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Il caso Cocilovo

Candidato del centrosinistra alla presidenza della Provincia di Palermo è un personaggio che una sentenza (di assoluzione) descrive così: un percettore di tangenti che non si accontenta dei soldi, ma vuole anche la valigetta (Cartier) che li conteneva.

di Marco Travaglio

Se il mio vicino esce da casa mia con l’argenteria nelle tasche, io non aspetto la sentenza di Cassazione per gridare «al ladro» e per smettere di invitarlo a cena. Anche se poi magari lo assolvono, o non lo processano nemmeno. Se scopro che l’amministratore del mio condominio ha fatto la cresta sulle spese del riscaldamento a casa di un mio amico, io lo faccio cacciare prima che faccia la cresta pure ai miei danni. E non m’importa se il mio amico non lo denuncia, o se lo denuncia ma poi lo assolvono. perché, ben prima del piano penale, viene quello della decenza, della convenienza, della trasparenza e anche dell’etica (perdoni la parolaccia, professor Fiandaca). perché io posso consegnare una parte di me - dai miei sentimenti di amicizia all’amministrazione della mia casa - soltanto a persone di cui mi fido. E il rapporto fiduciario è tutto, soprattutto quando i rapporti privati diventano pubblici.

È curioso che persone a cui non affideremmo neppure il nostro condominio diventino ottime e abbondanti per gestire un comune, una provincia, una regione o addirittura l’intera nazione. Io non provengo dalla sinistra. Ciononostante, o forse proprio per questo, chi tradisce i lavoratori mi ripugna. E se scopro che c’è un ex sindacalista che una sentenza di tribunale definisce «collettore di una tangente» (350 milioni più valigetta Cartier) «disposto anche a concedere favori sindacali», io non lo invito a cena, non gli stringo la mano, non lo nomino amministratore del mio condominio, non lo voto, faccio il possibile per evitare che ricopra un incarico pubblico, e l’ultima cosa che mi passa per la testa è di fare il suo portaborse (Cartier) o il suo vice alla Provincia di Palermo, casomai lui ne diventasse il presidente.

Perché il problema, caro professor Fiandaca, al di là delle chiacchiere, è solo questo: Cocilovo quei soldi li ha presi o no? Lui dice di no, e ha il pieno diritto di proclamarsi innocente. Si dà il caso però che quattro pubblici ministeri, un gip e tre giudici del tribunale di Palermo non gli abbiano creduto. Hanno creduto all’imprenditore Domenico Mollica, che ha confessato decine e decine di mazzette, compresa quella a Cocilovo. E per questa sua confessione ha rimediato una condanna in primo grado a 3 anni per corruzione. La sentenza, emessa appena 8 mesi fa, dimostra «l’attendibilità intrinseca delle dichiarazioni di Mollica», «solidamente riscontrate», pienamente confermate dal professor Alessandro Musco, consulente dell’ex presidente della Regione Rino Nicolosi, amico e frequentatore abituale di Cocilovo, che accompagnò Mollica nella missione della valigetta nell’ufficio di Cocilovo. L’unica versione ritenuta assurda e inattendibile è proprio quella di Cocilovo, che fra l’altro - scrivono sempre i giudici - «ha prospettato due versioni differenti» di quell’incontro, cadendo in contraddizione.

Ergo, «l’esame del Cocilovo non solo non ha offerto elementi tali da far dubitare dell’attendibilità del Mollica; ma, per il minor grado di verosimiglianza della ricostruzione offerta, contribuisce a rafforzare il convincimento del Collegio circa la piena fondatezza della contestazione». Dunque «risulta confermato che il contributo fu realmente consegnato» e che si trattava di una «dazione a causa mista»: «da un lato era diretta a remunerare i favori del Nicolosi, dall’altro mirava anche a risolvere le questioni sindacali nel cantiere ragusano» di Mollica. Dove gli scioperi Cisl, dopo il pagamento, si spensero d’incanto.
Ma, se fosse stato soltanto per «la compravendita della pace nel cantiere», quella tangente non sarebbe stata neppure reato, e nÈ Mollica nÈ Cocilovo sarebbero stati mai nÈ inquisiti nÈ imputati. Ricordano i giudici che la «corruzione sindacale» è «priva di immediati risvolti penali ma ugualmente riprovata sul piano sociale e giuridico come grave comportamento antisindacale».

Una sentenza garantista,
quella di Palermo. Infatti Cocilovo ne esce assolto, pur con la formula dubitativa del comma 2 dell’articolo 530: la stessa di Andreotti, Mannino, Musotto eccetera. E non, come in quei casi, per insufficienza di prove. Ma soltanto per un motivo tecnico: la riforma del cosiddetto "giusto processo", intervenuta nel 1999 (ben dopo i fatti), che ha provocato l’inutilizzabilità della confessione («del tutto attendibile e mai rimessa in discussione») di Mollica, a causa del suo silenzio in aula e del rifiuto opposto dalla difesa Cocilovo a consentirne l’acquisizione. Senza il silenzio di Mollica - spiegano i giudici - la «prova sarebbe stata senz’altro sufficiente ai fini della condanna di tutti e tre gli imputati». Invece due vengono assolti e solo uno, Mollica, condannato. Anche se questo «fatto fra i fatti», in un più «generale quadro di corruzione sistematica», è provato per tutti e tre. E questo lo chiamano "giusto processo".

Può darsi che, non essendo io un luminare del diritto, abbia sbagliato a leggere o a interpretare la sentenza. Perciò ho deciso di pubblicarla sul numero di MicroMega in edicola da ieri: così ciascuno può leggerla, discuterla, farsi un’idea su chi dice la verità e chi racconta frottole. Sarebbe un’ottima cosa se il ticket Cocilovo-Fiandaca la distribuisse alla gente insieme ai santini elettorali, sempre in nome della massima trasparenza.
perché, se si dovesse scoprire che sono il professor Fiandaca e i suoi amici a non averla letta bene, o a non averla letta per niente, allora farebbero bene a leggerla. E poi magari a confrontarsi con i «fatti» in essa contenuti. Nessuno di noi fa il giudice o l’avvocato. Io faccio il cronista, altri i professori, tutti siamo cittadini ed elettori. E sono i fatti, le azioni, i comportamenti dei candidati che ci devono interessare: indipendentemente dalla loro rilevanza penale o dalla utilizzabilità delle prove in tribunale. Forse, se Cocilovo avesse querelato Mollica e Musco (7 anni fa, quando confessarono tirandolo in ballo) anzichÈ un giornalista «reo» soltanto di aver pubblicato una sentenza del Tribunale di Palermo, sarebbe un tantino più credibile. Anche perché restano da chiarire un altro paio di particolari.

1) Cocilovo e i suoi fans insinuano
che Mollica avrebbe confessato una tangente mai pagata solo per incastrare Cocilovo: e allora perché si sarebbe beccato 3 anni per corruzione, giocandosi le attenuanti generiche proprio per salvare, con il suo silenzio in aula, Cocilovo? 2) In una vergognosa intervista al Foglio (in cui mi definisce «sicario» di chissà quali «mandanti»), Cocilovo parla di sentenza «definitiva»: strano, perché ad altri giornali, nei giorni precedenti, aveva giurato di aver interposto appello (ammettendo così che il verdetto di primo grado era tutt’altro che l’assoluzione plenaria o liberatoria che vuole far credere).

A questo punto il dibattito
sulle cosiddette "primarie" palermitane diventa secondario, quasi accessorio. Anche se qualcuno prima o poi dovrà spiegare che razza di primarie siano quelle in cui si assegna agli iscritti ai partiti (in rappresentanza di 500 mila persone in tutta Italia) la stessa quota di partecipanti che si assegna ai non iscritti (che sono, per l’Ulivo, 15-20 milioni di persone su scala nazionale): non la racconti all’estero, questa storia, professor Fiandaca, se no le ridono dietro. Ma torniamo al punto: un sindacalista che tradisce i lavoratori è come un giudice che si vende le sentenze e un giornalista che si vende gli articoli. A che cosa si è ridotta questa sinistra, se sciopera sull’articolo 18 e poi passa sopra persino a cose del genere?

Sarò fatto male, ma credo che l’impegno politico
non sia una carriera, un diritto, un obbligo, una sinecura. La politica è un onore che bisogna conquistarsi rispettando qualche requisito in più di quelli richiesti per circolare a piede libero. L’incensuratezza dà diritto a non entrare in galera, non a entrare in politica. Per entrare in politica bisogna essere incensurati, certo, ma anche insospettati e insospettabili. E questo vale per tutti: per Berlusconi e per i suoi amici, come per i loro oppositori. Direi soprattutto per i loro oppositori, se vogliono essere davvero diversi. Io non voglio avere un presidente del Consiglio che ha avuto rapporti con mafiosi stragisti e massoni piduisti, che s’è tenuto in casa un boss per due anni scambiandolo per uno stalliere, che ha giurato il falso in tribunale sulla P2, pagato tangenti da 21 miliardi a Craxi e guidato un’azienda che corrompeva stabilmente la Guardia di finanza: tutte condotte accertate da altrettante sentenze definitive, nelle quali Berlusconi è sempre uscito prosciolto, o prescritto, o amnistiato (e mai, per la verità, per il motivo tecnico dell’inutilizzabilità degli atti). Eppure, per quel che mi riguarda, uno così non dovrebbe fare nemmeno l’assessore circoscrizionale ad Arcore.

Allo stesso modo, non vorrei essere rappresentato
da un deputato regionale che parla con mafiosi consigliandoli di guardarsi dagli «sbirri» ( i carabinieri). Anche se questo non è reato. Io non voglio essere governato da viceministri con lo spacciatore di fiducia, anche se questo non è reato. Io non voglio un presidente della provincia nella cui casa al mare veniva ospitato il pluriassassino latitante Leoluca Bagarella, anche se una sentenza l’ha assolto perché era tutta colpa del fratello e lui quando andava al mare non aveva mai riconosciuto il gradito ospite. Io vorrei vivere in un paese, come l’Inghilterra, dove il capo dei conservatori in parlamento viene cacciato dai suoi colleghi per la dubbia provenienza di una ricevuta d’albergo della figlia dell’ammontare di 3 milioni di lire, prim’ancora di essere arrestato e condannato. O come gli usa, dove un deputato viene espulso dal Congresso perché coinvolto in un sospetto caso di corruzione. O come la Germania, dove un gigante della storia come Kohl finisce la sua carriera per un contributo irregolare (ma nemmeno illecito) di 3 miliardi al suo partito. E penso che molti cittadini abbiano aderito con entusiasmo ai movimenti e ai girotondi proprio perché sognano anche loro una politica così. Il professor Fiandaca è liberissimo di accusarmi di «moralismo giudiziario estremistico» e di istruire un «tribunale improprio del sistema mediatico». Ma poi deve accettare le conseguenze di ciò che dice. Gli piace Cocilovo? Benissimo. Ma allora si tenga anche Berlusconi, Previti e tutti gli altri presunti innocenti, sicuri indecenti. Chi ci sta si accomodi. Io scendo, auguri.

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Più del sospetto conta la verità

Il leader del movimento dei professori di Palermo risponde a Travaglio (da Repubblica, pagine di Palermo)

di Giovanni Fiandaca

Marco Travaglio è un attaccante insidioso, ma proverò a marcarlo stretto per evitare che i suoi "falli argomentativi" passino per verità rafforzate da una brillante tecnica giornalistica. A scanso di equivoci, premetto che sarei pienamente d’accordo con lui se i fatti posti alla base dei suoi ragionamenti fossero veri. E in particolare se fosse provata la percezione di una tangente da parte del candidato che lui addita come colpevole nel tribunale della pubblica opinione. Ma, come vedremo, così non è. Il mio dissenso è dunque di contenuto e riguarda sia la sua valutazione negativa dell’esperimento delle primarie, sia il suo modo di concepire i rapporti tra giustizia penale, etica e politica. Quanto al primo punto, contesto innanzitutto il tono categorico col quale Travaglio ha assegnato a Paolo Flores d’Arcais il ruolo di massimo teorico delle «vere» primarie all’americana.

Tra questi metodi c’è anche quello indiretto
della convention, e ciascuno presenta vantaggi e svantaggi. Per ragioni di tempo, a Palermo si è preferito realizzare primarie indirette mediante un’assemblea composta per metà di esponenti di partito e per metà di esponenti di movimenti e semplici cittadini. La concorrenza tra due candidati (dopo il ritiro di una terza candidata donna), uno indicato dai partiti e l’altro dai movimenti, ha conferito autenticità e credibilità all’esperimento: ciascuno dei partecipanti all’assemblea è stato messo in condizione di prendere parte al pubblico dibattito, di discutere il programma politico e di esercitare un diritto di scelta consapevole nella individuazione del candidato da preferire. Ed è significativo che l’esito della votazione abbia visto soccombere il candidato dei movimenti per pochi voti soltanto (68): se i partiti avessero tentato davvero di truccare o manipolare il risultato, la prevalenza del vincitore sarebbe stata ben più vistosa. Le primarie hanno dunque fondamentalmente retto come «metodo», pur tra limiti e imperfezioni derivanti dalla novità dello strumento. Se così è, ecco allora il grave "fallo argomentativo" dell’attaccante insidioso: pretendere di desumere a posteriori dalla vittoria del candidato dei partiti la prova autentica del fallimento delle primarie. In realtà, se atto manipolativo c’è stato, a commetterlo è stato Travaglio con la successiva interpretazione dell’accaduto.

Si aggiunga un ulteriore dato
tutt’altro che secondario: il candidato dei partiti è stato votato anche da esponenti della società civile (privi di appartenenza partitica) avvezzi a leggere i giornali e dotati di un buon livello di cultura. » perciò assai presumibile che conoscessero già la passata vicenda giudiziaria relativa al candidato prescelto, per averla letta sulle stesse pagine di Repubblica-Palermo qualche tempo prima che uscisse l’articolo di Travaglio. Non si è trattato, quindi, di consenso «disinformato».
E vengo al secondo punto di dissenso. Impancandosi a cattedratico di etica pubblica, il giornalista ricorda a me "professore" che il sistema mediatico è un tribunale appropriatissimo per la politica. Come professore di diritto penale, vorrei fare a mia volta qualche precisazione. La prima è questa: il sistema dei media può e deve essere un tribunale, ma in senso metaforico. Esso è certo il luogo dove legittimamente si fanno le pulci alle storie e alle qualità, anche morali, dei candidati: ciò che non si può fare, invece, è trasformare la piazza mediatica in un tribunale di ultima istanza competente a ribaltare in condanne le sentenze di assoluzione emesse dalla magistratura competente. Se fosse altrimenti, lo Stato di diritto andrebbe in frantumi.

Seconda precisazione. Travaglio, che utilizza come metodo di lavoro la valorizzazione delle sentenze, sarebbe a maggior ragione tenuto - proprio per far bene il suo mestiere - a riportare correttamente gli atti giudiziari che cita e, quando è il caso, anche a metterne in evidenza i punti deboli. Sempre come professore di diritto penale, gli contesto dunque questi ulteriori falli:
a) Di non accennare minimamente al problema che nel nostro caso è tutt’altro che pacifica, a monte, la stessa configurabilità giuridica di un’ipotesi di corruzione. Per risolvere il problema in senso affermativo, il tribunale ha dovuto compiere sforzi argomentativi che hanno finito per forzare al massimo i limiti fisiologici del reato di corruzione secondo il diritto vigente: è controvertibile, in particolare, che sia giuridicamente corretto individuare come principale responsabile della corruzione l’allora presidente della Regione Nicolosi (del quale Luigi Cocilovo sarebbe stato presunto complice), qualificando «atti contrari ai doveri d’ufficio» le stesse scelte di impostazione programmatica generale di sua competenza: le quali, per potere concretamente avvantaggiare eventuali imprenditori «favoriti», dovevano essere successivamente tradotte in decreti di finanziamento a opera dell’assessore competente e, ancora dopo, in bandi di gara per appalti a opera dei diversi comuni interessati.
b) Di dare suggestivamente per esistente quel fatto di corruzione che, invece, nella sentenza di assoluzione è stato, con riguardo a Cocilovo, escluso addirittura con la formula «perché il fatto non sussiste». Altro che «collettore di tangenti», come scrive Travaglio cercando artificialmente di far apparire come accertata dalla sentenza quella che era solo un’ipotesi accusatoria, alla fine esclusa. Sia chiaro una volta per tutte: la stessa sentenza citata da Travaglio, letta correttamente, non afferma in nessun punto che Cocilovo ha realmente percepito una tangente. Se così fosse stato Cocilovo sarebbe stato condannato. E Travaglio di conseguenza non dice la verità neppure quando aggiunge che il professore Musco avrebbe riscontrato la veridicità del fatto. Evidentemente egli legge gli atti in maniera volutamente parziale e fuorviante. Bel servizio, davvero, per i cittadini che andrebbero informati correttamente.

L’esito assolutorio per inesistenza del fatto
è di decisiva rilevanza anche rispetto alla possibilità di distinguere in linea di principio tra assoluzione in diritto e condanna morale. Infatti l’unica ragione per esprimere un giudizio negativo sul candidato in questione si baserebbe esclusivamente su quell’episodio corruttivo, che in sede giudiziaria è stato ritenuto insussistente già in punto di fatto.
Ma vi è di più. Il valore assolutorio della sentenza non può essere maliziosamente rovesciato - come pretende Travaglio - appellandosi alla circostanza, certo sorprendente, che l’imprenditore presunto corruttore è stato per parte sua condannato. In realtà, di fronte a un simile pirandellismo giudiziario, come giurista non posso che rimanere senza parole. Lo scandalo logico-giuridico - che meriterebbe di figurare nel salone delle aberrazioni dei giuristi ironicamente illustrate da Rudolf von Jhering nel celeberrimo saggio su "serio e faceto nella giurisprudenza" - consiste in una insuperabile contraddizione che rende incomprensibile, specie agli occhi della gente comune, la sentenza emessa dal tribunale: la quale, nel medesimo tempo, considera uno stesso fatto «accaduto» riguardo al presunto corruttore e invece «non accaduto» riguardo al presunto corrotto. Conseguenza «obbligata» della sopravvenuta riforma del "giusto processo"? In ogni caso, dando per scontate la buona fede e la competenza dei giudici, una sentenza così singolare è il risultato di un ordinamento processuale ancora privo - purtroppo - dei necessari contrappesi e correttivi per garantire, senza vistose incongruenze, il primato del contraddittorio dibattimentale.

Ora, un giornalismo davvero critico
e amante della verità avrebbe dovuto, prima di sposare pregiudizialmente la tesi colpevolista, porre in questione la plausibilità intrinseca della condanna di una sola parte. E d’altronde, adottando il semplicismo riduttivo di Travaglio, non sarebbe altrettanto legittimo propendere per la inattendibilità delle accuse, con la conseguenza di escludere la verità del fatto per tutti i soggetti coinvolti? Ma questa propensione, più naturale per quanti privilegiano il principio della presunzione di non colpevolezza, è evidentemente estranea a chi - come appunto il nostro giornalista attaccante - mostra di essere insensibile ai valori della «moralità costituzionale». Li ha mai raccontati Travaglio i non pochi casi di imputati finiti in carcere sulla base di accuse mai confermate in dibattimento, e poi risultate clamorosamente menzognere?
Per dirla con sincerità, nutro il sospetto che il vero bersaglio polemico di Travaglio sia costituito, più che dalle primarie palermitane, dalla stessa riforma del "giusto processo" (per effetto della quale è impossibile condannare quando, come è avvenuto nella vicenda di cui discutiamo, l’accusatore si astiene dal confermare in dibattimento le precedenti accuse, avvalendosi della facoltà di non rispondere). Ma, a differenza di quanto verosimilmente pensa Travaglio, il contraddittorio dibattimentale è ben più di un lusso che facilita la difesa degli imputati, specie di quelli forti o eccellenti: come ha riconosciuto anche la Corte costituzionale, il principio del contraddittorio offre innanzitutto una "garanzia epistemica".

Detto in parole più semplici:
tale principio addita il metodo più sicuro e controllabile di ricostruzione della verità processuale. Piaccia o no, per il nostro diritto vigente è difficile concepire fatti «veri» fuori dalla verifica dibattimentale. È una grande conquista di civiltà giuridica. Anche al di là delle (discutibili) ragioni politiche contingenti, che hanno condotto alla riforma del "giusto processo". Riforma che, lungi dall’essere avversata, va perfezionata in vista di un più efficace bilanciamento di tutte le esigenze in gioco, proprio per evitare esiti giudiziari contraddittori.
A questo punto, la «tristezza» di Marco Travaglio è un sentimento che appartiene solo a lui. Non è con i suoi metodi superficiali e sbrigativi che si può dare un contributo al rinnovamento della politica, al miglioramento qualitativo della giustizia penale e alla salvaguardia delle libertà fondamentali dei cittadini. Per quanto mi concerne, mi è culturalmente estranea la logica che identifica il sospetto con l’anticamera della verità. E penso che questa logica sia un virus per una politica ispirata ai valori della liberal-democrazia. È un esasperato giustizialismo alla Travaglio che contribuirà a tenere Berlusconi al potere da qui ad alcuni decenni.

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Sì a Cocilovo

Giuseppe di Lello, ex magistrato e oggi eurodeputato di Rifondazione comunista spiega perché la sinistra deve appoggiare compatta il nome scelto dalla convention: «Basta col giustizialismo, sosteniamo Cocilovo»

di Carmelo Lopapa

La candidatura del tandem Cocilovo-Fiandaca va sostenuta. E una parte della sinistra non può tirarsi indietro dopo aver partecipato alla convention della coalizione. Anzi, una selezione della classe dirigente che parta dalla base è auspicabile adesso anche dentro i partiti, anche «dentro Rifondazione comunista, che è un partito nel movimento». Parla Giuseppe Di Lello, l’eurodeputato palermitano, ex giudice istruttore del pool antimafia, che del partito di Bertinotti è uno dei punti di riferimento. Lo fa alla vigilia della delicata decisione del suo partito sull’alleanza col centrosinistra in vista delle amministrative a Palermo. Lui non ha dubbi. E non solo per via dei buoni rapporti personali che da decenni lo legano al duo in corsa per Palazzo Comitini (Cocilovo adesso è anche suo collega al Parlamento europeo). A chi ha rispolverato un presunto caso giudiziario ricorda che «proprio al giustizialismo si devono le fortune elettorali di Berlusconi: è bene che la sinistra si riappropri del tema del garantismo improvvidamente lasciato alla destra».

Di Lello, Rifondazione comunista ha partecipato al voto delle primarie. Poi non si è riconosciuta nell’esito di quella consultazione. Condivide la scelta?

«Penso che l’esperienza della convention sia positiva, con i limiti che può avere un primo tentativo, in assenza di una esperienza alle spalle: si tratta di un primo passo, l’inizio di un percorso innovativo».

Resta il fatto che il suo partito ne ha disconosciuto l’esito.

«Sì ma questo scetticismo non rifletteva la totalità del partito. Io ad esempio non lo nutro affatto perché credo che, avendo accettato questo metodo di scelta dei candidati, poi se ne debba accettare anche l’epilogo. Bisogna tuttavia riflettere sul fatto che i movimenti che hanno voluto questo appuntamento poi in realtà non sono accorsi compatti. C’è stata discrepanza tra iscritti e votanti, ma questo perché lo schema è appunto da perfezionare. Credo quindi che un partito che sicuramente è "nel movimento" debba accettare la massima partecipazione possibile. Dirò di più: lo deve accettare anche nella selezione della sua classe dirigente».

I vertici del partito scelti con le primarie?

«Ma sì, altrimenti siamo al paradosso di usare metodi di scelta da centralismo democratico pur essendo inseriti in una realtà di movimento che ha come filosofia portante quella della rinuncia alla delega e dell’affermazione della massima partecipazione diretta».

Domani pomeriggio Rifondazione comunista consulterà la base e i movimenti per decidere se sostenere o meno Cocilovo.
«Tutti avranno la possibilità di esprimere il proprio orientamento in merito alla possibile alleanza col centrosinistra per le provinciali e in appoggio al binomio Cocilovo-Fiandaca».

Lei che pensa del ticket del centrosinistra?

«Nel merito di questa doppia candidatura ho già espresso la mia ammirazione per uno studioso del livello di Fiandaca che si offre alla guida della coalizione. Lo stesso apprezzamento in termini politici lo esprimo anche per Cocilovo. Come dimostra la sua storia sindacale, Luigi non ha mai sgomitato per prevalere. Parliamo di un uomo che, al contrario, ha sempre resistito alla prospettiva di ricoprire il suo ruolo naturale di successore di D’Antoni alla guida della Cisl».

Quella candidatura ha vacillato per le polemiche giudiziarie legate a un vecchio caso. Lei, da magistrato, che idea si è fatto?
«Le polemiche sulla candidatura di Cocilovo, sollevate in particolare dall’articolo di Marco Travaglio, meritano un chiarimento di fondo che attiene anche all’amministrazione della giustizia di questi anni. Innanzitutto, l’articolo di Travaglio omette di riferire qualche elemento più preciso sui protagonisti della vicenda».

Per esempio?
«Mi riferisco ai rapporti del pubblico ministero Angelo Giorgianni, che allora gestiva il caso, col pentito messinese Mollica. Su questo punto sarebbe bene rileggere la relazione della commissione parlamentare Antimafia sul caso Messina, da me quasi interamente preparata. » un documento a disposizione di tutti».

La sentenza ha assolto Cocilovo ma ha condannato l’imprenditore Mollica che in un primo tempo si era auto accusato di aver portato una tangente. Una contraddizione.

«Sull’apparente contradditorietà della sentenza andrebbero chieste spiegazioni ai giudici. E comunque io credo che non sia affatto aberrante l’assoluzione di Cocilovo, piuttosto lo è la condanna di Mollica. Tra l’altro questo processo si reggeva solo sulle dichiarazioni dell’imprenditore, rese al magistrato Giorgianni nel chiuso di una stanza. Deposizioni poi non confermate in dibattimento, dove la difesa, se ne avesse avuto la possibilità, avrebbe potuto smontarle pezzo per pezzo».

Insomma, il caso non esiste?

«Solo in sistemi giudiziari nazisti o stalinisti possono concepirsi condanne in assenza di un reale contraddittorio tra accusa e difesa. Come cittadino mi ritengo soddisfatto dell’assoluzione di Cocilovo perché è una riaffermazione delle regole di garanzia che sono sempre e comunque utili a tutti».

Non tutti, a sinistra, la pensano come lei.

«Sì, questo è un concetto che suona male alle orecchie di una parte della sinistra educata, o meglio maleducata da anni di giustizialismo. Quel giustizialismo cui, a mio parere, si deve una notevole parte delle fortune elettorali di Berlusconi e del centrodestra».

Come si guarisce dal giustizialismo?

«Per uscire da questo tunnel occorre che la sinistra si riappropri del tema del garantismo. Improvvidamente lasciato alla destra, che ne fa un uso «peloso». Se c’è una parte politica che dovrebbe mettere su un’associazione contro la «mala giustizia» questa dovrebbe essere la sinistra, che invece ha abbandonato il criterio di giudicare le singole sentenze. Di contro, ha abbracciato una difesa quasi fondamentalista della magistratura nel suo complesso».

Sta dicendo che la magistratura può e deve essere criticata?

«Solo avendo il coraggio di criticare i magistrati che sbagliano potremo rafforzare quelli che invece agiscono correttamente. Oggi i valori dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura non riscuotono grande apprezzamento in moltissima parte dell’opinione pubblica, sia di destra che di sinistra, proprio perché sono troppe le ingiustizie che si commettono quotidianamente e sulle quali scioccamente noi, a sinistra, non diciamo niente, per timore di delegittimare i giudici. Mi chiedo perché, per esempio, i lavoratori di Porto Marghera e familiari delle vittime morte di petrolchimico, o quelli della Breda di Sesto San Giovanni, dovrebbero battersi per l’indipendenza della magistratura dopo le allucinanti sentenza di assoluzione dei dirigenti accusati di omicidio colposo per i tanti morti da inquinamento nelle fabbriche».

Resta sullo sfondo un nodo politico. La probabile candidatura di un centrista della Casa delle libertà a Palermo lascia prospettare un confronto tra due ex dc. Non pensa che questo possa indisporre parte dell’elettorato di sinistra, a cominciare dal vostro?

«Purtroppo il contesto bipolare nel quale ci ritroviamo oggi ci costringe ad avere quasi sempre candidati moderati. Per superare questa situazione Rifondazione sta operando da molto tempo e sta puntando alla creazione di una sinistra alternativa. La prospettiva però non è di breve termine e nell’imminenza della battaglia per le elezioni provinciali sarebbe suicida fare la politica dello struzzo e non appoggiare il tandem Cocilovo-Fiandaca. L’intesa è una necessità, se non vogliamo essere tagliati fuori dal confronto politico».

Da Repubblica, pagine di Palermo, marzo 2003

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