Giustizia è fatta. Bruno
Contrada, lex numero tre del Sisde, ha infine
avuto la sua assoluzione con formula piena dopo nove anni
di corsi e ricorsi in tribunale, e udienze, e lunghe ore
di deposizione per dimostrare la propria innocenza, e una
condanna alle spalle: dieci anni da scontare in carcere
per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa.
Ora può finalmente attendere alla sua prossima mossa
contro «gli uomini in divisa» che lo hanno accusato,
contro il capo della polizia Gianni
De Gennaro e contro la Direzione investigativa antimafia.
«Per sgombrare il campo da ogni dubbio, ribadisco
il mio attaccamento all'istituzione della polizia di Stato
cui ho dedicato la mia carriera - ha dichiarato - 35 anni
della mia vita. Il mio attaccamento non solo in astratto,
ma anche agli uomini che la rappresentano al vertice».
E da un certo punto di vista non mi sembra di potergli contestare
questo sentimento, nonostante le mie personali investigazioni
giornalistiche mi inducano a pensare che egli sia in realtà
colpevole di associazione mafiosa e di collusione con la
mafia. L'inconciliabilità delle due affermazioni
è soltanto apparente e prima di continuare vorrei
fosse chiaro che non provo alcun tipo di ostilità
nei confronti della persona Contrada e che anzi il mio sentimento
cristiano mi suggerisce di gioire al pensiero che un uomo
possa porre fine alle proprie sofferenze fisiche e spirituali.
Ma non mi sento certo di chiudere gli occhi di fronte alle
istituzioni che egli, corrompendosi, ha servito e rappresentato,
a quello stato che, dal periodo post-generale Mori - mi
si conceda la definizione - ha voluto convivere con la mafia
per ragioni politiche, strategiche e geografiche, e soprattutto
per il patto di alleanza siglato tra Italia e Stati Uniti.
Nella motivazione della sentenza che il 5 aprile del 1996
ha condannato l'ex dirigente del Sisde a dieci anni di carcere
si legge che nell'agire come ha agito l'imputato non ha
avuto fini personali e che pertanto non esisterebbe il movente
della collusione con il potere mafioso. Una tale affermazione
non può che indurre a riflettere, specie per il fatto
che la scelta di convivenza dello stato con il potere mafioso
non solo rappresenterebbe un movente ma equivarrebbe al
riconoscimento dell'esistenza della corruzione all'interno
di organi istituzionali, cosa che pare sia meglio nascondere.
«Il processo Contrada - ci ha detto il giudice Antonio
Ingroia - ha dimostrato, secondo l'impostazione dell'accusa,
che non era un caso di infedeltà individuale, ma
che si inseriva purtroppo in un sistema di connivenza tra
Stato legale e Stato illegale» (Vedi ANTIMAFIA Duemila
n. 3 giugno 2000). Ed è da qui che nasce il Contrada
che ha dovuto tradire le istituzioni italiane, che ha dovuto
soprassedere a determinate catture di latitanti, che ha
dovuto depistare o comportarsi conformemente al cambiamento
politico e militare di Cosa Nostra. E' qui che nasce il
Contrada colluso con Stefano Bontate
- e successivamente con i corleonesi - il Contrada strumento
di quello stato che per ragioni politiche e strategiche
favorisce il potere mafioso. E tutto questo non emerge soltanto,
come gli adepti di Berlusconi hanno accusato, dalle dichiarazioni
"calunniose ed estremiste" dei pentiti ma dai
riscontri oggettivi presentati nella motivazione della sentenza
di primo grado. I quali emergono sia dalle prove presentate
dall'accusa - le deposizioni della vedova Cassarà
e del giudice Carla Del Ponte
o le intercettazioni telefoniche dei colloqui tra Contrada
e Nino Salvo, solo per citare alcuni esempi - sia da quelle
presentate dalla difesa le quali in più punti appaiono
contraddittorie. Particolarmente significativa, inoltre,
la testimonianza di un collega dell'imputato il quale rivela
che lo stesso Contrada sosteneva l'impossibilità
di opporsi al potere mafioso poiché quest'ultimo
appoggiato direttamente dagli Stati Uniti. Vista in quest'ottica
la difesa del prefetto Parisi (ormai defunto) a favore di
Contrada appare piuttosto logica data la consapevolezza
del capo della polizia che l'imputato si limitava ad eseguire
degli ordini, nonostante tali ordini costituissero un reato
contro l'opinione pubblica. Ora, comunque, non ci resta
che aspettare la pubblicazione della sentenza di secondo
grado per scoprire come il giudice Gioacchino Agnello, già
indagato per mafia nel corso di un'inchiesta poi archiviata
dal solito capo della procura di Caltanissetta, sia riuscito
ad assolvere con formula piena un imputato in primo grado
condannato a dieci anni di reclusione. Intanto, ancora una
volta, il buon nome delle istituzioni è salvo.
La storia
Bruno Contrada, altissimo dirigente del Sisde, venne arrestato
il 24 dicembre del 1992. Era forse il poliziotto più
chiacchierato di Palermo quando le dichiarazioni dei pentiti
Gaspare Mutolo, Tommaso Buscetta,
Rosario Spatola e Giuseppe Marchese lo portarono
nel carcere militare di Forte Boccea, a Roma, con un capo
d'accusa, ad esser leggeri, disonorevole: concorso esterno
in associazione mafiosa. Un passato non privo di ombre quello
dell'ex funzionario di Polizia impegnato sul fronte della
lotta alla mafia, ex capo della Squadra mobile ai tempi
di Boris Giuliano, ex responsabile
della sezione siciliana della Criminalpol, ex capo di gabinetto
dell'Alto commissario antimafia De
Francesco, sul cui conto "giravano voci"
inquietanti: si diceva che avesse impedito l'arresto di
Riina, che avesse protetto Oliviero
Tognoli (un riciclatore di narcodollari fuggito in
Svizzera), che avesse depistato le indagini sulla morte
del presidente della Regione Piersanti
Mattarella. Soltanto voci, fino a quella vigilia
di Natale del 1992, in un'Italia ancora scossa dalle tremende
esplosioni che avevano causato la morte dei giudici
Falcone e Borsellino. «Non è un complotto
ma una vendetta e per me parla la mia vita professionale»,
si sfogava in aula davanti al pubblico ministero
Antonio Ingroia che non senza un filo di imbarazzo,
come riportano i giornali dell'epoca, lo lasciò parlare
spontaneamente, «state prendendo per buone le accuse
degli uomini che io ho combattuto durante la mia carriera».
Nessun complotto commentarono i giudici esibendo il fascicolo
numero 6714/92: quattro volumi di duemila pagine contenenti
sì le deposizioni dei collaboratori di giustizia
ma anche i "riscontri esterni", tra i quali le
intercettazioni telefoniche tra l'imputato e Salvo. Il procedimento,
istruito dai Pm Antonio Ingroia
e Alfredo Morvillo, si aprì
il 12 aprile del 1994. Nel corso delle 168 udienze dibattimentali
l'accusa chiamò a deporre ben dieci pentiti, oltre
a quelli già citati Francesco
Marino Mannoia, Salvatore Cancemi, Maurizio Pirrone, Pietro
Scavuzzo, Gaetano Costa e Gioacchino Pennino, tutti
concordi nel riferire che il soggetto in questione informava
preventivamente i criminali dei blitz pianificati dalle
forze dell'ordine; che non disdegnava regalie e prebende;
che era a stretto contatto con uomini delle cosche più
feroci della criminalità organizzata; che era massone
di una loggia supersegreta. La carcerazione preventiva durò
31 mesi, Contrada lasciò il carcere di Corso Pisani
a Palermo il 31 luglio 1995. Il 5 aprile del 1996 la sentenza:
"La compiuta disamina dell'ampio materiale probatorio
acquisito all'odierno procedimento, costituito da numerosissime
testimonianze, dalle dichiarazioni rese da dieci collaboratori
di giustizia, da una notevole quantità di documenti
e dalle molteplici dichiarazioni rese dall'imputato (sia
in sede di dichiarazioni spontanee che in sede di esame
delle parti) afferente ad una contestazione che copre l'arco
temporale di quasi un ventennio, ha consentito di evidenziare
un quadro probatorio a carico dell'imputato fondato su fonti
eterogenee, coerenti, assolutamente univoche e convergenti
nell'acclararne la colpevolezza". La condanna era a
dieci anni di reclusione. I legali di Contrada, gli avvocati
Gioacchino Sbacchi e Piero Miglio, presentarono immediato
ricorso e il processo di appello iniziò il 12 giugno
del 1998. Durò ben tre anni nel corso dei quali fu
registrata l'audizione ex novo di numerosi testimoni, tra
i quali i collaboratori Angelo Siino,
Giovanni Brusca e Francesco Onorato. «Possibile
- chiese l'avv. Sbacchi in una delle ultime udienze - che
sia una coincidenza che tutti questi galantuomini siano
stati accusati dal criminale che hanno contribuito a far
arrestare e condannare?» E riguardo alla latitanza
del capomafia di Partanna Mondello Rosario Riccobono, che
l'imputato avrebbe favorito il legale incalza: «Riccobono
è stato latitante solo dal luglio del '75 all'aprile
del '77, e poi a partire dall'aprile '80. Nel periodo in
cui, dunque, secondo alcuni pentiti, Contrada lo avrebbe
informato di operazioni di polizia nei suoi confronti non
era neppure ricercato, se non per notificargli una banale
misura di prevenzione». Un ultimo attacco alla tesi
del porto d'armi di Stefano Bontate: «In questo processo
noi alle parole abbiamo sempre contrapposto i documenti.
E questi ci dicono che Bontate non aveva il porto d'armi,
né quello di pistola né quello di fucile.
Per quello di pistola ci da ragione pure la sentenza, che
fa notare che Bontate aveva un'arma con la matricola abrasa.
Ma la stessa sentenza non può dirci che è
verosimile che avesse il porto d'armi per il fucile e che
è dunque possibile che sia stato Contrada a darglielo
solo perché, secondo prassi, la documentazione è
andata al macero e non se ne trova traccia nel fascicolo
"a seconda". Tutto questo è assurdo».
Il 4 maggio 2001, nella sua ultima, addolorata deposizione
spontanea, resa di fronte alla seconda sezione della corte
d'appello presieduta da Gioacchino
Agnello l'imputato si confessa: «Mi preoccupa
che mi venga tolta l'unica cosa che mi è rimasta
e a cui tengo di più. Il mio onore di uomo dello
Stato». Alle 19 e 43 dello stesso giorno nell'aula
del Pagliarelli, già teatro del proscioglimento di
Giulio Andreotti (ricordiamo questultimo è
stato assolto, secondo lart. 530/2 "per insufficienza
di prove" a differenza di Contrada, che è stato
assolto con formula piena, secondo lart. 530, "perché
il fatto non sussiste". Il presidente Agnello è
ora chiamato a spiegare al popolo italiano la motivazione
di questa scelta tramite sentenza), Bruno Contrada viene
assolto con formula piena. In quelle quattro righe pronunciate
dal presidente Agnello il riproporsi di un copione già
visto, forse troppe volte, negli ultimi anni e poi uno scrosciare
di applausi e tanta, tanta commozione. In una tenera immagine
ormai consegnata alla storia l'avvocato
Pietro Miglio abbraccia, in lacrime, il suo assistito.
Ma tanta gioia in fondo è giustificata: non è
da tutti riuscire a trasformare una sentenza a dieci anni
di reclusione in una assoluzione con formula piena, soprattutto
se si tiene conto che gli elementi presentati nel processo
d'appello sono gli stessi che in primo grado avevano portato
alla condanna. Magari anche con qualche testimone in più.
Avevano quindi preso il proverbiale granchio Boris
Giuliano, Beppe Montana, Ninni Cassarà, Giovanni
Falcone e Paolo Borsellino nel dubitare di lui, così
come tutti quelli che lo accusavano di favoreggiamento mentre
i suoi più cari colleghi cadevano sotto i colpi della
lupara mafiosa. «Ho sempre avuto fiducia nei giudici.
Ho detto giudici non magistrati - ha dichiarato Contrada
al termine di un incubo durato nove anni - ed avevo la certezza,
non solo la speranza, che mi avrebbero restituito l'onore.
Per me e per i miei figli». E siccome all'origine
del suo calvario non ci fu soltanto un errore giudiziario
ma qualcosa che «va ben al di là» Contrada
preannuncia la resa dei conti e attacca gli investigatori
che hanno indagato su di lui, in particolar modo l'ex capo
della Dia e attuale capo della Polizia: «Io non ho
mai avuto rapporti buoni con Gianni
De Gennaro. E quando i pentiti sono passati dall'Alto
Commissariato alla Dia io sono stato massacrato».
Chiede ai giudici di indagare sulle persone che in aula
lo hanno accusato così come il Pm aveva fatto «per
una trentina di testimoni a mio favore», tra i quali
il prefetto De Francesco e
il generale Mario Mori e risponde
ai giornalisti. «E' tentato dall'avventura politica?»,
gli domanda Felice Cavallaro in un'intervista pubblicata
sul Corriere della Sera. E unultima, piccola bugia:
«Non ho mai indossato casacche politiche, né
mi presterò ad alcuna strumentalizzazione».
Oggi è candidato per un seggio all'Assemblea siciliana
nelle file di An, "da indipendente".
La sentenza di condanna
del processo di primo grado
Per comprendere in ordine a quali principi il presidente
Ingargiola si è arrischiato
a condannare Contrada non si può prescindere dallesaminare
preliminarmente la modalità di valutazione delle dichiarazioni
rese dai collaboratori di giustizia e dai numerosi testimoni.
La corte ha ritenuto valide a tutti gli effetti le "chiamate
plurime" di correità, vale a dire quelle dichiarazioni
accusatorie provenienti da una pluralità di soggetti
che laddove "siano convergenti verso lo stesso significato
probatorio, ciascuna conferisce allaltra quellapporto
esterno di sinergia indiziaria, la quale partecipa alla verifica
sullattendibilità estrinseca della fonte di prova".
In particolare per i collaboratori di giustizia la Suprema
Corte, riferendosi a precedenti sentenze di Cassazione, ha
ritenuto che "la eventuale sussistenza di «smagliature
o discrasie», anche di un certo peso, rilevabili tanto
allinterno di dette dichiarazioni quanto nel confronto
tra esse, non implica, di per sé, il venir meno della
loro sostanziale affidabilità quando, sulla base di
adeguata motivazione, risulti dimostrata la complessiva convergenza
di esse nei rispettivi nuclei fondamentali". Inoltre
per quanto riguarda specificamente la valutazione della prova
orale costituita da dichiarazioni di soggetti imputati o indagati
per lo stesso reato o per reati connessi interprobatoriamente
collegati, non sono assimilabili a pure e semplici dichiarazioni
de relato quelle con le quali si riferisca in ordine a fatti
o circostanze attinenti la vita e lattività di
un sodalizio criminoso dei quali il dichiarante sia venuto
a conoscenza nella qualità di aderente, in posizione
di vertice, al medesimo sodalizio, specie quando questo sia
caratterizzato da un patrimonio conoscitivo derivante da un
flusso circolare di informazioni dello stesso genere di quello
che si produce, di regola, in ogni organismo associativo,
relativamente ai fatti di interesse comune".
Le prove fornite dai collaboratori di giustizia
"Io ho il dott. Contrada, che mi avviserà se
ci sono perquisizioni o ricerche di latitanti in questa zona,
quindi qua potrai stare sicuro". E quanto
Rosario Riccobono, boss di Partanna-Mondello avrebbe
riferito, nei primi anni 80, al collaboratore di giustizia
Tommaso Buscetta. A rivelarlo è lo stesso Buscetta
al processo di primo grado contro Bruno Contrada, nel corso
del quale è stato chiamato a testimoniare insieme ad
altri nove pentiti, tutti concordi nel riferire che limputato
agevolava lorganizzazione criminale Cosa Nostra e che
aveva intrattenuto rapporti con diversi mafiosi. Tra i quali
spiccano Rosario Riccobono e Stefano Bontate chiamati in causa,
oltre che da Buscetta, da Gaspare Mutolo,
Francesco Marino Mannoia, Salvatore Cancemi, Rosario Spatola
e Maurizio Pirrone. A proposito di Contrada Buscetta,
come riportato in sentenza, parlò per la prima volta
con il giudice Falcone già allinizio della propria
collaborazione, nel 1984, ma solo perché sollecitato
dal magistrato che intendeva verbalizzare alcune informazioni
emerse da un colloquio informale. Allepoca, infatti,
il collaborante era mosso dalla convinzione che parlare dei
rapporti dei quali era a conoscenza tra mondo politico, istituzionale
e mafioso avrebbe portato ad una sua totale delegittimazione
e quindi preferì non toccare largomento fino
al 25/11/1992 quando, in seguito alle stragi nelle quali avevano
trovato la morte i giudici Falcone e Borsellino, riteneva
che lItalia fosse più pronta a credere allesistenza
di tali legami. Lattendibilità di questa e delle
altre dichiarazioni rese del Buscetta è più
che provata negli atti del cosiddetto primo maxi processo
oltre che dalla testimonianza resa in dibattimento dal giudice
Antonino Caponnetto il quale conferma la riluttanza
provata al tempo dal collaboratore a verbalizzare nomi di
uomini della Questura di Palermo collusi con la mafia, nonchéquelli
di politici o uomini delle istituzioni. Anche il pentito Rosario
Spatola, rispetto allepoca di inizio della sua collaborazione
(19/9/89) ha reso in ritardo le notizie riguardanti
il Contrada (16/12/92) anche se per motivazioni differenti
rispetto al Buscetta. Egli, infatti, aveva deciso di ricorrere
allAutorità Giudiziaria perché temeva
per la propria vita e ai primi di novembre del 1989 era stato
portato a Roma dallAlto Commissario, il dott.
De Luca, che aveva espresso il desiderio di conoscerlo.
Mentre si trovava nellufficio del De Luca alla presenza
di alcuni funzionari tra i quali un certo Gianni
(il 28/3/95 il M.llo Ciavattini
conferma di aver assistito lo Spatola nei suoi spostamenti
nella zona di Roma e di essersi presentato con lo pseudonimo
di Gianni) si incontrò con il dott. DAntone
che egli aveva saputo essere a disposizione di Cosa Nostra
e molto legato al dott. Contrada. A causa di tale incontro,
come riportato nella motivazione della sentenza, lo Spatola
ha dichiarato che "non si era più sentito sicuro
e aveva pensato che, trattandosi di personaggi èintoccabili,
sarebbe stato più opportuno non riferire, nellimmediato,
le notizie che aveva appreso nel corso della sua militanza
nei confronti di costoro per paura di crearsi un doppio fronte
di nemici: da un lato la mafia, che aveva già decretato
la sua condanna a morte, e dallaltro ègli intoccabili
allinterno delle istituzioni collusi con la stessa organizzazione
criminale". Le notizie riferite da Spatola circa la collusione
tra il dott. DAntone e Cosa Nostra trovano riscontro
nelle dichiarazioni convergenti rese da Salvatore Cancemi
e nelle deposizioni dei testi Laura
Iacovoni, Saverio Montalbano, Margherita Pluchino, Raimondo
Cerami, Donato Santi. Questultimo rivela che
loperazione di Polizia denominata "Hotel Costa
Verde" fallì perché il dott. DAntone
modificò le originarie modalità di intervento
programmate dai dott.ri Cassarà e Montana. Le pesanti
accuse mosse allallora dirigente della Squadra Mobile
di Palermo trovano conferma nelle dichiarazioni di un altro
testimone, Raimondo Cerami, magistrato
impegnato nelle indagini sugli omicidi del commissario Montana
e del vice-questore Cassarà. La moglie di questultimo,
anchessa chiamata a deporre, ha riferito delle serie
diffidenze che il marito "dopo un primo periodo di permanenza
a Palermo, aveva cominciato a nutrire sia nei confronti dellodierno
imputato che nei confronti del dott. DAntone, che il
marito definiva èuomo di Contrada, ed al quale
nascondeva nonostante fosse il suo dirigente le notizie in
merito alle sue indagini, che conduceva segretamente e con
lausilio di pochi fidati collaboratori soprattutto in
materia di ricerca di latitanti". Simili le dichiarazioni
di Margherita Pluchino, ispettore capo di Polizia dei dott.ri
Cassarà e Montana nel periodo in cui questi furono
rispettivamente dirigente e vicedirigente della V sezione
Investigativa della Squadra Mobile. I due avevano "serie
diffidenze" nei confronti sia di DAntone che di
Contrada in merito allo svolgimento del loro lavoro e in particolare
nel campo della ricerca dei latitanti. Sempre di unoperazione
fallita a causa dellintervento del dott. DAntone
parla Saverio Montalbano. Ad
andare a monte questa volta la cattura dei latitanti mafiosi
Lorenzo e Gaetano Tinnirello e non fu un caso isolato,
incalza Montalbano, poiché in quel periodo DAntone
"pur essendo dirigente della Criminalpol, spesso interveniva
in materia di cattura di latitanti èscavalcando
il dirigente della Squadra Mobile dott. Nicchi". (Tali
informazioni dimostrano la genuinità di quanto raccontato
dai collaboratori Mutolo, Mannoia, Buscetta,
Marchese e Spatola). Il collaboratore
Giuseppe Marchese, appartenente ad una famiglia storica
di Cosa Nostra da generazioni affiliata alla potente "cosca
di Corso dei Mille" (facente parte del mandamento di
Ciaculli), dichiara che agli inizi del 1981, nella tenuta
di Favarella di Michele Greco,
frequentata da persone autorevoli poiché
Greco Salvatore era iscritto alla massoneria - da ciò
si evince, come ha riferito anche Spatola, come Cosa Nostra
intendesse accrescere il proprio potere per mezzo della massoneria
- lo zio Marchese Filippo, in seguito ad una riunione con
Michele e Salvatore Greco "il senatore", e
Pino Greco, gli aveva detto di avvisare Riina, allepoca
latitante, che il dott. Contrada aveva fatto sapere che forze
di polizia avevano individuato la località in cui il
latitante si trovava e si apprestavano a fare "qualche
perquisizione". Senza chiedere alcuna spiegazione, sintomo
che la fonte dalla quale proveniva linformazione era
pienamente affidabile, Riina aveva abbandonato labitazione
e si era recato a San Giuseppe Jato. Allepoca il collaborante
non sapeva chi fosse Contrada e lo comprese solo successivamente,
in occasione di altre notizie fatte avere dallo stesso Contrada
allo zio Marchese Filippo tramite i Greco, suoi referenti
in seguito allavvento dei corleonesi (secondo le dichiarazioni
di Cancemi e dello stesso Marchese). Seppe anche che Greco
detto "il senatore" aveva contatti con persone influenti
ed era massone mentre nellambito del primo maxi processo
Michele Greco, detto "il papa" era stato indicato
come capo della commissione provinciale di Cosa Nostra. Ma
il riscontro più significativo è sicuramente
quello relativo ad una relazione di servizio risalente al
5.9.1981 allegata al rapporto firmato dal dott. DAntone
riguardante la scomparsa di Tagliavia
Gioacchino un pregiudicato che si era sottratto al
regime della sorveglianza speciale. Nel documento è
riportato il testo della seguente telefonata anonima: "Senta,
mi stia a sentire, per la scomparsa di
Ginetto Tagliavia, il nipote di Pietro Tagliavia, quello
che ha la pescheria a S. Erasmo, gli autori sono: Giuseppe
Calamia, Filippo Marchese ed i fratelli Pietro e Carmelo Zanca".
In aula il Contrada riferisce di non sapere nulla della telefonata
che, essendo lunico elemento investigativo emerso nelle
indagini in oggetto ed essendo stato ritenuto particolarmente
significativo ed attendibile dagli inquirenti dellepoca
doveva essergli sicuramente stato trasmesso. Lapparente
incompatibilità delle informazioni riferite dal Marchese
con lattività dindagine svolta dal Contrada
nei confronti del gruppo Marchese viene spiegata nel seguente
modo: poco prima del suo assassinio il dirigente della Squadra
Mobile Boris Giuliano aveva colpito il punto più vitale
dellorganizzazione, quello facente capo ai corleonesi
in particolare per le indagini relative ad una rapina avvenuta
nella sede della cassa di Risparmio di via Mariano Stabile,
dove aveva trovato la morte il metronotte Sgroi,
e che vedeva coinvolti i Greco e i Marchese. Nel corso di
tali indagini era stato scoperto il covo di via Pecori Giraldi
che aveva permesso lindividuazione di
Leoluca Bagarella in collegamento con
Marchese Antonino e Gioè Antonino, arrestati
nellambito della stessa inchiesta, e con i fratelli
Di Carlo sui quali avevano svolto indagini i carabinieri e
in particolare il capitano Basile. Le loro ricerche erano
giunte a "ulteriori risultati investigativi a carico
del medesimo aggregato criminale già individuato dalla
Squadra Mobile del dott. Giuliano". Le brillanti indagini
condotte da Giuliano e Basile non potevano che portare ad
un intervento del dott. Contrada che se si fosse astenuto
dal farlo avrebbe destato sicuri sospetti.
Secondo quanto emerso dalle dichiarazioni dei collaboranti
Francesco Marino Mannoia e Salvatore Cancemi, inoltre, tra
il 1979 e il 1980 Contrada si sarebbe interessato per la patente
di Stefano Bontate. Nel corso delludienza del 5.5.95
il questore Epifanio, afferma che di norma in caso di soggetti
indiziati mafiosi va valutata la possibilità di un
abuso del documento abilitativo alla guida ma che nel caso
specifico il problema non si era posto. La questura si era
infatti limitata a verificare se la patente fosse "mezzo
necessario" di lavoro. Il Bontate riuscì ad ottenerla
(e successivamente a mantenerla a causa di una singolare inerzia
degli uffici della Questura che in seguito ad un periodo di
prova avrebbero dovuto procedere a nuove verifiche) in un
periodo compatibile con la data in cui i due collaboratori
di giustizia erano venuti a conoscenza del fatto "ed
in un contesto in cui il dott. Contrada, dirigente della Criminalpol,
era il funzionario di maggior rilievo allinterno della
Questura, quel èpunto di riferimento da molti
testi indicato ed i cui «consigli» e «suggerimenti»
erano sempre ascoltati, il funzionario che più di ogni
altro godeva la stima e la fiducia del Prefetto
Di Giovanni e del Questore Epifanio".
Stessa procedura per Giuseppe Greco di Ciaculli, per il quale
la Questura aveva chiesto al Iê Distretto di Polizia se il
soggetto avesse necessità del documento per svolgere
la propria attività lavorativa. Anche in questo caso
Cancemi e Mannoia rivelano un interessamento del dott. Contrada.
Interessamento che si estenderebbe anche ai porti darma
per Stefano Bontate, come rivelato da Cancemi e per i fratelli
Caro, come rivelato da Rosario Spatola. Gaspare Mutolo della
famiglia di Partanna-Mondello - il quale ha fornito le prime
informazioni circa la presunta azione di avallo e di appoggio
da parte del dott. Contrada a Cosa Nostra - rivela che il
suo capo mandamento Saro Riccobono, conoscendo la sua passione
per le auto di grossa cilindrata, gli aveva raccomandato,
per qualsiasi eventuale problema con la Questura, di chiedere
del dott. Contrada. Mutolo fa inoltre riferimento a Falcone
e a Borsellino, ai quali aveva rilasciato le proprie dichiarazioni,
sostenendo che entrambi i magistrati sapevano ed avevano espresso
la propria mancanza di fiducia nei confronti dellalto
funzionario. Egli riferisce ancora che per ben tre volte Riccobono,
grazie alle "soffiate" di Contrada, era riuscito
ad evitare imminenti operazioni di polizia a suo danno e che
i due si erano conosciuti tramite Bontate. Lincontro
tra Contrada e Cassina sarebbe avvenuto allinterno della
loggia massonica dellordine dei Cavalieri del Santo
Sepolcro, mentre il sodalizio dellimprenditore con Cosa
Nostra sarebbe stato rafforzato dallimpiego di alcuni
uomini donore presso le sue imprese, tra i quali Teresi,
sottocapo di Santa Maria del Gesù, mandamento che faceva
capo a Bontate.
Citiamo, infine, il contenuto delle deposizioni del pentito
Pietro Scavuzzo della famiglia mafiosa di Vita, in
provincia di Trapani. Nei primi mesi del 1991 lo Scavuzzo
aveva prelevato unanfora presso la casa del proprio
capo mandamento Tamburello Salvatore la quale doveva essere
esaminata da parte di un esperto giunto dalla Svizzera per
valutare loggetto di proprietà di Francesco Messina
Denaro. Insieme a Calogero Musso si era recato in auto presso
il Motel Agip sulla circonvallazione di Palermo e li si era
incontrato con Mazara Pietro (uomo
di fiducia dello Scavuzzo non formalmente affiliato a Cosa
Nostra) e il tecnico svizzero, entrambi a bordo di unaltra
automobile. I quattro erano diretti in una palazzina situata
nei pressi dellHotel "Delle Palme". Ad aspettarli
una donna e un uomo, che successivamente il collaborante scoprì
essere Contrada. Luomo si appartò per parlare
con Musso, che evidentemente conosceva da tempo, mentre lesperto
esaminava il reperto archeologico attribuendogli grande valore.
Il Tamburello aveva in seguito rivelato allo Scavuzzo che
lanfora era stata donata da Francesco Messina Denaro
al dott. Messineo, messo a conoscenza delloggetto dallo
stesso Contrada. Questultimo, concludendo è detentore
di unanfora antica, probabilmente di epoca romana.
A riprova di quanto dichiarato, tutti i collaboratori di
giustizia chiamati a deporre hanno avuto modo di fornire
innumerevoli riscontri di riferimento accolti in pienezza
dalla Corte che nel testo della motivazione della sentenza
di primo grado si è dilungata per spiegare dettagliatamente
la attendibilità sia intrinseca che estrinseca delle
testimonianze rese. In buona parte dei casi poi, contrariamente
a quanto denunciato da Contrada, le dichiarazioni rilasciate
dai pentiti non possono essere frutto di un sentimento di
vendetta dal momento che il Contrada non si era occupato
di loro in maniera specifica. Non risulta altresì
corretta laffermazione «state prendendo per
buone le accuse degli uomini che io ho combattuto durante
la mia carriera» poiché non solo dagli ambienti
mafiosi giunge la conferma della collusione dellimputato
con Cosa Nostra.
Le prove fornite dai
testimoni e le intercettazioni telefoniche
Abbiamo già avuto modo di riscontrare il sentimento
di diffidenza che alcuni colleghi di Contrada avevano manifestato
nei confronti dellimputato. La moglie del dirigente
della Squadra mobile di Palermo dott. Cassarà racconta
di avere reiteratamente accolto gli sfoghi del marito circa
la figura del Contrada e in ciò è stata avallata
dai testi Vincenzo Immordino,
ex questore di Palermo, Francesco Forleo,
già segretario del sindacato di Polizia Silup a cui
aveva aderito lamico Cassarà e dott. Montalbano,
dirigente della Squadra mobile di Trapani. Questultimo,
tra laltro, riferisce che in epoca precedente il suo
trasferimento a Palermo, in occasione di una perquisizione
eseguita presso il "Circolo Scontrino - Loggia Iside
2", aveva avuto modo di rinvenire nel cassetto personale
del Gran Maestro una copia della rivista "I Siciliani"
del novembre 1985 in cui si diceva che il dott. Cassarà,
prima di morire, stava svolgendo alcune indagini sui Cassina
e sul predetto ordine cavalleresco, di cui faceva parte anche
il dott. Contrada. Non appena giunto a Palermo venne poi a
sapere dallagente Natale Mondo
(uomo fidato di Cassarà, anchegli tragicamente
assassinato) di "diffidenze molto serie" che sia
il dott. Montana che il dott. Cassarà avevano sul conto
dei dott.ri Contrada e DAntone, versione confermata
anche dalla dottoressa Margherita Pluchino anchessa
parte della squadra di Cassarà, Mondo e Antiochia,
rimasto ucciso nellagguato mafioso teso a Cassarà.
Montalbano precisa inoltre che, riferendosi ai poliziotti
sopracitati, "addirittura mi dicevano entrambi che ciò
faceva sì che allepoca i due funzionari, Cassarà
e Montana, operassero anche loro in tema di ricerca latitanti
sostanzialmente di nascosto, come poi, mio malgrado, mi trovai
costretto a fare anchio". Anche il consulente dellFbi
e della Dea Charles Tripodi testimonia
il dubbio nutrito, questa volta da Boris Giuliano, nei confronti
del dott. Contrada. Tripodi, legato a Giuliano da un profondo
rapporto di amicizia e di fiducia, svolgeva indagini sotto
copertura quando il Giuliano gli suggerì di ritirarsi
poiché una talpa interna aveva svelato la sua identità.
Interessante la sua dichiarazione in merito al fatto che solo
pochissimi funzionari erano al corrente delloperazione
e tra questi il dott. Contrada. Charles Tripodi ha inoltre
testimoniato circa lattendibilità di un incontro
avvenuto tra il Giuliano e il Commissario liquidatore della
Banca Privata Italiana di Michele Sindona avv. Ambrosoli,
pochi giorni prima che questi fosse assassinato. Numerosi
testimoni, tra i quali uno oculare e la moglie dello stesso
Giuliano, hanno confermato la versione dellincontro
il quale si sarebbe verificato nellambito delle indagini
circa il falso sequestro inscenato dal bancarottiere Michele
Sindona fuggito dagli Stati Uniti perché accusato di
bancarotta fraudolenta. Nel periodo in questione, accertato
il collegamento del Sindona con ambienti malavitosi siciliani
e massonici, si è verificata la presenza in Italia
del mafioso italo-americano John Gambino, esponente di spicco
della famiglia Gambino il cui padre Charles era indicato come
uno dei capi di Cosa Nostra americana. Individuatolo a Palermo
presso il Motel Agip il teste Antonio
De Luca lo aveva fermato, interrogato e perquisito.
DopodichÈ aveva rintracciato il Contrada chiedendogli
di trovare un pretesto per poterlo arrestare ed evitare che
si desse alla fuga. Contrada però rispose che il giudice
istruttore Ferdinando Imposimato, titolare dellinchiesta,
non aveva elementi sufficienti per poterlo trarre in arresto,
cosa che lo stesso Imposimato smentì categoricamente
anche perché, come riferisce il Giudice Istruttore,
"egli non avrebbe in alcun modo potuto dare disposizioni
su tale materia che rientrava nella competenza del dott. Sica,
pm titolare dellazione penale nellinchiesta in
oggetto". La fuga del Gambino si rivelò decisiva
ai fini dellespatrio dello stesso Sindona il 13 ottobre
1979. Interessante a questo punto ricordare che al commissario
capo di Pubblica Sicurezza Renato Gentile
il dottor Contrada avrebbe detto che "determinati personaggi
mafiosi hanno allacciamenti con lAmerica per cui noi,
organi di polizia, non siamo che polvere di fronte a questa
grande organizzazione mafiosa. Hai visto che fine ha fatto
Giuliano?". Tale colloquio è stato riportato da
Gentile, su suggerimento del suo superiore, il dott. Impallomeni,
in una relazione stesa il 14/4/1980 nella quale il commissario
capo scriveva che la sera del 12/4/1980 era stato fermato
dal dott. Contrada il quale gli aveva fatto presente di aver
avuto lamentele da parte dei capi-mafia circa la sua metodologia
nel condurre le perquisizioni presso le abitazioni dei mafiosi.
Pochi giorni prima, infatti, il commissario Gentile aveva
eseguito unoperazione di quel tipo nellabitazione
di Salvatore Inzerillo e lavvocato
del boss mafioso Cristofaro Fileccia,
aveva riferito a Contrada che il suo cliente lamentava un
comportamento poco corretto con la moglie e le figlie da parte
degli uomini della polizia. Aveva pertanto richiesto al suo
legale di riferire le sue rimostranze direttamente al dott.
Contrada, anche se non era lui il responsabile diretto delloperazione
avvenuta in quanto da alcuni mesi dirigeva la Criminalpol
e non si occupava più della Squadra Mobile. Unaltra
dichiarazione decisamente compromettente è quella rilasciata
dallimputato a Gilda Ziino,
vedova dellingegnere Roberto Parisi, già presidente
della società I.C.E.M. e della "Palermo Calcio"
ucciso a colpi di pistola in un agguato di stampo mafioso.
Il giorno dellassassinio, la donna era rientrata da
poco nella sua abitazione dallospedale dove non aveva
ancora avuto modo di vedere la salma del marito. Il dott.
Contrada si era presentato alla sua porta chiedendole un colloquio
riservato e dopo essersi recati nello studio sito al piano
inferiore le disse "con fermezza che qualunque cosa io
potessi sapere che riguardava la morte di Roberto dovevo stare
zitta, non parlarne con nessuno e ricordarmi che avevo una
figlia piccolaÖ mi disse solo queste testuali parole".
"Sorpresa e intimorita" la signora, una volta che
il Contrada se ne fu andato, riferì dellaccaduto
al suo avvocato prof. Alfredo Galasso
il quale a sua volta ebbe modo di riferirlo al giudice istruttore
Falcone con il quale poi ebbe un incontro in assoluta riservatezza
un sabato pomeriggio allinterno del Palazzo di Giustizia.
La domenica immediatamente successiva "il dott. Contrada
ha suonato al campanello di casa mia, io ho aperto, lho
fatto accomodare, naturalmente la mia emozione fu tale, mi
sono seduta e mi ha chiesto subito, immediatamente, - signora
lei ha avuto un incontro con il dottor Falcone?...Io negai".
Allo stesso modo la signora Gilda Ziino informò immediatamente
lavvocato Galasso che non trovando il dottor Falcone,
pregò il suo stretto collaboratore Ayala
di farlo in sua vece. La tesi presentata dalla signora Ziino,
è stata confermata da tutti i professionisti, mentre
la difesa che pretendeva di ricondurre a semplici raccomandazioni
le parole di Contrada e negava il secondo incontro è
stata rigettata dalla Corte.
Passando ad altro argomento approfondiamo lassunto dellintercettazione
telefonica tra limputato e Nino Salvo già precedentemente
citato. In seguito allavvenuta informazione attraverso
notizie di stampa di essere stato indicato insieme al cugino
Ignazio quale possibile mandante dellomicidio Chinnici,
Antonino Salvo si era voluto mettere immediatamente
in contatto con il capitano dei Carabinieri
Angiolo Pellegrini e con il dottor Contrada affinchÈ
segnalasse al proprio superiore, dott. De Francesco, che egli
si riteneva vittima di una congiura politica.
Precisando che il dottor Chinnici, prima di essere ucciso
gli aveva personalmente comunicato che stava per emettere
mandati di cattura nei confronti dei cugini Salvo, il funzionario
Pellegrini, a conoscenza del procedimento penale aperto a
carico di Salvo dal giudice Falcone non aveva ritenuto opportuno
incontrarlo informando tempestivamente lo stesso Falcone.
Solo in un secondo momento dopo le reiterate richieste del
colonnello Frasca, suo superiore, aveva accettato lincontro
inviando pronta relazione al predetto giudice. Procedura non
condivisa da Contrada che invece dopo aver parlato telefonicamente
con il sospettato, dalla cui intercettazione la Corte ha evinto
un rapporto di tipo piuttosto confidenziale, lo avrebbe incontrato
senza nulla riferire al dottor Falcone che in un successivo
momento avrebbe ironicamente dichiarato "ancora aspetto
quella telefonata".
La fuga di Oliviero Tognoli
In ultimo, ma non per ordine di importanza, ripercorriamo
in sintesi la vicenda, anche questa sopra citata, dellagevolazione
che il Contrada avrebbe dato alla fuga dallItalia di
Oliviero Tognoli, condannato
per associazione a delinquere finalizzata al traffico internazionale
di stupefacenti, aggravato per aver agito con la qualifica
di capo ed in concorso con un numero di persone superiore
a dieci, tra le quali numerosi esponenti di Cosa Nostra. Il
12 ottobre 1988 si costituì alle autorità elvetiche
dove venne interrogato dalla dottoressa
Carla Del Ponte e dai giudici italiani
Giovanni Falcone e Giuseppe Ayala in ambito di una
rogatoria internazionale inerente allindagine "pizza
connection". Circa la sua fuga dallItalia, il collaboratore
aveva dichiarato al Commissario Gioia di essere stato avvertito
dellordine di cattura da un "suo pari grado"
che il commissario ha dedotto essere un funzionario di polizia
italiano. Immediatamente ne ha dato avviso alla dottoressa
Del Ponte che a sua volta ha tempestivamente informato il
giudice Falcone. Al termine di un interrogatorio svolto dalla
dott.ssa Del Ponte, il dott. Falcone aveva riferito che il
Tognoli, nel corso di un colloquio informale cui aveva assistito
anche il magistrato elvetico, aveva ammesso che il funzionario
di polizia che lo aveva informato era
Bruno Contrada. Tognoli non aveva voluto mettere la
dichiarazione a verbale, per tanto il giudice Falcone aveva
pregato i colleghi svizzeri di convincerlo ad ufficializzare
quanto detto nel corso delle successive escussioni. Nella
sua deposizione al processo Contrada la Del Ponte ha dichiarato
di non essere riuscita a convincere il collaboratore che non
ha mai negato di aver assentito alla diretta domanda del giudice
Falcone- "E Stato Contrada?" "Sì"-
dialogo al quale aveva assistito la dottoressa in persona,
ma si rifiutava di parlarne perché "manifestava
questa grande paura, questo terrore. Mi diceva, Dott.ssa Del
Ponte, lei non sa cosa vuol dire, perché sono potenti,
questa mafia è potente". Solo successivamente
il Tognoli aveva riferito di essere stato avvertito del mandato
di cattura da un suo compagno di scuola, il
De Paola e poi dal fratello che lo avrebbe chiamato
allhotel "Ponte" di Palermo in seguito alla
perquisizione della casa di Brescia. I riscontri portati dalla
difesa non solo non hanno convinto la giuria, ma si sono rivelati
contraddittori in più punti. Le dichiarazioni della
dottoressa del Ponte invece sono state riscontrate e confermate
anche dalla deposizione del giudice Ayala. Da sottolineare
che Falcone, memore di quanto detto da Mutolo, ha posto una
domanda diretta a dimostrare che aveva una precisa idea su
chi fosse stato linformatore di Tognoli.
Queste, in sintesi, le prove inoppugnabili, contenute nelle
circa 1750 pagine di motivazione della sentenza di primo grado,
della colpevolezza del dott. Bruno Contrada. Per un comune
cittadino la sentenza di appello avrebbe sicuramente confermato
la condanna ma per i potenti e per i loro adepti e funzionari
non funziona così. Qualcuno ha detto che spesso nel
nostro Paese la giustizia è debole con i forti e forte
con i deboli e, purtroppo, la realtà dei fatti dimostra
tale affermazione.
La sentenza dappello che assolve Contrada, sommata alle
altre assoluzioni "eccellenti" (Musotto,
Andreotti, Carnevale ecc.), rappresenta un segnale
molto rassicurante per la "mafia invisibile". E
infine non è da sottovalutare la notizia dellultima
ora che riporta la condanna ad un anno di reclusione per falsa
testimonianza della figlia del boss Riccobono che aveva ritrattato
la sua prima dichiarazione in cui accusava Contrada di "andare
a braccetto con il padre".