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Mani pulite, anno zero

Perché cominciò, perché non si fermò.
Dieci anni dopo, i segreti di un’inchiesta che doveva cambiare l’Italia.
Mentre Tangentopoli è già ricominciata:
c’è un nuovo “mariuolo” a Torino,
centinaia di politici inquisiti,
un presidente del Consiglio sotto processo



Mani pulite è l’inchiesta giudiziaria avviata a Milano da Antonio Di Pietro con l’arresto di Mario Chiesa, il 17 febbraio 1992. Esattamente dieci anni fa. Che cosa è rimasto di quell’indagine? I materiali presentati in questa pagina sono ricavati dal libro “Mani pulite”, di Gianni Barbacetto, Peter Gomez e Marco Travaglio, che sarà presto in libreria.

Arrestato in flagrante, mentre incassava una tangente, un funzionario nel settore sanità; controllava un consistente pacchetto di tessere, messe a disposizione dei leader locali di un partito di governo: comincia così la storia di Mario Chiesa, socialista, collettore di voti per Bobo Craxi, presidente a Milano del Pio Albergo Trivulzio e imputato numero uno di Mani pulite, finito in manette il 17 febbraio 1992 per una tangente di 7 milioni. Ma comincia così, esattamente così, anche la storia di Luigi Odasso, di Forza Italia, presidente dell’ospedale torinese delle Molinette, portato in carcere il 19 dicembre 2001 per aver incassato una tangente di 15 milioni. Sono passati dieci anni dall’inizio dell’indagine giudiziaria che doveva cambiare tutto, ma accadono storie che si possono raccontare oggi con le stesse, identiche parole.
Se poi ci si guarda attorno, si trovano altre vicende, maledettamente simili a quelle che i giornali raccontavano – senza enfasi, per carità, niente titoloni in prima – tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta. Decine di amministratori sono sotto accusa per la gestione delle forniture sanitarie in Piemonte, Lombardia, Toscana, Campania, Calabria, Sicilia. Centinaia di sindaci, assessori e imprenditori in tutta Italia sono sotto inchiesta per come hanno trattato l’eterno business edilizio. Politici e dirigenti degli enti pubblici preposti al controllo del volo, intercettati dopo la sciagura di Linate, hanno svelato oggi le nuove spartizioni politiche e gli accordi d’affari.

E che dire della ripresa della spesa pubblica
nelle grandi opere? Le due leggi per far ripartire la costruzione di strade, ponti, trafori, acquedotti, ferrovie (la legge-delega sulle infrastrutture e il provvedimento sulle grandi opere collegato alla Finanziaria 2002) permettono che progettazione, finanziamento, esecuzione e perfino gestione delle opere siano di fatto affidate – come avviene nei Paesi del Terzo mondo – a un’unica impresa (il “general contractor”): così è appiattita la dinamica di mercato, persa la trasparenza e il controllo dei costi, così sono poste le basi strutturali per un nuovo sistema di spartizione e corruzione. In un mercato come quello italiano, ancora molto protetto, quasi chiuso alla concorrenza internazionale e povero di operatori (le imprese in grado di fungere da “general contractor” sono due o tre), è prevedibile che questi, in accordo con la politica, azzerino la concorrenza, si spartiscano il mercato e creino a cascata un sistema di appalti e subappalti precostituito e lottizzato. È la promessa di una nuova Tangentopoli. E questa volta con una magistratura priva della tranquillità ambientale e degli strumenti processuali necessari per far partire una nuova Mani pulite.
Raccontare quell’inchiesta, oggi, dieci anni dopo, diventa allora qualcosa di più che un appuntamento imposto dal calendario. Siamo tornati alla situazione degli anni Ottanta: con nuovi patti sotterranei tra la politica e gli affari; e nuove condizioni strutturali che potrebbero nutrire una nuova Tangentopoli. Ci sarà una reazione della società, uno scatto morale della politica, un effetto benefico dell’Europa? O ci vorrà, di nuovo, un intervento traumatico della magistratura? Ci sarà un nuovo Di Pietro? E i giudici riuscirebbero, questa volta, a ottenere risultati, a dimostrare che la legge è davvero uguale per tutti?

Quando cadde il muro di Bettino

In attesa di trovare risposte alle domande sul futuro, si può tentare di rispondere almeno a quelle sul passato. Come è nata Mani pulite? L’arresto di Mario Chiesa, d’accordo: un amministratore colto con le mani nella marmellata, quel 17 febbraio 1992. Ma poi? Poi ci sono voluti altri ingredienti. Una certa preparazione del magistrato che aveva avviato l’indagine: Antonio Di Pietro, snobbato dai colleghi per il suo linguaggio senza congiuntivi e i suoi modi da poliziotto, conosceva già bene il sistema della corruzione, per aver fatto altre inchieste (sulle patenti facili, sulle “carceri d’oro”, su Lombardia informatica, sulle tangenti Atm...). Lo aveva addirittura descritto, il sistema, un anno prima di pizzicare Mario Chiesa: nel numero del maggio 1991 di un piccolo mensile milanese, Società civile, aveva firmato un articolo in cui lanciava una formula destinata ad avere successo: “dazione ambientale”. Ricordava la distinzione, imposta dal codice penale, tra corrotto (il pubblico ufficiale che accetta la bustarella dall’imprenditore) e concussore (l’amministratore che la bustarella invece la pretende). Sosteneva però che questa distinzione è superata nei fatti: “Più che di corruzione o di concussione, si deve parlare di dazione ambientale, ovvero di una situazione oggettiva in cui chi deve dare il denaro non aspetta più nemmeno che gli venga richiesto; egli, ormai, sa che in quel determinato ambiente si usa dare la mazzetta o il pizzo e quindi si adegua”.

Un altro ingrediente: Di Pietro
, quando arresta Chiesa, sa già tutto sul personaggio. Conosce i suoi metodi, i suoi amici, i suoi conti in banca... Aveva infatti indagato, nel corso di un procedimento per diffamazione, su un personaggio molto vicino a Chiesa, Mario Sciannameo, impresario di pompe funebri che, guarda caso, aveva l’esclusiva dei funerali dei poveri vecchietti che morivano al Pio Albergo Trivulzio. Poi, per spiegare il successo di Di Pietro, bisogna tenere presente la sua abilità di zanzone (vedi) e la sua capacità di bluff (vedi). Ma tutto ciò, naturalmente, non basta. Bisogna considerare altre cosucce che si muovevano nell’aria, in quell’ormai lontano 1992. La crisi della politica, che già da qualche anno faceva allontanare i cittadini dai partiti tradizionali e crescere l’astensionismo o il voto per nuovi gruppi (dalla Lega di Umberto Bossi alla Rete di Leoluca Orlando). E la spesa pubblica fuori controllo, che stava portando l’Italia verso la bancarotta. “Il Paese viveva in una situazione di capitalismo senza mercato, secondo la formula che piaceva tanto a Gianni De Michelis”, spiega il giurista Guido Rossi. Lo Stato, insomma, non solo controllava una larga fetta dell’economia, ma spendeva, spendeva, perché ai partiti che lo avevano letteralmente occupato interessava – più che l’utilità delle opere realizzate e l’efficienza dei servizi prestati – mantenere il consenso e portare a casa le “provvigioni” (alias tangenti) che permettevano di pagare “i costi della politica” (e dei politici). Dall’altra parte, gli imprenditori grandi e piccoli si erano organizzati per vincere gli appalti spartendosi il mercato tra loro e pagando robuste mazzette ai partiti, evitando così i noiosi impicci della concorrenza e del libero mercato.

Eccola qua, allora, Tangentopoli:
non è solo il sistema delle tangenti (peraltro pesanti: 10 mila miliardi di lire l’anno, secondo i calcoli realizzati nel 1992 dall’economista Mario Deaglio); è, per le imprese, un sistema di accordi di cartello; e, per i partiti, un sistema di sperpero sistematico dei soldi pubblici. Risultato: il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo nel ’92 arriva al 118 per cento (per entrare in Europa l’Italia doveva stare sotto il 60). Insomma: il crac. Eravamo a un passo da una situazione argentina. Non poteva durare. E infatti quando un magistrato più abile e fortunato di altri dà la prima spallata, il castello di carte crolla. Cedono, uno dopo l’altro, gli amministratori, gli imprenditori, i politici. Come le tessere di un grande domino. Anche perché, nel frattempo, il mondo era cambiato: imploso il blocco sovietico, perdono forza i partiti che anche in Italia erano legittimati dall’uno o dall’altro dei due schieramenti. Saltano quelle reti di protezione (politiche, ma anche giudiziarie: avocazioni, porti delle nebbie e ammazzasentenze) che rendevano improcessabili i potenti.
E implode anche quella variante di capitalismo di Stato che era in mano ai boiardi del Caf (Craxi-Andreotti-Forlani). Cade il Muro di Berlino, ma anche il Muro di Bettino. Tutto ciò, per le vie insondabili della Storia, diventa diffusa insofferenza verso i partiti, voglia di cambiamento, tifo per i giudici, perfino giustizialismo (vedi): insomma, Mani pulite.


Quando gli imprenditori accusarono i politici

“Vede, Tangentopoli ha due protagonisti
, Gustavo Dandolo e Godevo Prendendolo...”. Così l’avvocato Giovanni Maria Flick, avvocato di tanti illustri imputati di Mani pulite e poi, nel 1996, ministro della Giustizia nel governo Prodi, spiega il rapporto che si era creato tra imprenditori e politici. È proprio spezzando il sodalizio e l’omertà tra i due soggetti della corruzione che Di Pietro e colleghi fanno decollare la loro inchiesta.
Il primo a crollare è stato un politico: Mario Chiesa. Che altro poteva fare? Era in cella da più di un mese. Attraversava un momento particolarmente difficile della sua vita personale. Di Pietro gli aveva individuato e sequestrato una dozzina di miliardi. Gli imprenditori che lo avevano foraggiato cominciavano a tradirlo. E perfino il suo partito, al quale aveva portato per anni voti e soldi, lo aveva abbandonato: lui, che sperava di diventare sindaco di Milano, era stato definito da Bettino Craxi un “mariuolo”. Così, il 23 marzo 1992, l’aspirante sindaco comincia a confessare le sue tangenti.
Il 22 aprile vengono arrestati otto imprenditori, i primi di una lunga serie: hanno lavorato per il Trivulzio, hanno pagato tangenti a Chiesa. Confessano quasi subito. Sono sollevati, alla fine, si sono liberati da un peso: non solo morale, ma anche economico. Mani pulite esplode. Tanti altri imprenditori corrono a raccontare le loro tangenti. Denunciano i cassieri segreti dei partiti, quelli che facevano il giro a raccogliere mazzette. Tra questi, il democristiano Maurizio Prada, presidente dell’Atm (l’azienda milanese dei trasporti), che fa compiere all’indagine una svolta: ma come, noi politici siamo diventati i cattivi, la gente applaude al nostro arresto; e loro, gli imprenditori, che fino a ieri ci correvano dietro per pagarci e vincere gli appalti senza fatica, ora fanno i concussi, i santerellini obbligati a pagare dai partiti malvagi? Ora li aggiusto io, avrà pensato. E ha cominciato a raccontare le tangenti gentilmente offerte da una azienda che, grande com’è, se avesse voluto, avrebbe certamente potuto non pagare: la Fiat.

Racconta, Prada, prima le mazzette pagate dai pesci piccoli.
Poi quelle di Enso Papi, il numero uno della numero uno tra le imprese edili italiane, la Cogefar (gruppo Fiat). Infine, nel febbraio 1993, racconta una cordiale colazione di lavoro in una saletta appartata del ristorante milanese Club 44, avvenuta nel maggio 1988: con lui, due altissimi dirigenti della Fiat, Antonio Mosconi (già vicepresidente della Cogefar e da due mesi amministratore delegato della Toro Assicurazioni) e Francesco Paolo Mattioli (presidente della Cogefar e direttore centrale finanziario della Fiat: sopra Mattioli c’è direttamente Cesare Romiti). “Sapevano perfettamente delle tangenti”, rivela Prada.
I giovani della Confindustria, riuniti a Santa Margherita, il 5 giugno 1992 avevano accolto e applaudito Di Pietro come una star: era l’uomo che li stava liberando di politici e amministratori corrotti ed esosi. Gianni Agnelli in quegli stessi giorni aveva detto dei magistrati: “Stanno lavorando. È bene che lo facciano serenamente e tranquillamente. Gli scandali, quando ci sono, è sempre bene che vengano a galla. Si faccia piena luce e si accertino i fatti. Non credo alla mezze misure, in certe situazioni è determinante la chiarezza totale”. Poi le inchieste proseguono e arrivano fino a Romiti, a De Benedetti, a Gardini, a Berlusconi... E dagli applausi si passa alle campagne di stampa contro i giudici.

Quando la Cia aiutò Mani pulite

In Italia i complotti piacciono. Non c’è da stupirsene, viste le “manine” e “manone” che hanno mosso la nostra storia recente. Anche Mani pulite è stata ed è interpretata – spesso e da sponde opposte – come il risultato di un complotto. Di “toghe rosse” all’opera per portare al potere i “comunisti”. Del “capitalismo” e della “finanza” per realizzare le privatizzazioni a basso costo. Dei servizi segreti, per guidare il cambiamento del sistema politico. A questo proposito, si può raccontare una storia accaduta tra il 1992 e il 1993 e che sembra dimostrare come Di Pietro e colleghi, più che essere aiutati e diretti dai servizi segreti, siano stati controllati e ostacolati.
Nel luglio 1992, un avvocato, Franco Sotgiu, si presenta nell’ufficio di Piercamillo Davigo dicendogli che un suo cliente, l’architetto Bruno De Mico (già coinvolto nell’inchiesta sulle “carceri d’oro”), ha importanti comunicazioni da fargli. Il magistrato si aspetta dichiarazioni a verbale su episodi di tangenti. Ma, dopo un appuntamento andato a vuoto, l’avvocato Sotgiu gli propone un luogo d’incontro alternativo, un appartamento: Davigo, prudente, lo esclude; non accetta alcun incontro sull’inchiesta fuori dai luoghi deputati, il palazzo di Giustizia, le caserme. Viene infine concordato un appuntamento presso la caserma dei carabinieri di via Moscova. De Mico finalmente arriva, ma rifiuta che le sue dichiarazioni siano messe a verbale: non riguardano l’inchiesta, dice, ma la sicurezza dei magistrati. E racconta. Prende spunto dall’arresto di Salvatore Ligresti, appena avvenuto, per mettere in guardia gli uomini del pool: Ligresti, costruttore siciliano potentissimo a Milano, è un personaggio di grande spessore e di altissima pericolosità, dice De Mico, ha rapporti segreti con ambienti criminali italoamericani. Ma proprio per questo, prosegue, vi sono altri “ambienti americani” che sono disponibili a dare una mano al pool, per garantire la sicurezza dei magistrati e per aiutare a riportare in Italia i latitanti di Mani pulite (in quel momento, il cassiere segreto di Craxi Silvano Larini). Quegli “ambienti americani”, continua De Mico, sarebbero entrati in azione dopo un segnale che provenisse dal pool: la partecipazione di un magistrato, preferibilmente Di Pietro, a Sixty Minutes, un noto programma trasmesso dal network televisivo statunitense Cbs.

Davigo è perplesso, sente odore di bruciato
in questa storia in cui sono evocate la mafia e la Cia: sa che la magistratura italiana non può avere rapporti con i servizi segreti. Sospetta un “trappolone”: che cosa succederebbe se qualcuno riuscisse a dimostrare che Mani pulite accetta di avvalersi di collaborazioni illegittime, vere o immaginarie, magari di 007 made in Usa?
Stende un rapporto per il procuratore Francesco Saverio Borrelli e poi apre un’indagine a carico di De Mico e di ignoti per il reato ipotizzato dall’articolo 246 del codice penale: spionaggio per conto di Stati stranieri. Le perplessità aumentano quando l’avvocato Sotgiu telefona a Davigo chiedendo un incontro immediato: “Le devo parlare, vengo a casa sua”. Il magistrato rifiuta e rilancia: “Se vuole, ci vediamo nel suo studio”. Anche questa volta Sotgiu rifiuta la verbalizzazione: Davigo allora se ne va, lasciando sul posto un capitano dei carabinieri, che come ufficiale di polizia giudiziaria può avvalersi di fonti confidenziali. In questo e in un ulteriore incontro con l’ufficiale, Sotgiu ribadisce per conto di De Mico la disponibilità di non meglio specificati “ambienti americani”, che sarebbero pronti a consegnare Larini al pool, purché non sia loro chiesto come Larini sia fatto arrivare in Italia: la proposta, par di capire, è quella di un rapimento stile 007. L’ufficiale, opportunamente istruito, non solo non offre garanzie d’impunità, ma anzi diffida apertamente dal compiere reati. Con questo, i rapporti si interrompono.
Nelle settimane seguenti, Borrelli, accompagnato dal procuratore generale Giulio Catelani, si reca al Quirinale, per informare della vicenda il presidente Oscar Luigi Scalfaro. È accolto con estrema cortesia e grande cordialità. Ma quando comincia a capire il motivo della visita, il presidente smorza progressivamente il suo sorriso e diventa via via più freddo, più distaccato; quasi brusco, al congedo: lascia intendere che la questione non è di sua competenza e che non ne vuole sapere. A un decennio di distanza, i magistrati del pool non hanno ancora maturato certezze su questa vicenda. Reale intromissione di agenzie straniere? Iniziativa personale di De Mico? O “trappolone”, come lo chiama Davigo, tentativo di far compiere qualche passo falso ai magistrati?

Circa un anno dopo, nell’autunno 1993
, la vicenda De Mico-Cia ha una seconda puntata. Protagonista, il giudice Guido Salvini, impegnato in quegli anni nella complessa indagine sull’eversione di destra che porterà a individuare e mandare sotto processo alcuni responsabili della strage di piazza Fontana. Il braccio destro di Salvini in quell’inchiesta, Massimo Giraudo, capitano del Ros (Raggruppamento operativo speciale) dei carabinieri, raccoglie le dichiarazioni di un personaggio dell’ambiente criminale ed eversivo, Biagio Pitarresi, il quale racconta di essere in contatto con un uomo della Cia in Italia, Carlo Rocchi, che gli ha chiesto di passargli informazioni sulle indagini di Salvini e Giraudo. I due verificano le affermazioni di Pitarresi: Rocchi lavora davvero per gli americani. Intercettano un suo rapporto sulle indagini inviato via fax a un ufficio dell’ambasciata Usa a Roma. Negli anni precedenti ha svolto missioni anche all’estero, in America Latina e in Corea, e tra l’altro è stato l’ultimo a vedere vivo il banchiere Michele Sindona, in carcere, prima della sua misteriosa morte per avvelenamento avvenuta il 22 marzo 1986. Rocchi, del resto, ha stretti contatti anche con il capocentro di Milano del Sisde (il servizio segreto civile italiano), tale “dottor Rinaldi”.

Ma Pitarresi riferisce anche altro:
Rocchi gli ha chiesto di attivarsi pure su Mani pulite. “L’ultimo favore richiestogli”, riporta un rapporto del Ros datato 17 dicembre 1993, “era stato quello di rintracciare il Larini prima che lo trovassero le forze di polizia italiane (...). In relazione a tale sollecitazione giunta al Pitarresi, si rappresenta che lo stesso, nel corso dell’ultimo colloquio, faceva presente che tra qualche mese sarebbe stata effettuata un’operazione di screditamento del dottor Di Pietro, basata su un servizio da esso prestato presso la polizia di Stato”.
Dalle telefonate intercettate, risulta che Rocchi è in contatto con l’architetto De Mico, che qualche mese prima aveva tentato di “agganciare” Davigo promettendogli, appunto, di “rintracciare” Larini. E proprio la fotocopia del passaporto di De Mico viene trovata durante una perquisizione degli uffici di Rocchi effettuata dagli uomini di Giraudo. Pitarresi racconta che Rocchi gli ha chiesto addirittura di organizzare un attentato a Gerardo D’Ambrosio. In seguito, un tentativo di azione contro il coordinatore del pool comunque ci sarà: il 14 aprile 1995 la scorta di D’Ambrosio metterà in fuga un misterioso personaggio appostato, con in mano un fucile, nel giardino di una scuola davanti all’abitazione del magistrato.

Quando Zaffra tradì l'amico Bettino

Loris Zaffra era l’uomo che doveva succedere
a Mario Chiesa. Ex sindacalista, socialista emergente, capogruppo del Psi al Comune di Milano, entra nel ristretto gruppo dei fedelissimi di Craxi e diventa il possibile candidato, dopo la caduta di Mario Chiesa, a diventare sindaco di Milano. Ma è anch’egli arrestato per tangenti, il 30 luglio 1992. Craxi e i dirigenti socialisti difendono strenuamente il loro compagno e rilasciano alla stampa dichiarazioni di fuoco contro i magistrati della Procura milanese: è la prima reazione organizzata contro Mani pulite, che raggiunge i toni più drammatici quando, nell’estate 1992, tre indagati si tolgono la vita.
Tra questi, il parlamentare socialista Sergio Moroni, che si uccide il 2 settembre nella sua casa di Brescia, dopo che gli erano già stati recapitati tre avvisi di garanzia. Prima della morte, invia al presidente della Camera Giorgio Napolitano una lettera in cui, ammettendo di aver avuto un ruolo nel sistema di finanziamenti illeciti che sostenta i partiti italiani, protesta contro ciò che gli sembra essere una decimazione casuale della classe politica: “Non è giusto che ciò avvenga attraverso un processo sommario e violento, per cui la ruota della fortuna assegna a singoli il compito di vittime sacrificali. (...) Non lo accetto nella serena coscienza di non aver mai personalmente approfittato di una lira. Ma quando la parola è flessibile, non resta che il gesto”.
Dopo quella drammatica estate, Zaffra, considerato un “irriducibile”, smentisce egli stesso il suo leader, confessando la sua partecipazione al sistema delle tangenti e concorrendo a determinare il secondo avviso di garanzia a Craxi. Non solo: in un’intervista a Marcella Andreoli su Panorama del 24 gennaio, Zaffra ricapitola la sua vicenda e ribalta sui compagni di partito l’accusa di aver emarginato gli indagati, anche quelli che poi si sono tolti la vita. Racconta: arrestato una prima volta, era uscito dal carcere senza aver parlato. “Venivo guardato come un essere strano, miracolato, proprio perché ero stato anche a San Vittore”.

Poi, la svolta: “Avevo l’impressione
di essere fuori dal mondo, di essere l’unico rimasto a presidiare un palazzo deserto, mi sono sentito in una trincea vuota. E dopo tanti giorni di carcere ho capito che stavo combattendo una battaglia persa in partenza. La reazione del sistema era assolutamente ipocrita. Aveva ragione il povero Sergio Moroni, quando nella sua lettera, scritta prima del suicidio, aveva parlato di “ruota della fortuna”: sei stato preso, peggio per te. Con Moroni ne avevamo discusso la scorsa estate. Aveva molto sofferto per il cordone sanitario che gli era stato fatto attorno. Tangentopoli ha messo a nudo, oltre al giro delle tangenti, la slealtà dei rapporti politici: sei stato arrestato? peccato per te, entri nel cesto delle mele marce. Gli altri, che con te hanno diviso errori e responsabilità, si girano dall’altra parte. Inaccettabile”.
Zaffra rifiuta anche la teoria craxiana del complotto: “Ero in carcere quando scrisse, ad agosto, quei tre famosi corsivi contro l’inchiesta Mani pulite e contro il giudice Di Pietro. Sbaglia. Non dovrebbe prendere scorciatoie e vedere complotti dietro l’angolo, giudici mossi da scopi politici. È vero, i magistrati possono abusare dello strumento della carcerazione preventiva, ma non estorcono false confessioni: alla fin fine l’imputato racconta la verità. Sarà amaro ammetterlo, ma è così”.

Quando Tangentopoli la fa Cosa nostra

Nell’autunno 1993 a casa del procuratore Borrelli
avviene un incontro tra i due pool giudiziari più amati (e temuti) d’Italia: quello di Milano e quello di Palermo. Sono presenti Di Pietro, Gherardo Colombo, Davigo. Arrivano dalla Sicilia il procuratore Gian Carlo Caselli con Roberto Scarpinato, Antonio Ingroia, Luigi Patronaggio. Il vertice ha lo scopo di mettere a confronto le esperienze delle due Procure: molti dei costruttori indagati e arrestati a Milano hanno cantieri aperti anche in Sicilia. La Lodigiani, la Cogefar del gruppo Fiat, la Calcestruzzi del gruppo Ferruzzi, la Grassetto di Ligresti, le cooperative rosse dell’Emilia-Romagna sono attive a Milano come a Palermo. E in Sicilia, mentre a Milano si sviluppa Mani pulite, è in corso una complicata indagine su mafia e appalti, che aveva scoperto la Tangentopoli siciliana: una torta da 1.000 miliardi, su cui vegliava Cosa nostra. A Palermo era chiamata “Tavulinu”: il tavolino a tre gambe a cui erano seduti gli imprenditori, i politici e gli uomini della mafia. È il colonnello Mario Mori, capo del Ros, che ne parla a Di Pietro, presentandogli i risultati del rapporto “Mafia e appalti” stilato già nel 1991 dal giovane capitano dei carabinieri Giuseppe De Donno. Dopo l’incontro con Mori, Di Pietro, accompagnato da De Donno, vola a Roma e il 12 novembre 1992 interroga in carcere Giuseppe Li Pera, rappresentante in Sicilia di una grande impresa edile friulana, la Rizzani De Eccher. Poi si mette all’opera: “Faccio opera di pubbliche relazioni con gli avvocati degli imprenditori che sono attivi sia a Milano sia in Sicilia”, racconta Di Pietro. “Sondo se è possibile avere aperture nelle due direzioni. E ottengo qualche risultato”. Milano-Palermo: indagini incrociate per due Tangentopoli gemelle.

Dieci anni dopo, gli entusiami per Mani pulite
del biennio 1992-93 sono completamente svaporati. Il tifo da stadio si è trasformato in indifferenza, o addirittura in ostilità. Riprendono però in tutta Italia le manifestazioni per la giustizia: a Firenze, a Milano, a Roma. E ancora a Milano, sabato 23 febbraio, al Palavobis, proprio per ricordare i dieci anni di Mani pulite.
Alla fine di questa storia, ecco un ultimo rivolo di quelle inchieste. È in corso a Milano un processo che vede accusati, per corruzione, due giudici, un imprenditore e il suo legale. I fatti risalgono a diversi anni fa: centinaia di milioni versati su conti esteri ai due giudici perché emettessero sentenze favorevoli all’imprenditore. La pubblica accusa ha in mano prove molto circostanziate e convincenti. Nel frattempo, però, l’imprenditore è divenuto, a furore di mezzo popolo, presidente del Consiglio. E mezzo mondo si chiede: se sarà condannato, che cosa farà Silvio Berlusconi? Accetterà la sentenza? Il presidente della Repubblica gli chiederà di dimettersi? O gli chiederà di tornare in Parlamento per la riconferma della fiducia? O, forse, il presidente del Consiglio, forte del mandato popolare, convocherà manifestazioni di piazza in suo favore e contro i giudici? Ne va del destino dell’Italia, non solo delle sue mani insaponate sotto il rubinetto.


L’ALFABETO DI MANI PULITE

Arresti. Tra il 1992 e il 1994, gli anni d’oro di Mani pulite, 70 Procure italiane hanno indagato 12 mila persone e realizzato 5 mila arresti. A Napoli il record: 554. A Milano, su 5 mila indagati, in dieci anni si sono avute 588 condanne davanti al giudice per l’udienza preliminare e 645 davanti al tribunale. Sono 1.471 le persone con processi ancora in corso. Tra le assoluzioni, moltissime sono quelle per prescrizione. Quelle nel merito, invece, sono solo il 14,5 per cento (la media italiana di assoluzioni è oltre il 20 per cento).

Bluff. Mani pulite non sarebbe neppure iniziata senza i bluff di Di Pietro. Prima forzatura: chiede al capitano dei carabinieri Roberto Zuliani, a cui si è affidato un piccolo imprenditore di Monza costretto a pagare tangenti a Chiesa, di compiere l’arresto proprio lunedì 17 febbraio, quando è di turno Di Pietro. Seconda forzatura: fa credere al suo capo, Borrelli, di essersi dimenticato di depositare gli atti in tempo per celebrare il processo per direttissima a Chiesa, per la sola tangentina di 7 milioni; così intanto prosegue le indagini. Terza forzatura: fa credere a Chiesa che gli imprenditori stanno confessando e agli imprenditori che sta parlando Chiesa; risultato, parlano tutti. Più volte i magistrati del pool fanno credere agli avvocati di sapere più di quanto sanno. Esito: molti indagati si precipitano a confessare, prima di essere accompagnati a San Vittore. Qualche volta il bluff non riesce: nel 1993, per esempio, dopo avere indagato a tempo pieno per due mesi su Primo Greganti e le “tangenti rosse”, fanno credere di essere arrivati a un passo da Achille Occhetto e Massimo D’Alema, segretario e vicesegretario del Pds. Gli avvocati si muovono, ma questa volta nessuno abbocca.

Calzino. Davigo vorrebbe rivoltare l’Italia come un calzino. Lo abbiamo letto mille volte. Ma lo ha detto veramente? Tutto nasce dopo l’arresto, il 25 luglio 1994, del responsabile dei servizi fiscali della Fininvest, Salvatore Sciascia, per le tangenti pagate alla Guardia di finanza. “Chi l’ha autorizzata a pagare?”, gli domanda Di Pietro. “Paolo Berlusconi”, risponde Sciascia. Dopo questa confessione, Paolo Berlusconi diventa un ricercato e un latitante. L’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni dichiara: “Se avessi un fratello latitante gli direi di consegnarsi subito, ma per fortuna ho una sorella veterinaria”. E il ministro della Giustizia Alfredo Biondi: “Berlusconi deve decidere secondo il senso dello Stato. Lo stato di famiglia è un’altra cosa...”. Giuliano Ferrara, allora ministro dei Rapporti con il Parlamento, dice: “Il governo non ha fratelli, ma non possiamo consentire che rovescino come un calzino tutto, dalla bottega dell’artigiano a grandi corporation come la Fininvest e la Fiat”. È a questo punto che Davigo ribatte: “Ma in quale Paese un ministro potrebbe accusare i magistrati di rivoltare la nazione come un calzino?”. Da quel giorno, grazie a un’abile campagna mediatica, Davigo passerà alla storia come il pm che voleva “rovesciare l’Italia come un calzino”.

Fiorino. Il 29 luglio 1994 Paolo Berlusconi si consegna a Di Pietro e ammette di aver autorizzato le tangenti alla Finanza. Fa scudo al fratello Silvio: “Sciascia”, assicura, “dipendeva soltanto da me”. Di Pietro, allora, gli mostra un documento: una donazione di 500 milioni a Sciascia elargita nel 1988 da Silvio: “Lei ne sapeva niente?”. “No”. “E allora vede che lei non conta niente?”. Paolo, a quel punto, deve ammettere che per le questioni strategiche tutti, nel gruppo, fanno capo a Silvio. E ottiene gli arresti domiciliari, lasciando il palazzo di Giustizia da un’uscita secondaria, nascosto nel bagagliaio di un furgoncino: un Fiat Fiorino beige
.
Giustizialismo. Oggi sono tutti contro il “giustizialismo” (definizione sbagliata: il giustizialismo è quello di Peron). Ieri, invece, i deputati della Lega agitavano il cappio in Parlamento (Luca Leoni Orsenigo, 16 marzo 1993). Quelli dell’Msi, non ancora An, il 1 aprile 1993 assediavano la Camera e ne bloccavano per 50 minuti gli ingressi, tirando monete con le fionde. Erano giovani camerati che indossavano una maglietta con la scritta: “Siete circondati, arrendetevi”. Ed erano guidati dai seguenti parlamentari, che il ministero dell’Interno segnalò e censurò: Buontempo, Nania, Maceratini, Rositani, Martinazzo, Pasetto, Matteoli, Poli Bortone, Gasparri.

Mela marcia
. Così erano definiti, dai vertici dei loro partiti, Mario Chiesa e i primi politici inquisiti. Racconta Piercamillo Davigo: “Un indagato in carcere mi chiese: “Che cosa hanno scritto del mio arresto?”. Io gli diedi i giornali che avevo sotto braccio, in cui era stato qualificato dai suoi dirigenti “una isolata mela marcia”. Subito mi disse: “A sì? Adesso, dottore, le descrivo il resto del cestino”.

Zanzone. “Zanza”, a Milano, è il piccolo malavitoso furbo. E “Zanzone” viene chiamato Di Pietro da alcuni cronisti giudiziari per le sue furbizie. Esempio. Quando viene arrestato Roberto Mongini, democristiano, vicepresidente della Sea (l’azienda che gestisce gli aeroporti milanesi), Davigo e Colombo si dannano l’anima per convincerlo a confessare le sue tangenti, ma Mongini resta a San Vittore zitto per 16 giorni. Una sera, i tre del pool hanno un invito da amici. Colombo e Davigo arrivano puntuali. Di Pietro si fa vivo solo verso mezzanotte, con un gran sorriso sornione sulle labbra. Dice ai colleghi: “Piercamillo, mi devi pagare da bere: sai, sono passato per caso da San Vittore. Mongini collabora”. Poi spiega il metodo usato: “Ho preso quattro faldoni a caso pieni di documenti, sono entrato in cella e gli ho detto: veda un po’ di fare i suoi conti. Lui ha guardato i faldoni e poi ha cominciato a parlare”. È un esempio del “metodo Di Pietro”, insuperabile negli interrogatori, fatto di piccole astuzie ma anche di grande capacità di porre le domande giuste, di intuito, di abilità a entrare in sintonia con l’indagato. Con il procedere dell’inchiesta e del sostegno entusiastico di massa al magistrato simbolo di Mani pulite, confessare a Di Pietro diventa poi un titolo di merito: gli indagati vogliono confessare a lui e solo a lui. Per questa sua capacità psicologica di far collaborare gli indagati viene chiamato anche “la Madonna”. Molti indagati, in quei mesi, vedono “la Madonna” e parlano.

(gianni barbacetto, da «diario della settimana»)

Tangentopoli 2004

La corruzione è finita, le tangenti non ci sono più. Davvero? Leggete qui...

di Gianni Barbacetto

A Milano – la città in cui è nata Mani pulite, la metropoli delle 1.408 condanne definitive per corruzione, concussione, finanziamenti illeciti ai partiti e relativi falsi in bilancio aziendali – il sistema delle tangenti continua come prima. Le dimostrano anche le tante inchieste giudiziarie in corso (che pure oggi sono molto più difficili da avviare e da concludere). Sotto indagine sono le forniture alla sanità e alle mense scolastiche, ma anche i lavori pubblici e le concessioni edilizie. Protagonisti, come nella vecchia Tangentopoli, imprenditori, funzionari e politici. Coinvolti, tutti i livelli amministrativi locali, il Comune, la Provincia, la Regione.

Per corruzione è già stato condannato, per esempio, il presidente del Consiglio comunale, Massimo De Carolis, ex democristiano ora in Forza Italia, che in cambio di denaro aveva passato a un’impresa la lista delle aziende in gara per realizzare un depuratore a Milano; arrestato e processato, per irregolarità urbanistiche, anche il consigliere comunale di Forza Italia Giovanni Terzi; una sentenza di condanna pesa anche sulle spalle di Claudio Fanchin, consigliere provinciale, sempre di Forza Italia, filmato mentre chiede una mazzetta a un imprenditore che voleva realizzare un centro commerciale; in Regione, tra gli altri, sotto indagine per varie inchieste sono finiti il consigliere Luca Guarischi, gli assessori Giancarlo Abelli e Milena Bertani e perfino il presidente in persona, Roberto Formigoni (tutti di Forza Italia, tranne Bertani, del Cdu).

Oggi gli indagati sono in maggioranza, oltre che imprenditori, funzionari e impiegati delle pubbliche amministrazioni, anche se non mancano i politici. Come nella vecchia Tangentopoli scoperta proprio a Milano nel 1992. Qualche differenza, però, balza agli occhi.

Condannati, riciclati, promossi

Oggi gli indagati e perfino i condannati non pagano alcun prezzo politico, non ricevono alcun contraccolpo d’immagine davanti all’opinione pubblica, né tantomeno sono emarginati dai loro partiti. Anzi: spesso fanno carriera, magari con la forza che deriva loro dalla conoscenza di dinamiche e fatti interni al partito. Esemplari a questo proposito sono le storie di due esponenti di Forza Italia, Gianstefano Frigerio e Claudio Fanchin.
La più istruttiva, forse, delle nuove vicende di tangenti milanesi inizia il 2 marzo 2001, quando viene arrestato Claudio Fanchin, 46 anni, ex assessore democristiano all’Edilizia del Comune di Limbiate, ex assessore ai Lavori pubblici del Comune di Opera, consigliere provinciale di Forza Italia, presidente della Commissione ambiente, membro della Commissione edilizia e territorio e della Commissione di studio sulla criminalità. L’arresto scatta perché Fanchin viene addirittura filmato mentre chiede 360 milioni di lire come tangente a un imprenditore, Mario Paolo Gargantini, che dal 1996 attendeva di poter costruire un centro commerciale di 18 mila metri quadrati su un suo terreno di 32 mila metri a Bellinzago Lombardo. Le autorizzazioni non erano arrivate, e invece era arrivata la richiesta di una mazzetta.

Allora Gargantini era andato in procura a raccontare la vicenda e il pubblico ministero Paolo Ielo aveva chiesto alla Guardia di finanza di svolgere le indagini. Alle 13.30 del 13 febbraio 2001 è avvenuto l’incontro decisivo tra Fanchin e Gargantini: al ristorante Altopascio di via Fara, a Milano. Ma un microfono nascosto e una telecamera hanno registrato tutto. Tra un piatto e l’altro, Fanchin chiede che l’imprenditore venda a un’agenzia immobiliare di sua fiducia (la “Oltre il 2000”), per 9 miliardi di lire, il terreno su cui avrebbe dovuto sorgere il centro commerciale. E in più pretende una “commissione” del 4 per cento sui 9 miliardi, ovvero 360 milioni di lire. Da dividere così: il 3 per cento all’agenzia, l’1 per cento a "qualcuno da conoscere", "per pagare un po’ di spese" del centro culturale Associazione Terzo Millennio, presieduto dallo stesso Fanchin. "E se non accetto?", chiede Gargantini. "Peggio per te, gli organi competenti faranno melina... manca il pezzo di carta... manca questo, manca quello...". E il tuo terreno resterà comunque inutilizzabile perché, dice chiaro Fanchin, non sarà mai rilasciato il nulla osta necessario.

Sentita la registrazione, visto il film dell’incontro, scattano gli arresti domiciliari per Fanchin, per l’amministratore dell’agenzia candidata, Franco Moretti, e per sua moglie Franca Vimercati. Accusa contestata a Fanchin: concussione, per aver abusato della sua carica di consigliere della Provincia di Milano, che ha un rappresentante nella Conferenza dei servizi che decide le destinazioni d’uso dei terreni. "La vicenda sembra non avere nulla di politico", commenta subito Luigi Cocchiaro, capogruppo di Forza Italia alla Provincia. "Sono sorpresa", si limita a dire il presidente della Provincia, Ombretta Colli. Opposto il giudizio del procuratore Gerardo D’Ambrosio: "La corruzione continua".
Nel maggio 2002 il tribunale conclude il processo ed emette la sentenza: riconosce Fanchin colpevole di concussione e lo condanna, con la condizionale, a 2 anni di carcere. Alla stessa pena è condannato Moretti, mentre sua moglie è assolta. La condanna a Fanchin è leggera, confrontata con le richieste del pubblco ministero Ielo (3 anni e 3 mesi), ma comunque sufficiente a far scattare la sospensione dalla carica, così come prevede il testo unico della pubblica amministrazione per gli eletti nelle assemblee locali (Comuni, Province, Regioni) che ricevano una condanna, anche solo in primo grado.
Fanchin decide di opporsi alla sospensione. Il suo avvocato, Luca Ricci, dichiara: "Ritenevamo d’aver dimostrato che il comportamento di Fanchin fosse pienamente lecito, che il suo interesse per la vicenda fosse solo politico". Ma ad agosto il prefetto di Milano, come vuole la legge, chiede alla Provincia la sospensione del consigliere di Forza Italia. A questo punto succede un fatto nuovo: Fanchin si oppone, sostenendo la curiosa tesi che la sospensione è obbligatoria solo se la concussione si è consumata con la consegna dei soldi, mentre nel suo caso è solo "tentata". Il consiglio provinciale, sollevato, a settembre approva: per la prima volta nella storia respinge la richiesta del prefetto, autorità di governo, e mantiene in carica il condannato.

In appello, nel marzo 2003, la procura generale chiede un aumento della pena a 3 anni. La Corte decide invece di ridurla e infligge a Fanchin 1 anno, ma comunque conferma la condanna per lui e per il coimputato Moretti (1 anno) e addirittura ritiene colpevole anche sua moglie Franca Vimercati (10 mesi) che era stata invece assolta in primo grado. Infligge a Fanchin anche un risarcimento. Risultato finale: Fanchin, in mancanza di sanzioni politiche da parte del suo partito e della sospensione della sua assemblea elettiva, resta in pista, felicemente attivo in politica e, contro la legge, rimane anche membro nel consiglio provinciale.

Come spiegare la “resistenza” di Fanchin e il sostegno che ha trovato nel consiglio provinciale? Il pubblico ministero ha dato, nel processo, una sua spiegazione: "Le tangenti finivano anche al partito", sostiene Paolo Ielo, "una parte dei soldi andava nelle casse della corrente di Fanchin dentro Forza Italia". Cioè l’Associazione Terzo Millennio, da considerare "l’articolazione locale di un partito politico", "sorretta economicamente, quanto a pagamento di affitti e altre spese, da erogazioni provenienti in nero da società riconducibili a Moretti". Insomma: il politico girava gli affari agli amici di “Oltre il 2000”, i quali pensavano a finanziare la sua attività.

L’Associazione Terzo Millennio, con Fanchin presidente e sede a Milano in corso Buenos Aires, è il quartier generale di un gruppo di esponenti di Forza Italia provenienti dalla Dc: tra loro spicca Angelo Giammario, un consigliere comunale azzurro entrato in rotta di collisione con il sindaco di Milano Gabriele Albertini. Il nume tutelare di questa informale, ma molto attiva corrente di partito è però un altro personaggio, che proviene direttamente dalla Tangentopoli della prima Repubblica: Gianstefano Frigerio.

L’importanza di chiamarsi Carlo

Frigerio è un democristiano a 24 carati, dirigente del partito fin dagli anni Ottanta, ex tesoriere della Dc lombarda che, dopo aver confessato al pool Mani pulite di aver ricevuto, fino al 1992, finanziamenti illeciti per decine di miliardi da alcuni imprenditori (tra cui Paolo Berlusconi), si è perfettamente riciclato, tanto da diventare uno degli strateghi di Forza Italia, di cui è diventato responsabile dell’Ufficio studi e ricerche.
Scapolo, ex sindaco di Cernusco, molto legato ad Arnoldo Forlani, regista del patto di ferro in Lombardia tra Dc e Psi, Frigerio era chiamato "il Professore". Il suo ufficio acchiappamazzette di via Nirone, a Milano, fu uno dei principali indirizzi della Tangentopoli 1992, almeno alla pari con piazza Duomo 19, luogo di consegna delle tangenti di Bettino Craxi. Le sue passioni: tradurre Sant’Agostino, pranzare al Savini, prendere un aereo per vedere una mostra a New York. "Famoso era il suo weekend lungo", ha scritto di lui l’ex tangentista Roberto Mongini, "dal venerdì al lunedì, il Professore era regolarmente a Santa Margherita a rilassarsi".

Poi arrivò Mani pulite e il Professore fu uno dei primi politici milanesi inquisiti dai magistrati milanesi. Fu arrestato la prima volta, per le tangenti sugli appalti ferroviari, il 6 maggio 1992, davanti all’Hotel d’Inghilterra, a Roma. Solo due giorni prima aveva proposto d’abolire il finanziamento pubblico ai partiti e l’immunità parlamentare per i reati contro la pubblica amministrazione. Aveva anche scritto un decalogo per la politica trasparente e proposto di privatizzare le aziende regionali e comunali: "per prevenire la corruzione". Per corruzione passò tre mesi fra il carcere di San Vittore e gli arresti domiciliari a Cernusco sul Naviglio. Fu infatti arrestato una seconda volta cinque mesi dopo, per le mazzette sul piano discariche della Regione Lombardia. Nel 1993 fu arrestato la terza volta, accusato d’aver intascato mazzette per un depuratore a Monza. Il Professore collaborò: le sue prime confessioni sono del luglio 1992: confermò il suo ruolo di “collettore”, cioè di cassiere dei contributi in nero versati dalle imprese alla Dc per gli affari di livello regionale. "Il fabbisogno economico del partito in Lombardia", dichiarò, "era di circa 20-25 milioni di lire al mese, ma in occasione di competizioni elettorali aumentava attorno ai due miliardi".

La sua eclissi politica non durò a lungo. La leggenda fondativa di Forza Italia racconta che un bel giorno Sergio Roncucci, ex assessore comunista dell’hinterland milanese assoldato da Berlusconi fin dai tempi delle prime speculazioni edilizie, lo chiama: al nuovo partito che sta per nascere serve un consigliere politico. Frigerio partecipa così alla fondazione di Forza Italia, anche se non compare mai: "Però sapevamo tutti", testimonia uno della prima ora, "che era fra i più ascoltati dal Cavaliere, che aveva facile accesso ad Arcore". Con Pino Leccisi, è Frigerio a scrivere il primo statuto del partito, benché non abbia alcun incarico ufficiale. Quando i cronisti lo riconoscono tra il pubblico di una convention forzista, nel 1995, spiega: "Sono qui per conto mio...". Invece il Professore diventa presto responsabile del Centro studi di Forza Italia.

Ma il suo passato lo insegue. Le sue ammissioni ai magistrati, pur giudicate nelle sentenze "limitative" e "minimizzatrici", gli costano una decina di processi. In alcuni (Montedison e appalti Enel) se l’è cavata con la prescrizione. In altri (Fiera-Portello) si è rifiutato di confermare in aula le proprie confessioni, provocando così, grazie alla riforma costituzionale del cosiddetto "giusto processo", l’assoluzione degli imprenditori che egli stesso aveva chiamato in causa. Ma in tre casi non c’è stato niente da fare: tre dei suoi processi si sono conclusi con tre sentenze di colpevolezza, in primo grado, in appello, in Cassazione. La suprema Corte ha infatti confermato in via definitiva tre condanne: 1 anno e 4 mesi per finanziamenti illeciti alla Dc; 1 anno e 7 mesi per per finanziamenti illeciti e ricettazione dei fondi neri al partito; 3 anni e 9 mesi per corruzione e concussione per i circa 10 miliardi di tangenti versati dalle aziende private che nel 1990 ottenero il permesso di aprire nove maxi-discariche in Lombardia.

È in quest’ultimo processo che Frigerio è stato giudicato colpevole, tra l’altro, di aver incassato un finanziamento illecito di 150 milioni da Paolo Berlusconi. Per un’altra discarica è stato condannato per concussione, cioè per aver addirittura “estorto” 1 miliardo a un compagno di partito, il conte Carlo Radice Fossati, che si era impegnato in politica con intenti moralizzatori ed era diventato rivale di Frigerio nella Dc. La giunta regionale di Formigoni ha poi dato una mano a Frigerio, rinunciando (tra le dure critiche dell’ex magistrato Antonio Di Pietro) a chiedergli i danni in sede penale e accontentandosi di 30 milioni di “transazione”.

Nel 1994, con la nascita di Forza Italia, Frigerio diventa dunque uno dei consiglieri di Silvio Berlusconi. E alle elezioni politiche del 13 maggio 2001 è candidato nella lista proporzionale di Forza Italia, ma lontano dai luoghi dove per anni aveva fatto politica e raccolto tangenti: in Puglia, e con il secondo nome di Carlo. Carlo Frigerio risulta infine eletto alla Camera. Eppure era già stato condannato a pene definitive ed era solo in attesa che il giudice facesse la somma delle condanne ricevute per determinare la pena definitiva. Oltretutto aveva ricevuto, come pena accessoria, l’interdizione dai pubblici uffici, che impedirebbe al condannato di essere eletto. Eppure Forza Italia lo ha messo in lista: ha fatto eleggere un uomo in attesa di entrare in carcere.

Il giudice termina i suoi conti nel maggio 2001 e gli invia l’ordine di carcerazione: 6 anni e 6 mesi. Frigerio è da due giorni entrato in Parlamento come deputato della Repubblica. Ma non c’è discussione: l’articolo 68 della Costituzione, che stabilisce le tutele per i parlamentari e limita le possibilità di arresto per senatori e deputati, fa espressa eccezione ("salvi i casi...") per le "sentenze irrevocabili di condanna". Così Frigerio, che aveva atteso all’estero i risultati elettorali, si presenta all’ospedale San Raffaele, chiedendo il ricovero nel reparto Oculistica: un rientro concordato con i carabinieri, che il 28 maggio avevano ricevuto l’ordine di carcerazione firmato dal sostituto procuratore generale Edmondo Bruti Liberati.

"Come volevasi dimostrare. Primo giorno del nuovo Parlamento e primo arresto": così commenta Antonio Di Pietro. Gaetano Pecorella, deputato di Forza Italia e avvocato di Berlusconi, reagisce: "Constato la coincidenza con l’apertura del Parlamento... Certamente la condanna era già definitiva prima delle elezioni, ma Frigerio non è la prima persona condannata o imputata di gravi reati che, nella storia della giustizia italiana, è stata candidata o eletta in Parlamento: c’è prima di lui Pietro Valpreda, accusato di strage, o Toni Negri, accusato di omicidio. Insomma, è già accaduto che, se si ritiene che imputazioni e condanne derivino da eccessi della magistratura, si candidino queste persone, per salvarli da una sentenza ingiusta". Reagisce Di Pietro: "La colpa non è dei giudici, ma di coloro che, proprio perché devono rispondere dei loro comportamenti davanti alla giustizia, hanno scelto la via più breve e più facile: quella di andare a ripararsi in Parlamento".

Nel luglio a Frigerio vengono concessi gli arresti domiciliari, nella sua casa di Cernusco sul Naviglio. Nel novembre 2002, infine, il carcere si allontana definitivamente: i suoi avvocati chiedono il “ricalcolo della pena” (cioè la riunificazione delle tre sentenze, con la sottrazione del carcere preventivo già scontato nel 1992); così la condanna “eseguibile” scende sotto i 4 anni, permettendo di accedere all’affidamento ai servizi sociali.

Il giudice di sorveglianza Maria Grazia Moi lo autorizza infine anche a rientrare alla Camera. Gli viene concesso infatti di scontare la condanna fuori dalla cella, con una pena alternativa al carcere, come permesso dalla legge Gozzini: con un lavoro che lo rieduchi. Quale lavoro? Quello di parlamentare. Fare il deputato diventa così, per la prima volta, una forma di recupero, la Camera diviene luogo di rieducazione. Ma a piccole dosi (per ragioni tecnico-processuali, non per l’alto numero di inquisiti e condannati presenti): nell’aula di Montecitorio gli sono permessi soltanto quattro giorni al mese.

Quando la tangente non serve

Una seconda differenza con la Tangentopoli classica è che oggi, in alcuni casi, gli imprenditori non hanno più bisogno di pagare tangenti per ottenere favoritismi. Il sistema è diventato, in qualche modo, automatico. Lo dimostra la vicenda delle forniture alla sanità lombarda. Nomine pilotate e appalti truccati: questo è il quadro emerso dall’inchiesta della procura di Milano. Senza il bisogno di sborsare mazzette. Il sistema sanitario è gestito non tanto per offrire un servizio ai cittadini, quanto per arricchire gli “amici” imprenditori. Nomine lottizzate politicamente, come ai vecchi tempi, e nuovi manager privati che, al pari dei vecchi amministratori pubblici, sostengono le lottizzazioni e truccano gli appalti.

Al centro della vicenda, seguita dai sostituti procuratori Francesco Prete e Sandro Raimondi, c’è l’imprenditore Franco Maggiorelli, titolare di un paio di ditte di informatica, la Easycard e la Htl. Secondo l’accusa, una serie di contratti per un valore complessivo di circa mezzo miliardo sono stati pilotati, falsificando atti pubblici, da manager sanitari come Antonio Mobilia, numero uno dell’Asl di Milano, Vito Corrao, del Fatebenefratelli, Pietro Caltagirone, massimo dirigente prima dell’Usl 36 e poi dell’ospedale di Niguarda, indagato insieme al suo ex vice Luigi Sanfilippo. Ma le intercettazioni realizzate dai carabinieri sollevano pesanti sospetti sull’intero sistema sanitario, dalle nomine decise dalla Regione alle forniture per Asl e ospedali.
"Allora, non è ancora fatta?", chiede al telefono Maggiorelli, che da un mese si sta dando da fare per far nominare l’amico Corrao al Fetebenefratelli. Gli risponde Caltagirone: "No, ma la fanno... Borsani lo ha già chiamato". Maggiorelli: "Mi raccomando!". Caltagirone: "Tranquillo!". Il Borsani citato è l’assessore regionale alla Sanità, di An. Alla vigilia della nomina, Maggiorelli è preccupato: teme che possa essere nominato "uno pesantissimo, di sinistra, un uomo di Boioli... Bisogna dirlo a Fabio, è importante". Caltagirone risponde: "Va bene". Il giorno dopo il pericolo è scampato: la giunta regionale nomina Vito Corrao. E Maggiorelli, al ritorno da una vacanza a Santo Domingo, esulta con parole che i carabinieri definiscono "linguaggio in codice": "Hai visto che il mio amico ce l’ha fatta?". Il suo interlocutore, giocando con le parole (Vito e vita) risponde cantando: "Sì, sì, vita, ohi vita mia!!". E Maggiorelli: "Esatto, vita mia, ohi sole...".

I manager sanitari erano consapevoli di violare la legge. Un collaboratore di Mobilia chiede a Sanfilippo: "Se magari per caso mi puoi mandare uno schema di delibera sull’auditing". E Sanfilippo replica: "Sì, però mi devi fare una cortesia: te le spennelli tu, perché io ho sentore di qualche inchiesta". Risposta: "Lo trincio subito". Con altri imprenditori, Maggiorelli arriva a essere esplicito. Su un appalto per "1 miliardo e 2 in tre anni", assicura: "La gara è pubblica, ma ce l’ho già in mano... e ho informazioni da girarti". A un altro collega rivela: "Stamattina con Calta ho visto il libro della sanità, quello che l’assessore ha mandato... Sposa tutto con quello che noi abbiamo in testa di fare".

Vito Corrao, manager del Fatebenefratelli, dopo lo scoppio dello scandalo accetta di rispondere ai magistrati. Dove fu decisa la nomina del direttore generale del Fatebenefratelli? Risposta (serissima): "Al ristorante" e in altri "incontri conviviali", grazie all’"interessamento imprenditore". E come poteva un privato interferire nelle imparziali scelte pubbliche della giunta Formigoni? "Non posso negare che abbia parlato bene di me a uomini politici nell’orbita della Regione Lombardia", confessa Corrao. E perché proprio quell’imprenditore in seguito ha vinto l’appalto per i computer dell’ospedale? "È andata così: l’amministrazione dell’ospedale mi disse che bisognava fare una gara con almeno tre imprese. Quindi chiesi a lui di procurare altre due offerte di società concorrenti, che recavano un preventivo più alto del suo". Non sono accuse dei magistrati né di “pentiti”: sono parole messe a verbale dallo stesso numero uno del Fatebenefratelli, indagato per gli appalti pilotati insieme al suo "caro amico Pietro Caltagirone del Niguarda".

Avevano fatto anche abusi e atti falsi, per favorire l’imprenditore Franco Maggiorelli. Un metodo era quello di frazionare artificiosamente gli appalti, per scendere sotto i 100 milioni di lire e poter ricorrere alla trattativa privata. Ma anche in questo caso bisogna invitare alla gare altre due ditte. Corrao se ne accorge in ritardo, "essendo poco esperto", si giustifica, "di procedure amministrative" (cioè del suo mestiere). Risolve il problema chiedendo allo stesso "imprenditore amico" destinato a vincere di procurargli altre due offerte. Poi Corrao si incarica di "attestare falsamente", ammette, "di aver invitato" anche i perdenti. Lo confermano i diretti interessati: "Non abbiamo mai ricevuto inviti". E i preventivi? "Sono finti". Anche Maggiorelli, intercettato dai carabinieri, dice: "Sto preparando gli altri due cosi che servono". Secondo l’accusa, i favori a Maggiorelli si spiegano con la sua influenza sulle nomine. Corrao lo ammette: fu l’imprenditore, "in pranzi e cene", a dirgli che "si sarebbe interessato". I nomi dei politici "contattati", i carabinieri li ricavano da un mese di intercettazioni sui retroscena delle nomine: "C’è una lotta al coltello...".

Le indiscrezioni più attese, Maggiorelli le ottiene da Giancarlo Abelli, il superconsulente sanitario di Formigoni (indagato e poi prosciolto per aver ricevuto 70 milioni da Giuseppe Poggi Longostrevi, il gran corruttore della sanità lombarda: il processo per i “regali” di Longostrevi ai medici si è concluso con 175 condanne). Con Abelli, Maggiorelli si preoccupa: "Al Fatebene ci va Campari?". Abelli: "No". Maggiorelli: "E quello del Sancarlus me lo fai incontrare?". Abelli: "Ah sì, quello devo firmarlo la settimana prossima".

Il gip Luisa Savoia ha infine rinviato a giudizio l’imprenditore Maggiorelli e i manager della sanità Caltagirone, Corrao, Diego Schimmenti (ex direttore di settore dell’Usl 36) e Gaetano Bigatti (ex direttore amministrativo dell’Asl Città di Milano). Gli ultimi due vanno sotto processo al posto dei loro direttori, Sanfilippo e Mobilia, che si sono difesi dimostrando di aver "soltanto firmato" pratiche gestite completamente dai loro funzionari. Il 4 luglio 2003 arrivano le condanne in primo grado: 2 anni e 8 mesi per Maggiorelli, 2 anni per Caltagirone, 1 anno e 8 mesi per Schimmenti, 1 anno e 2 mesi per Corrao e Bigatti. Per falso e abuso d’ufficio: non per corruzione, perché ormai il rito ambrosiano, ai tempi di Berlusconi e Formigoni, in alcini casi non ha nemmeno più bisogno di tangenti.

Chi denuncia è beffato

Una terza differenza tra la vecchia e la nuova Tangentopoli: chi denuncia è beffato. Lo dimostra la storia del portaborse del sindaco di Bollate, paesone alle porte di Milano. L’8 febbraio 2000, otto anni dopo quel 17 febbraio 1992 in cui fu arrestato Mario Chiesa il "mariuolo" e partì Mani pulite, a Milano viene arrestato, con le stesse modalità di Chiesa, un collaboratore del sindaco (di centrosinistra) di Bollate. Con una mazzetta di 25 milioni appena intascata, in banconote da 100 a 500 mila lire che un maresciallo della Procura, su denuncia di un imprenditore taglieggiato, aveva fotocopiato e chiuso in una bustona bianca.

Il nuovo "mariuolo" si chiama Alberto Triacca, ha 53 anni ed è il braccio destro del sindaco Giovanni Nizzola, ex democristiano passato al centrosinistra a Bollate e per questo episodio accusato di concussione. Chi aveva permesso di confezionare la trappola? Un imprenditore proprietario di un fast food nell’hinterland milanese, Alfredo Leuzzi, che voleva costruire un McDonald’s anche a Bollate. Aveva chiesto la licenza edilizia, l’attendeva dal 1990 e finalmente alla fine del 1999 aveva sperato che la situazione si sbloccasse. Ma si era sentito chiedere da Triacca una tangente di 150 milioni: "per il sindaco". L’imprenditore ha finto di accettare, ma ha denunciato tutto al sostituto procuratore Fabio Napoleone. Allora è scattata la trappola: microspie, una minitelecamera, le banconote fotocopiate dalla procura. Consegnata la prima rata della mazzetta – 25 milioni "per il mio amico Giovanni" – sono arrivati i carabinieri, che hanno pronunciato la stessa frase detta a Mario Chiesa: "Questi soldi sono nostri". Il sindaco di Bollate – l’"amico Giovanni" – si difende: "È vero, l’arrestato è mio amico, ma ha fatto tutto da solo. Non posso perdonargli un atto così grave che danneggia me e la mia giunta. Non ho nessuna intenzione di dimettermi".

Per il sindaco Nizzola il processo, per concussione, è ancora in corso. Ma per il portaborse Triacca è già arrivata una sentenza: nell’ottobre 2001 il giudice del Tribunale di Milano Roberta Cossia lo condanna (con rito abbreviato) a 3 anni e 4 mesi per concussione. In appello la pena scende poi a 2 anni. Alfredo Leuzzi, assistito dall’avvocato Luca Troyer, si vede anche "accogliere la richiesta di risarcimento dei danni", che andranno poi "quantificati" in una successiva causa civile, perché l’imprenditore ha subito perdite "di notevole entità": dopo il suo no alle tangenti, infatti, il Comune di Bollate ha "bloccato la pratica con argomentazioni pretestuose", tanto da "far scadere il piano edilizio".

Ma il bello deve ancora venire. L’imprenditore taglieggiato, dopo la condanna del suo taglieggiatore, chiede al tribunale civile di essere risarcito del danno subito. E il tribunale civile che cosa fa? Glielo rifiuta. La decima sezione civile nel novembre 2003 stabilisce che la vittima di una concussione – il cittadino taglieggiato da un pubblico ufficiale con metodi da vera estorsione – non ha alcun diritto certo di ottenere neppure un euro di risarcimento. Anzi, impone a Leuzzi di "rifondere metà delle spese legali" al colpevole: mille euro. "Gli amici di Triacca", racconta sconsolato Leuzzi, "sono venuti a prendermi in giro: “Hai visto che succede a denunciare? Dovevi pagare e basta”". E in procura molti magistrati commentano: è davvero la fine di Mani pulite, quanti cittadini avranno ora il coraggio di denunciare i corrotti?

Imprenditore: vittima?

Una quarta differenza con la Tangentopoli di dieci anni fa riguarda le indagini e i metodi investigativi. Mani pulite esplose e poi si moltiplicò come una reazione a catena anche perché molti imprenditori (e poi anche qualche politico) dopo le prime inchieste si presentarono a denunciare il sistema delle tangenti. Oggi – anche visti i risultati illustrati nella storia precedente – nessuno parla. Nessuno denuncia. Nessuno ammette. I magistrati non intervengono quasi mai su denuncia di qualcuno, ma per scoprire i reati della nuova Tangentopoli devono intervenire con le intercettazioni ambientali, le telecamere nascoste, i pedinamenti, lo studio tecnico degli atti amministrativi, le ricerche bancarie. Sono lontani i tempi di Mani pulite, in cui imprenditori e politici facevano la fila davanti all’ufficio di Di Pietro per confessare. Per trovare le prove della corruzione i magistrati devono ricorrere a metodi usati soprattutto nelle indagini antimafia.

Significativa a questo proposito è la storia dell’inchiesta sull’Anas, condotta dal pubblico ministero Giovanna Ichino. Il 12 febbraio 2003 i carabinieri del Nucleo operativo ecologico di Milano realizzano l’operazione Robin Hood: nella foresta di Sherwood la banda di Robin rubava ai ricchi per dare ai poveri; questa volta le 31 persone finite in carcere – 20 imprenditori e 11 tra dirigenti, funzionari e impiegati dell’Anas di Milano, Torino e Palermo – taglieggiavano chi passava per la foresta dei lavori stradali.
Trentuno arresti in un giorno solo: per ritrovare operazioni così massicce, bisogna risalire agli anni d’oro di Mani pulite, al 1993, al 1994, quando Antonio Di Pietro faceva ancora il magistrato e Silvio Berlusconi lo voleva ministro. E, secondo l’accusa, i responsabili dell’Anas in Lombardia avrebbero continuato a intascare tangenti fino al giorno prima degli arresti. In quell’operazione, oltretutto, i carabinieri sequestrano nelle abitazioni degli indagati ben 40 mila euro, che cresceranno in seguito fino a quota 100 mila.

"Il mestolo sa che cosa c’è nella pentola", diceva uno degli indagati intercettati dalle microspie dei carabinieri. E dalla pentola sapevano estrarre dei succulenti bocconi: tangenti del 5 per cento sugli appalti, più qualche regalino extra, qualche telefonino, qualche computer. Tra loro dicevano: "Noi siamo come Robin Hood: togliamo ai ricchi, cioè all’Anas, per dare ai poveri, cioè a noi". Erano un pugno ben affiatato di uomini dell’ente che gestisce le strade statali italiane in accordo con i dirigenti di una trentina d’imprese che avevano fatto cartello, scegliendo la via dell’accordo sotto banco per spartirsi gli appalti.

I ribassi da presentare erano decisi di comune accordo prima delle gare. Se c’era qualche inconveniente – per esempio partecipava alla gara un’azienda che non era del giro e non stava al gioco – allora entrava in funzione una sonda chirurgica: sì, uno di quegli apparecchi piccolissimi con telecamera che sono introdotti nel corpo umano per guidare la mano del chirurgo. In questi casi serviva invece a penetrare nelle buste delle offerte inaspettate e a scoprire le cifre prima della gara. Qualche azienda fuori dal giro deve essersi insospettita, perché all’Anas erano cominciate ad arrivare buste schermate con la carta stagnola. Ma la festa era andata avanti.

La banda entrava in funzione per i lavori di "somma urgenza": quelli da fare subito, in casi eccezionali, su strade colpite dal maltempo, da frane, da smottamenti, e che erano assegnati con procedure rapide e controlli ridotti. "Quando si verificavano eventi calamitosi, come l’alluvione dell’autunno 2002, l’ufficio si animava. Succedeva che sui visi di qualcuno compariva una malcelata allegria. Stavano per festeggiare i nuovi doni". Così racconta un architetto dell’Anas, Antonio Lombardo, che era stato emarginato perché non voleva stare al gioco dei colleghi. "Erano i momenti dell’arrembaggio, con i lavori che finivano sempre nelle mani delle stesse imprese. C’erano anche tanti imprenditori seri. Li riconoscevi dopo l’assegnazione degli appalti. Erano quelli che gridavano disperati nei corridoi perché non riuscivano mai ad avere i lavori".

Ma se l’urgenza non c’era, poteva essere creata a tavolino. Come è accaduto nel novembre 2002, in una Lombardia battuta dalle piogge. Poiché la statale 42 del Tonale si ostinava a resistere, nella notte è arrivato, nei pressi di Darfo, un camion di massi che, rovesciati opportunamente sull’asfalto, hanno simulato una frana, prontamente rimossa il giorno dopo.

I carabinieri sono intervenuti (spinti anche dai sospetti avanzati dall’architetto Lombardo) con intercettazioni telefoniche e ambientali e compiendo indagini patrimoniali. Dopo indagini durate oltre un anno, hanno scoperto la ragnatela di rapporti e mazzette tessuta da quattro dirigenti dell’Anas: Mario Chioini, capo del compartimento di Milano; Ettore Dardano, responsabile amministrativo di Milano e poi di Torino; Giuseppe Costanzo, direttore dell’area nuove costruzioni; Dario Di Cesare, direttore area d’esercizio. Il poker d’assi della tangente era d’accordo con altri sette dipendenti dell’Anas e con 20 uomini delle imprese che si spartivano appalti e subappalti. I lavori “tassati” dalla banda di Robin Hood erano opere edili, ma anche impianti elettrici per l’illuminazione di gallerie autostradali, come quelle che portano all’aeroporto Punta Raisi di Palermo e all’aeroporto di Milano-Malpensa.

"Vorrei sfruttare questo disastro... per farci le vacanze e il panettone", dice uno degli indagati, intercettato dai carabinieri. "Non cammina il giro, professò", si lamenta l’imprenditore Alessandro Crisafulli con il funzionario dell’Anas Dardano. Questi gli risponde: "Ma no, non so per chi gira, però gira. Parla con Alessandra". I reati contestati sono corruzione, truffa, riciclaggio, turbativa d’asta e falso. "L’imputazione è di particolare gravità e denota lo sprezzo per il bene pubblico", scrive severo il giudice per le indagini preliminare Antonio Corte, che ha considerato la possibilità di aggiungere anche l’accusa di associazione per delinquere, almeno nei confronti dei personaggi di spicco. Emerge, infatti "l’esistenza di un’organizzazione precisa". Di questa farebbe parte anche un quinto funzionario che evita il carcere perché al momento degli arresti risulta malato, ma è in realtà in vacanza in un’isola esotica.

I funzionari dell’Anas cercano di negare ogni addebito e di fronte ai magistrati restano in silenzio. Gli imprenditori ammettono di aver partecipato ad aste truccate per vincere gli appalti, ma cercano di farsi passare per concussi, cioè di essere stati costretti a pagare per poter lavorare. Rivendicano comunque la serietà dei lavori realizzati e cercano soprattutto di ridimensionare il reato di riciclaggio contestato dai magistrati: avevano soltanto affidato, assicurano, una cifra (80 mila euro) in custoria a un dirigente dell’Anas.
Dopo gli arresti, la partita giudiziaria si apre con un ricorso dell’avvocato Gaetano Pecorella contro la carcerazione dell’imprenditore Gregorio Cavalleri. I magistrati sfoderano allora le intercettazioni eseguite alla vigilia del blitz: l’11 febbraio, Dario De Cesare, direttore d’esercizio dell’Anas, racconta al telefono di una mazzetta versata proprio da Cavalleri, precisando di essersi tenuto 37.500 euro e di averne girati 2.500 a Mario Chioini, il capo del compartimento Anas. Letti i nuovi atti, l’avvocato Pecorella ritira il ricorso e batte in ritirata.

Nelle intercettazioni, i funzionari dell’Anas si mostrano stupiti per l’indifferenza del loro collega Chioini, che accettava bustarelle senza batter ciglio, senza neppure mostrare la curiosità di sapere chi le pagava e perché. Incassavano, gli uomini dell’Anas, e poi, racconta Lombardo, "arrivavano in ufficio con la Porsche o la Mercedes".
Dirigente Anas: "C’è una somma che vediamo di spendere per delle cose che ci organizziamo tra di noi, però non dobbiamo fare errori da ragazzini: bisogna studiare la maniera di un lavoretto pulito, roba scientifica e garbata...". Imprenditore: "Dove si può arrotondare? Potrei inventare un corto circuito". Dirigente: "Va bene 80 mila euro?". Imprenditore: "Caspita, se la sistema così, lei è bravissimo. Questo è un pensiero per lei". E sul "questo" si sente un fruscio di bigliettoni. Dirigente: "Li metti in bagno".

Più tardi, il dirigente spartisce col collega: "Chiudi la porta, ti do la quota". Collega Anas: "Soldi se ne fanno pure troppi". Dirigente: "Tiè , sono 15". Collega: "Cinque, cinque e cinque". Dirigente: "Li conti dopo, se sono di più te li pigli". Era il 26 novembre 2002 e il gustoso dialogo registrato dai carabinieri si riferiva a una strada nei pressi di Lecco.
Dario De Cesare convoca l’imprenditore Giulio Martinelli nel suo ufficio all’Anas: "L’ho fatta venire... perché vorrei approfittare di questa occasione", "vediamo di spendere... c’è una “somma urgenza” di 80, 90 mila... per delle cose che ci organizziamo fra di noi".

Anche in questa indagine, come per Fanchin, tra le prove raccolte dagli investigatori c’è un video: vi si vede un un dirigente Anas nel suo ufficio che estrae da un armadio una busta appena consegnatagli e conta soddisfatto le mazzette di denaro. Ma i magistrati sono costretti a dissertare di sottili questioni giuridiche: quel video è una prova utilizzabile nel processo? La Cassazione dice che, trattandosi di intercettazioni ambientali, i filmati valgono se documentano una comunicazione tra due persone (anche gestuale, ma comunque uno scambio di messaggi), mentre sono inutilizzabili "se in un luogo di privata dimora captano la sola presenza di cose o di persone, o i loro movimenti". E dunque: la stanza di un dirigente Anas è un ufficio pubblico? Sì, secondo l’accusa. No, secondo le difese (l’Anas è diventata una società per azioni e comunque i suoi uffici non hanno sportelli, non sono aperti al pubblico). E per di più, fanno notare i difensori, alcune riprese sono state realizzate fuori dall’orario d’ufficio. E così via cavillando.

Alla fine, il giudice Antonio Corte sceglie di attenersi alla "giurisprudenza più garantista", limitandosi ai risultati "depurati dalle riprese video". In fondo, bastano e avanzano le intercettazioni ambientali. In alcune di esse, gli indagati facevano gli spiritosi, sentendosi al sicuro anche perché provvedevano a periodiche bonifiche di microspie in ufficio: "Quando me lo manda quello a pulire qua? Perché mo’ lo devo fare pure di sera, pure nella stanza sua...". Precauzione inutile: i carabinieri del maresciallo Francesco Delli Colli erano all’ascolto e tutto è rimasto registrato. Così gli arrestati preferiscono non rispondere. O azzardano spiegazioni imbarazzate e imbarazzanti: "Tasche piene? Ma no, intendevo piene non di soldi, ma di buona volontà e di entusiasmo nel lavoro". La distinta di versamento che attesta il pagamento di 520 banconote per un totale di 50 mila euro sul conto personale di un dirigente Anas? "Non l’ho fatta io". I massi scaricati sull’unica strada non alluvionata per poter incassare i finanziamenti delle riparazioni? "Non ricordo proprio e comunque la strada era già malmessa".

"Se mai qualcuno si era illuso che la mala pianta della corruzione fosse stata estirpata con le indagini di Mani pulite, ora è chiaro che non è andata così", commenta a caldo Francesco Saverio Borrelli, ormai ex procuratore degli anni di Tangentopoli, interpellato dal cronista del Corriere della sera Paolo Biondani. "In realtà le inchieste della procura di Milano hanno soltanto potato la corruzione. E così come avviene nel giardinaggio, la potatura non ha fatto altro che rinvigorire la pianta, fino a farla esplodere in una nuova fioritura. Perché è andata così? Perché il problema della corruzione non è mai stato affrontato seriamente a livello politico. Gli interventi giudiziari sono inevitabilmente frammentari ed episodici. Le indagini delle Procure sono per loro natura limitate a fatti circoscritti. Ma da un fatto all’altro, tra il 1992 e il 1994 i magistrati di Milano hanno scoperto una corruzione sistematica, anzi sistemica: Tangentopoli non era un’eccezione, era la regola di gestione degli affari pubblici e privati. Per questo le inchieste non potevano bastare a sconfiggerla. Ciò che è mancato in questi anni è proprio un serio intervento per rimuovere le cause della corruzione: servivano e servirebbero ancora profonde riforme a livello politico, e cioè in sede parlamentare e governativa. Ed è davvero singolare che invece ora si arrivi a proporre una commissione d’indagine su Mani pulite".
I funzionari, gli amministratori, i politici, nella nuova Tangentopoli incassano. E gli imprenditori pagano e per pagarli li cercano, li inseguono, li pregano. Si accordano tra loro, fanno accordi di cartello, aggirano le leggi di mercato e la libera concorrenza.

Succedeva così, in realtà, anche nella vecchia Tangentopoli. Ma gli imprenditori non si sono presentati per anni come vittime della corruzione, obbligati a pagare i politici "per poter lavorare"? Già le indagini di Mani pulite avevano dimostrato la stretta “solidarietà ambientale” tra chi paga e chi prende, e la piena soddisfazione di un sistema d’imprese che preferivano lavorare senza concorrenza, in regime di mercato protetto e di appalti truccati e spartiti.

Oggi, l’assenza di denunce conferma quel dato: gli imprenditori si dimostrano omertosi e complici, quando non sono i veri padroni del sistema delle tangenti. Ed eccoci al Parmacrac, ovvero a Padronopoli: uccisa Mani pulite, morto il falso in bilancio, sopravvivono le inchieste sulle bancarotte (anche se il Parlamento sta incredibilmente discutendo la depenalizzazione anche della bancarotta): inchieste che per loro natura possono scattare quando ormai il latte è versato e i buoi sono scappati. Speriamo non verso l’Argentina.

Micromega, 2004

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