sopravvenute all’assunzione dell’atto.

Il quesito che a questo punto si pone è se tutto ciò sia legittimo: e se cioè il pubblico ministero possa differire l’emanazione del decreto motivato di segretazione ad un momento successivo a quello della assunzione delle dichiarazioni della "persona sentita" o se sia tenuto a disporre il divieto immediatamente, al termine dell’atto in cui vengono raccolte le dichiarazioni da segretare.

Credo non vi sia dubbio che la risposta debba essere nel primo senso. Innanzi tutto perché la lettera della legge non esclude affatto tale possibilità e non indica nessun "momento" in cui il provvedimento deve intervenire; in secondo luogo, perché la possibilità di una contestualità neppure c’è quando la persona sia stata "sentita" non dal pubblico ministero ma dalla polizia giudiziaria (la quale non può imporre il divieto in questione di propria iniziativa e non può neppure essere a ciò delegata dal pubblico ministero, essendo sicuramente tale divieto atto "proprio" ed esclusivo del pubblico ministero ); in terzo luogo perché la ratio stessa del divieto (che tende a limitare le possibilità di inquinamento probatorio derivanti da una intempestiva diffusione di notizie) porta a ritenere del tutto logico che il divieto possa "scattare" quando il pericolo è reale e non quando è solo "presunto".

In concreto, è facile immaginare che il problema si porrà allorché una persona già sentita durante la fase delle indagini preliminari dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria venga invitata a conferire ex art. 391-bis con il difensore di una delle parti private. Capiterà infatti che la stessa si rivolga al pubblico ministero per chiedere lumi, per sapere se è obbligato ad andare, se è obbligato a riferire al difensore quanto ha già riferito al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria etc. etc.: ed ecco che allora il pubblico ministero di fatto si dovrà porre l’interrogativo se tutto ciò non comporti dei concreti ed effettivi pericoli per la genuinità delle indagini e non valga ad integrare l’esistenza di quelle "specifiche esigenze attinenti all’attività di indagine" che non solo permettono ma doverosamente impongono al pubblico ministero di disporre, con decreto motivato, la segretazione.

Sotto questo angolo visuale val la pena di osservare, a scanso di equivoci, che il nocciolo della questione non consiste tanto in una maggiore o minore fiducia o sfiducia nel difensore dell’indagato o delle parti private, quanto nel fatto che, da un lato, non è assolutamente previsto (ed è francamente difficile da sostenere) un dovere di segretezza del difensore nei confronti dell’assistito e, dall’altro, i pericoli di inquinamento non derivano tanto dall’attività di indagine del difensore quanto dalla conoscenza del suo contenuto da parte del cliente . E giova ricordare, in proposito, come i tanti codici deontologici della professione forense siano assolutamente perentori nello stabilire il dovere dell’avvocato di riferire all’assistito tutto quello di cui vengano a conoscenza nello svolgimento del mandato e cioè sia nell’opera di intervento ed assistenza nel corso della attività procedimentale e processuale svolta dalla autorità giudiziaria sia nello svolgimento della propria parallela attività investigativa.

(Torino, febbraio 2001)

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