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Parlar bene di Garibaldi

Leghisti e clericali lo attaccano. Il Partito democratico lo dimentica. Gli storici revisionisti lo accusano di essere padre delle Br. Eppure l’eroe dei due mondi è alle radici dell’identità nazionale. Parla lo storico Mario Isnenghi.

A duecento anni dalla sua nascita, è di moda parlar male di Garibaldi – a dispetto del luogo comune che considera inattaccabile la figura dell’“eroe dei due mondi”. Invece ne parlano male i leghisti e gli “autonomisti” del Nord e del Sud; ne parlano male i vecchi clericali e i nuovi teocon; ne parlano male coloro che deplorano la «violenza illegalista» all’origine dello Stato italiano e che risalgono implicitamente fino a lui per trovare le origini di un «brigatismo senza fine» (Galli della Loggia, sul Corriere della sera). Del resto, Giuseppe Garibaldi non è neppure nei pensieri dei riformisti, dei moderati che hanno sciorinato molti nomi di candidati a entrare nel Pantheon del loro nuovo partito, ma neppure per un momento hanno pensato a quel pericoloso, sovversivo e anticlericale Che Guevara di casa nostra. E poi, diciamo la verità, a chi piace più, ormai, il Garibaldi macinato e tradito dalla retorica della scuola, dal nazionalismo fascista, perfino dal collezionismo craxiano?
Eppure, mentre tutti corrono a dir male di Garibaldi, con il solito conformismo che si spaccia per il suo contrario, lo storico Mario Isnenghi va davvero controcorrente. E dichiara: «È venuto il momento di dir bene di Garibaldi».

Isnenghi. La figura di Garibaldi, in verità, è ancor oggi anche molto amata. Però Garibaldi è un segno di contraddizione, lo è fin dal principio e lo rimane. Rigenera via via nel tempo i motivi per detestarlo. Lo abbiamo visto anche in occasione degli interventi per il bicentenario. Vi sono dunque diversi Garibaldi: il personaggio è un mito, un “oggetto” disponibile per diverse e perfino opposte politiche della memoria. C’è un Garibaldi “di destra” e un Garibaldi “di sinistra”, un Garibaldi “nazional-fascista” e naturalmente un Garibaldi “rosso”.

Certo, il Garibaldi della Nazione piaceva a Mussolini. Ma piaceva anche agli antifascisti liberaldemocratici, a Ernesto Rossi, a Vittorio Foa, a Massimo Mila, a Riccardo Bauer. E poi proprio l’immagine di Garibaldi fu scelta come simbolo del Fronte Popolare alle cruciali elezioni del 1948. 

Isnenghi. Sì. La stratificazione storica delle immagini di Garibaldi continua anche con noi, che possiamo interragire con l’uno o l’altro dei tanti Garibaldi in circolazione. Ernesto Rossi, in carcere a Regina Coeli, era confortato di riuscire a vedere dalla finestra della cella un pezzetto del monumento a Garibaldi al Gianicolo. Eppure, in nome dello stesso eroe, al Gianicolo avevano luogo i riti del regime fascista. E non ci sono soltanto le utilizzazioni opposte, ci sono anche le denigrazioni: Garibaldi suscita grandi amori, ma anche grandi rancori e imputazioni di colpa. Le continuità della sua figura, anzi, si vedono bene proprio nei rancori e negli atteggiamenti critici, che iniziano subito, lui vivo.

La scuola ce ne ha consegnato una figura imbalsamata e retorica, quella delle statue nelle piazze delle nostre città.

Isnenghi. Ma la scuola ha svolto una sua funzione rispetto a tutto il Risorgimento. Una funzione essenziale: niente scuola, niente monumenti, niente Risorgimento. Prima di dedicarci all’abituale critica della scuola, sarà bene riconoscere che senza i grandi apparati culturali di massa, come la scuola, non si sarebbe formato il racconto del Risorgimento. Non si sarebbero formate non solo l’oleografia e l’agiografia del Risorgimento, ma neppure il racconto del Risorgimento, che ha permesso alle diverse, successive generazioni d’italiani di prendere coscienza di avere dietro di sé delle origini e anche un mito delle origini. Almeno finora.

Il fascismo ha dovuto impadronirsi di Garibaldi perché era così popolare da non poterlo lasciare fuori dal suo orizzonte, oppure c’è qualcosa di specifico di Garibaldi che piace al fascismo?

Isnenghi. Al fascismo può piacere il Garibaldi padre della Nazione, un punto di partenza comune a diverse prospettive politiche. Ma la Nazione a cui pensa il fascismo non è più la Nazione italiana fraterna alle altre Nazioni europee che aveva consentito a Giuseppe Mazzini di inventarsi la Giovine Italia ma anche la Giovine Europa e altre Giovini Nazioni, in un concerto fraterno e liberale in cui ogni popolo ha diritto al proprio Risorgimento, ogni Nazione ha diritto alla propria libera e indipendente affermazione. C’è stata una deviazione novecentesca in senso nazionalista del concetto ottocentesco di Nazione, quello che aveva invece permesso di pensarla non come un’aggressiva potenza armata e di costruire l’Italia liberale.
Al fascismo piace poi l’antiparlamentarismo di Garibaldi: eletto più volte parlamentare e in più collegi, non partecipava alla quotidianità della vita del Parlamento. Così i fascisti ne hanno assunto la critica dei “ludi elettorali” in nome della concretezza e di scelte più pragmatiche, energiche e risolutive.
Ma un elemento che ritengo più precipuo di Garibaldi – e che, inutile negarlo, poteva essere raccolto anche a destra e non solo a sinistra – è l’essersi sempre mosso ai bordi del sistema. Caso classico, la spedizione dei Mille nel 1860, ma poi anche quelle del 1862 (Aspromonte) e del 1867 (Mentana). Garibaldi, certo, è quello dell’accettazione della monarchia sabauda pur di fare l’Italia, del compromesso con il partito moderato, dell’ossequio alle istituzioni, fino al celebratissimo “Obbedisco”. Ma è più precipuo quel suo muoversi sull’orlo delle istituzioni, cercando sempre di forzarle e di spingerle un po’ più in là. Una sistematica ricerca di cogliere una legittimazione che lo conduca a fare qualcosa oltre la legalità in atto. Così Garibaldi – come Mazzini, Cattaneo, Pisacane, come il Risorgimento nel suo insieme – si spinge in quella terra di nessuno in cui ci si può bruciare le penne, perché non sai se ne uscirai eroe della patria oppure bandito e filibustiere.

Poi c’è il Garibaldi di Craxi...

Isnenghi. Non credo proprio che possa nuocere a Garibaldi il fatto che Craxi, ma anche Spadolini, abbiano cercato di valorizzare il loro collezionismo di cimeli garibaldini per presentarsi come i continuatori politici di Garibaldi. Non credo che Craxi e i suoi gusti possano “sporcare” la sua figura. Il fatto che si siano presentati come i veraci interpreti di Garibaldi, contemporaneamente, un leader socialista come Craxi e uno repubblicano come Spadolini, mi pare possa invece far spuntare il sorriso sulle nostre labbra.

Oggi Ernesto Galli della Loggia risale fino a Garibaldi (sul “Corriere” del 27 aprile 2007) per imputargli una sorta di paternità del “brigatismo senza fine” che imperverserebbe nel nostro paese e per deplorare la violenza illegalista che sta all’origine dello Stato.

Isnenghi. Sì, non mi aspettavo tanto. Conosciamo il moderatismo militante di Della Loggia, non è una sorpresa che prenda queste posizioni. Eppure mi stupisco che lo abbia potuto fare, e non nelle pagine culturali, ma con l’autorità e la visibilità di un fondo sulla prima pagina del Corriere della sera, prendendo spunto da un commento di vicende avvenute due giorni prima nelle manifestazioni per il 25 aprile...».

Si trattava dei fischi riservati a Letizia Moratti, candidata sindaco del centrodestra a Milano, e delle bandiere israeliane bruciate nello stesso corteo, con contorno di slogan idioti...

Isnenghi. Andare così indietro nel tempo finendo per sporcare la figura di Garibaldi, compromettendolo in scelte considerate moralmente, prima ancora che politicamente, riprovevoli mi fa pensare alla difficoltà di fare lo storico sui giornali, pressato dalle urgenze della cronaca. Io ho stima di Galli della Loggia, ma proprio per questo ritengo che si debbano mantenere alcuni netti distinguo. Me l’aspettavo dai leghisti, me l’aspettavo da Comunione e liberazione, erede di antichi rancori clericali e  antirisorgimentali, ma mi stupisco che il revisionismo attuale, per esecrare la violenza, rinculi tanto da prendersela alla fin fine con Garibaldi. L’“educazione civica” non può sovrapporsi alla storia. Il troppo stroppia. Ma come può poi uno storico pensare che la storia si faccia senza violenza? Tutto il mondo ci parla di violenza e controviolenza e ciascuno semmai si può posizionare per stabilire quale gli dispiaccia di meno.
O siamo santi, eremiti, apocalittici, oppure stiamo nella storia – e dunque anche nella politica – e allora dobbiamo riconoscere che le rivoluzioni ci sono state, le controrivoluzioni pure, la violenza c’è sempre stata (non voglio impegnarmi a dire che sempre ci sarà). Dopo naturalmente è questione di forme della cittadinanza, di analisi della situazione politica esistente, per stabilire il se, il quanto, il come, le forme della violenza, di chi, contro chi. Ma prendersela con la violenza politica e l’illegalismo alle origini dello Stato significa tout court prendersela con il Risorgimento. È questo che vuole il collega? Mi pare impossibile... Vogliamo tornare al sabaudismo di un Solaro Della Margherita? Neanche al Piemonte, ma alla destra piemontese?
Facendo uno studio sugli intellettuali nell’Italia fascista mi è capitato di trovarmi di fronte alla nostalgia di un Risorgimento senza Risorgimento, di una nascita dello Stato tutta per intero affidata – più ancora di quanto già non lo sia stata – all’iniziativa regale e dall’alto. Il piccolo nostalgico degli anni Trenta sospirava: come sarebbe stato bello se tutto fosse avvenuto secondo la linea della destra sabauda, e nominava appunto Solaro della Margherita. Settant’anni dopo, in questo dibattito del bicentenario, sono stati tirati fuori i Borboni, riesumati i papalini: a lode e in positivo, contro l’Unità d’Italia, mai come oggi così malfamata. Questo significa negare l’oggetto stesso, negare la nascita dello Stato italiano. Possiamo pensare che gli austriaci se ne sarebbero andati con le buone maniere, e così i Borboni, e così il Granduca di Toscana? Non è così.
La parola-chiave che viene usata da Galli della Loggia e dagli altri autori del volume collettivo Due nazioni è “divisività”: il termine si riferisce all’esistenza di un eterno (e deplorevole) scontro tra opposte fazioni che sarebbe nel Dna dell’Italia. Non mi pare che occorra andare così indietro nel tempo per scoprire, viceversa, che il conflitto è il sale della terra. Io penso che anche nel Risorgimento non si potesse fondare lo Stato senza conflitto – dunque senza Mazzini, senza Garibaldi. E io personalmente, da statalista impenitente, sono grato a chi ha fondato la Stato.

Infatti lei, nel suo ultimo libro edito da Donzelli, “Garibaldi fu ferito”, annuncia fin dal preambolo la scelta polemica e politica di “dir bene di Garibaldi” alla luce non di un astratto dibattito storiografico sul passato, ma del dibattito di oggi.

Isnenghi. Sì, ho reagito all’accerchiamento di Garibaldi compiuto da leghisti del Nord, autonomisti siciliani e clericali, a cui oggi si è aggiunta una terza componente, quella del revisionismo colto. E mi chiedo: i mOderati e i riformisti che ne pensano oggi? Il Partito democratico avrà un posticino anche per Garibaldi nel suo Pantheon? Certo, è del tutto legittimo che un partito che nasce oggi preferisca riferirsi a personaggi e princìpi del presente, specialmente se all’origine ci sono, apertamente, il taglio delle radici e la speranza di un “nuovo inizio”. Però tagliare, oltre che le radici comuniste, anche quelle dello Stato italiano, può costituire un elemento di preoccupazione: un partito come quello che sta nascendo oggi, dall’incontro di moderati e riformisti, sulle ceneri della Democrazia cristiana e del Partito comunista, e un po’ anche del Partito socialista, veramente non ha più niente a che fare con ciò che intetizziamo nei nomi di Garibaldi e di  Mazzini e  cioè con il Risorgimento? Sarebbe un partito senza passato (o magari, per i più esterofili, con pezzi di passato e di presente altrui).
Garibaldi, dunque, è innanzitutto il fondatore dello Stato, uno dei massimi fondatori dello Stato italiano. Accetta pro tempore che lo Stato sia monarchico pur non nascondendo che lo preferirebbe repubblicano. Cento anni dopo, nel 1946, l’Assemblea costituente repubblicana è la vittoria di Mazzini e di Garibaldi. In secondo luogo, è il fondatore dello Stato con la partecipazione attiva e critica dei cittadini non più sudditi, che si mobilitano, che fanno politica, che dicono di no alle strutture esistenti: sono quindi sovversivi rispetto alle strutture esistenti, e dunque violenti, e dunque illegali. Le vicende della storia ogni tanto ci mettono di fronte a queste svolte della storia in cui il cittadino si fa ‘volontario’. E non sono pochi i volontari che accorrono attorno a Garibaldi: noi abbiamo in mente il numero mitico dei Mille partiti da Quarto, ma la spedizione s’ingrossa fino a coinvolgere, in quattro o cinque mesi, quasi 50 mila volontari.

Erano già 4 mila a combattere per la Repubblica Romana nel 1949, saranno 2 mila all’Aspromonte nel 1862, ben 38 mila a Bezzecca nel 1866...

Isnenghi. Certo, all’Aspromonte erano 2 mila, eppure l’impresa appariva disperata, oltre a essere evidentemente illegale. Ecco dunque il Garibaldi fondatore dello Stato, che si assume però anche la responsabilità di finire in carcere o sotto le cure del tribunale militare. Come Mazzini, che subisce ripetute condanne a morte e che muore nel 1872 a Londra, sotto falso nome, come fosse un qualunque Mr Brown. Quante difficoltà e quanta tragedia: come siamo lontani dalla edulcorata oleografia risorgimentale in cui tutti sembrano andare d’accordo; e come siamo lontani anche dalla visione oleografica che come italiani abbiamo di noi stessi. È paradossale: siamo capaci di pensare e agire tragicamente, di fare storia, ma non di ricordarla in questa chiave; abbiamo alle origini caratteri come Mazzini e Garibaldi, ma poi ce ne dimentichiamo. 
All’Aspromonte l’esercito regolare, che è ormai quello dell’Italia unita, spara su  Garibaldi che tenta di forzare di nuovo la situazione e andare a liberare Roma. È, in fondo, un’esecuzione differita della condanna a morte comminata dai piemontesi nel 1834. Non lo uccidono, ma lo feriscono di una ferita che non guarirà mai del tutto. E poteva essere l’esecuzione anche delle condanne a morte idealmente comminate dai Borboni, che due anni prima si erano visti arrivare contro quelli che loro chiamavano “filibustieri”, cioè Garibaldi e i garibaldini.
L’Aspromonte è il momento topico del Risorgimento, il più rivelatore, il momento della tragedia in senso greco. Attenzione: non sto dando torto al governo italiano che fa sparare, capisco che non possano convivere due opposte politiche estere su Roma, quella del Governo e quella del Partito d’Azione. Il punto è che tutte e due le parti si muovono sul filo del rasoio, sono contemporaneamente alleate e antagoniste, con il rischio che la situazione precipiti in guerra civile. Poteva succedere già nel 1860 con i Mille, e non è successo;SI arriva a un passo dalla crisi nel 1862. Se non si arriva alla guerra civile, è perché la grande leadership di Garibaldi sul Partito d’Azione si ritrae all’ultimo momento, o meglio si esercita frenando. Ecco, quando io penso a Garibaldi, penso anche a questo: a una visione della politica alta e tragica, a una costruzione dello Stato con la partecipazione dei cittadini che pagano di persona, sapendo che rischiano se si avventurano nella terra di nessuno che sta oltre il confine istituzionale. 
Non è un semplice nazionalista quello abbiamo di fronte, anche se i fascisti tenteranno di ridurlo a questo. Garibaldi e i garibaldini andranno a combattere in Sudamerica, in Grecia, in Polonia... Garibaldi è un grande internazionalista libertario, non un semplice nazionalista. Ecco un segno di provincialismo e di esotismo: gli italiani hanno un Che Guevara in casa e, almeno quelli degli ultimi decenni, non sembrano essersene accorti. Non hanno colto la portata internazionale e internazionalista di Garibaldi.

Garibaldi è moderno anche nella sua capacità di tenere rapporti con i media del tempo. Ha preparato accuratamente la spedizione dei Mille anche stringendo contatti con i giornali dell’epoca. E ha saputo affascinare uno straordinario “cronista” del tempo, Alessandro Dumas, che ha seguito da “inviato di guerra” la spedizione in Sicilia e ha trovato in Garibaldi un d’Artagnan in carne e ossa.

Isnenghi. Garibaldi è un personaggio di straordinaria modernità. A metà dell’Ottocento sperimenta nuove forme della politica, utilizzando anche le nuove forme di comunicazione, la stampa, i romanzi d’appendice, i romanzi di cappa e spada, i romanzi storici, la letteratura popolare che esce a puntate sui giornali, la fotografia, la pittura di genere... Tanto è vero che uno dei suoi numerosi biografi è proprio Alexandre Dumas, celeberrimo autore de I tre moschettieri, che individua giustamente in Garibaldi una sorta di d’Artagnan e si precipita in Sicilia a vedere “come si fa” il d’Artagnan per  davvero nel 1860.
Omar Calabrese aveva colto questa modernità nel 1982, quando nel libro Garibaldi tra Ivanhoe e Sandokan aveva confrontato l’eroe con i grandi personaggi dell’immaginario dei romanzi per ragazzi. Ricordo il piacere che mi dava da ragazzo potermi immaginare che Sandokan, Yanez, il Carsaro nero avessero ragione, che combattessero per una buona causa. Ebbene, Garibaldi è un personaggio vero, che realizza quei bisogni della fantasia che alla metà dell’Ottocento è la fantasia dei romantici che affermano la propria libertà, i propri diritti, con una fortissima partecipazione dell’individualità; la grande e la piccola individualità che comprende anche il ragazzo scappato di casa per vestire la camicia rossa e che diventa anch’egli adulto proprio scappando di casa. È chiaro che tra le spinte che muovono a far politica tra i volontari di Garibaldi sono presentissime anche quelle di carattere psicologico, esistenziale, personale, e d’altra parte credo che nessun grande movimento politico possa prescindere da queste forze emozionali: Garibaldi è uno straordinario interprete politico di queste grandi ondate emotive, un uomo pubblico che sommuove e mette a frutto il privato.

C’è in Garibaldi anche una grande, decisa spinta anticlericale...

Isnenghi. Certo, ed è un Garibaldi che non possiamo dimenticare, anche perché si presenta oggi con caratteristiche di pungente attalità. Il dibattito che si è finora sviluppato nell’ambito del bicentenario, nei convegni, nelle discussioni, ha espresso una diffusa e rammaricata meraviglia davanti all’anticlericalismo di Garibaldi. Grottesca, diciamolo pure. Io mi rammarico e mi sorprendo per questo rammarico e per questa sorpresa. L’attuale situazione d’invadenza clericale dovrebbe portare a rimettere sugli scudi l’anticlericalismo che è non di Garibaldi, ma di tutto il Risorgimento italiano: perchè le leggi Siccardi non le ha mica fatte Garibaldi, le ha fatte il Regno di Sardegna; la Breccia di Porta Pia del 20 settembre 1870 non l’ha mica fatta Garibaldi – purtroppo per lui che si rodeva il fegato per esserne stato tenuto fuori – ma l’esercito italiano, i bersaglieri di Raffaele Cadorna. Era lo Stato papalino, era il papa-re, era la presenza della Chiesa cattolica incistata nel mezzo della penisola che rendeva necessaria, da un punto di vista territoriale, la violenza contro lo Stato Pontificio, non meno che contro il Granducato di Toscana o il Lombardo-veneto o il Regno delle Due Sicilie: ovviamente non una violenza cieca, ma intrecciata con l’azione politica e con il tentativo di favorire la ribellione all’interno dei singoli territori, in modo che la nascita dello Stato d’Italia fosse il meno possibile una scelta venuta da fuori e imposta dall’esterno.
Torniamo al 1849, allo “scandalo” della Repubblica Romana, che è un grande momento della costruzione del personaggio di Garibaldi. Già nel 1848 Garibaldi era stato uno dei personaggi importanti della Prima guerra d’indipendenza, ma nella difesa della Repubblica Romana nei primi mesi del 1849 Garibaldi si afferma come protagonista alla testa dei volontari venuti da tutta Italia. Voler solo concepire la nascita di una Repubblica nell’Europa della metà Ottocento è già di per sé uno “scandalo”, volerlo fare nella città del papa è uno scandalo doppio. Ecco perché la Repubblica Romana farà così fatica a entrare negli abbecedari e nei manuali scolastici del periodo a cavallo tra Ottocento e Novecento, e poi sarà ridotta a poche righe: era uno “scandalo”, qualcosa di screanzato. Eppure lo Stato pontificio c’era, il papa-re c’era, le motivazioni che prelati e parroci davano della persistenza dello Stato pontificio erano non semplicemente di opportunità o di egoismo micro-territoriale, ma di carattere generale e ideologico. Ovviamente nel 1864 papa Pio IX è lo stesso Pio IX che aveva precedentemente sollevato tante speranze  cattolico-liberali, è il papa del Sillabo, in cui condanna i principali errori del secolo: il liberalismo, la democrazia, l’istruzione pubblica, per non parlare del socialismo e del comunismo... Dentro il sudario dei vecchi e decrepiti principi cosiddetti “legittimi” avrebbero dovuto continuare ad andare avanti le cose, e restare a vegetare gli infelici sudditi del papa-re, e gli altri con loro. Io credo quindi che – Machiavelli insegna – lo Stato Pontificio collocato a metà della penisola abbia impedito per secoli la nascita dello Stato italiano, e poi (e questo ci interessa più da vicino perché riguarda l’oggi) ha radicato la pretesa che il nuovo Stato restasse comunque in balìa del beneplacito pretesco e cardinalizio.
Anticlericale e anticlericalismo non sono brutte parole. Invece tanto il centrodestra quanto il centrosinistra in Italia cercano di ingraziarsi coloro che si ritiene controllino i voti, oltre che i costumi e i modi di pensare della gente. Quello che non vedo è l’affermazione di un comportamento laico e autonomo, ed è un problema solo italiano perché quale altro paese ha la propria capitale con dentro la capitale di una grande chiesa mondiale? È un problema strutturale perenne, come facciamo a liberarcene? Ci vorrebbe un sovrappiù di capacità d’autonomia nella nostra cittadinanza e invece c’è un “sovrammeno”. A questo punto la lettura di Garibaldi può essere corroborante. Ripeto però: non decontestualizzandolo o riducendolo a un povero marinaio, rozzo e incolto; era molto meno rozzo e molto meno incolto di quanto dicano i suoi detrattori. Certo, i romanzi che scrive sono pressappochisti e retorici, oltre che fortemente anticlericali, ma certo non se li inventa dal nulla, nascono dalla situazione di fatto dell’Italia.

Garibaldi in vecchiaia, a Caprera, ripensa le sue imprese militari e le sue scelte politiche e non se ne pente, anzi, diventa forse ancor più radicale. Attorno a lui, invece, cresce il trasformismo degli ex mazziniani ed ex garibaldini che “hanno spezzato la loro vita in due”...

Isnenghi. Lo confesso, io oggi mi scandalizzo davanti a certi repentini cambiamenti. Riconosco che si possa dire “ho avuto torto nei primi trenta o più anni della mia vita”, ma smetterei da quel punto di fare il predicatore. Viceversa, i “convertiti” per lo più continuano a fare i giornalisti, i profeti, i politici, i costruttori d’anime e di corpi. Questo, francamente, mi disturba. Ecco allora perché ho letto con particolare attenzione e immedesimazione le vicende storiche che avvengono dopo il 1861. Di nuovo: non ritengo che si debbano fare le cose troppo facili e santificare Garibaldi da una parte e, dall’altra, gettare la croce addosso all’esercito e al governo che gli sparano addosso all’Aspromonte. Cerchiamo di vedere le cose in tutta la loro drammaticità: qui c’è una rivoluzione vincitrice, o per lo meno il partito moderato può ritenere che nel 1861 la rivoluzione abbia vinto, lo Stato italiano è fondato. Anzi, in meno di un paio d’anni i monarchici, i piemontesi, Cavour e i cavouriani sono riusciti a fare quello che i moderati, e i moderati piemontesi in particolare, non si sognavano affatto di riuscire a fare. In pratica – salvo la repubblica – i moderati (con l’aiuto dei democratici) hanno realizzato il programma dei democratici.

Certo, a Castelfidardo il re attacca e sconfigge l’esercito del papa, cioè fa lui ciò che fino a quel momento la destra rimproverava a Garibaldi e ai “sovversivi” come intenzione e come progetto.

Isnenghi. Sì. È un’altra grande rimozione. Prima di dare del bieco anticlericale a Garibaldi non bisogna dimenticare che a Castelfidardo non c’era lui, il “cattivo”, ma c’erano i “buoni”, i moderati, che facevano violenza contro i papalini. La rivoluzione del 1861, dunque, rivoluzione nel senso di avvenuta costruzione dello Stato, è avvenuta. Si può benissimo capire, allora, che una parte di coloro che hanno fatto fino a quel momento i rivoluzionari dicano “adesso diventiamo difensori dello Stato che con tanta fatica abbiamo costruito”. Questo naturalmente lo possono fare più facilmente i monarchici, che hanno ottenuto di più, hanno vinto anche dal punto di vista della forma dello Stato, mentre i repubblicani hanno “vinto di meno”, hanno ottenuto sì l’unità nazionale e l’indipendenza, ma non la repubblica.
Ma succede che un buon numero di mazziniani diventino ex mazziniani e un buon numero di garibaldini diventino ex garibaldini. Quanto a quest’ultimi, era avvenuto che nel 1857 era nata la Società Nazionale, e Garibaldi vi era entrato accettando come parola d’ordine il famoso slogan “Italia e Vittorio Emanuele”, quindi unità d’Italia, ma sotto i Savoia nell’ambito della monarchia. Due anni prima della spedizione dei Mille Garibaldi aveva accettato, almeno pro tempore, questa linea politica e per questo si era inimicato Mazzini. Aveva accettato, rispetto al programma massimo repubblicano, quello che noi potremmo definire un “compromesso storico”. Dopo di che a Napoli, nel 1860, dopo la vittoria straordinaria della spedizione in Sicilia, non mancano anche tra i più vicini dei suoi compagni di vita politica quelli che lo invitano a ripensarci, dicendo: “Abbiamo avuto un successo troppo grande per cedere ora”. Ma Garibaldi aveva già compiuto il grande gesto di cedere tutto ciò che aveva conquistato.

In questo, il rivoluzionario Garibaldi era un moderato, un “riformista” che accettava di rinunciare ai suoi obiettivi massimi pur di raggiungere risultati concreti. Ma era un “riformista” vero: i risultati li raggiungeva davvero.

Isnenghi. Certamente Garibaldi è molto più portato, rispetto ai repubblicani, a mediare. È stato a lungo ritento, in alcuni ambiti della politica, che fosse un “ingenuo che si è fatto gabbare”, utilizzato, spremuto e poi buttato. Io non partecipo di questa convinzione. Ma torniamo a quelli che dopo il 1861 debbono – o vogliono – cambiare idea. Sono coloro che decidono di governare l’esistente, cioè lo Stato nato dalla rivoluzione che avevano contribuito a far vincere. Dal 1861 al 1876, per 15 anni, ha governato la cosiddetta Destra storica, cioè gli eredi di Cavour. Negli anni Sessanta dell’Ottocento il dibattito parlamentare ci mostra segmenti di una classe politica in formazione dentro cui agiscono e si muovono con voce autorevole anche quelli che sono stati accanto a Garibaldi, e poco prima accanto a Mazzini. E fra questi vanno nominati soprattutto Agostino Depretis e Francesco Crispi.
Depretis è uno di quelli che fin da subito è ministro e fin da subito dichiara di volersi staccare da Garibaldi: non nega il suo passato, ma nega che si possa e si debba continuare nella stessa direzione. Nel dibattito parlamentare di quegli anni ricorre una domanda cruciale: “Abbiamo usato la violenza fino a ieri, adesso lo Stato c’è, possiamo usarla ancora?”. Coloro che rimangono sulle posizioni di Mazzini e anche di Garibaldi rispondono sì, perché Roma non è ancora libera, perché Venezia non è ancora libera, quindi per le stesse ragioni per le quali abbiamo mobilitato il volontariato in passato, possiamo mobilitarlo ancora, appena ce ne sia l’occasione: ed ecco il 1862 (Aspromonte), ed ecco il 1867 (Mentana) ed ecco anche altri episodi meno noti. Invece per l’ala governativa che va raccogliendo sul confine di sinistra coloro che si allontanano dal mondo repubblicano, la priorità è governare. Ecco, il problema è quello che noi chiameremmo la “governabilità”. E la chiusura dei conti con il passato e con quella mina vagante che è il volontarismo politicizzato, che si vuole far finire per sempre.
Ecco perché l’ultimo grande scontro parlamentare prima della morte di Cavour è proprio su questo: l’esercito meridionale, cioè i volontari garibaldini, possono o no, se lo vogliono, entrare nell’esercito regolare? No, secondo Cavour e i moderati, che li vedono come un pericolo, una sorta di partito politico con la camicia rossa, agenti del rinnovamento radicale, qualcosa insomma che potrebbe erodere la gerarchia, l’autorità, i valori dell’ubbidienza – magari anche cieca – che all’epoca sono caratteristici di ogni esercito regolare. Ma il Risorgimento italiano si caratterizza e differenzia rispetto per esempio a quello tedesco proprio perché l’Italia ha avuto in dono dalla storia e dalla politica un Mazzini e un Garibaldi, e una forte partecipazione dal basso di carattere volontaristico. Tutto ciò è servito a pensare, sognare, costruire lo Stato. Una volta raggiunto l’obiettivo, queste stesse virtù – la partecipazione politica, il voler essere cittadini consapevoli e attivi – si rovesciano in vizi, dal punto di vista dei governanti, quantomeno quelli più moderati, che a questo punto si comportano da conservatori, mentre i conservatori diventano reazionari.

Depretis a questo punto inventa la formula della “rivoluzione disciplinata”: «ordinata a un fine santissimo, al fine di liberare l’Italia, al fine di unificarla, a un fine d’ordine e libertà». Così ciò che nel 1848 era terribile guerra civile, nel 1960 diventa causa santa, e ciò che nel 1860 era causa santa, nel 1962 e oltre torna ad essere terribile sovversione.   

Isnenghi. Sì, per Depretis Garibaldi è ormai il “rivoluzionario disciplinato”. Un bell’ossimoro, indubbiamente, che si pretenderebbe di mettergli addosso come una camicia di forza, mentre lui si divincola e vorrebbe rimettersi la camicia rossa. Lo si indica come esempio agli altri, ai mazziniani, agli stessi garibaldini... A Mazzini, il “terrorista” Mazzini, come qualcuno non si perita di dire. Dunque: la rivoluzione c’è stata, a questo punto bisogna avere il coraggio di “spezzare la propria vita in due”.

E qui il pensiero corre alla politica di oggi. Alla luce della storia di fine Ottocento, il trasformismo appare non come una tattica, ma come la più radicata e perdurante cultura politica italiana.

Isnenghi. Oggi le vite sono spezzate, ma non in due: in tre, in quattro, continuamente destituite di senso, nominate e rinominate. Gli esponenti della Sinistra storica si trovano comunque davanti alla solita questione: mantenere o no la possibilità di proseguire in un’azione che può diventare violenta, eversiva, illegale? La democrazia risorgimentale (quella che non passa subito alla Destra storica divenendo moderata) può continuare a pensare a Venezia (fino al 1866) e a Roma (fino al 1970)? E poi addirittura a Trento e Trieste? Qualcuno risponde sì, mantenendo aperta la possibilità dell’intervento anche violento nel nome del Risorgimento che continua. Ma questo non è tutto. Perché oltre agli ex garibaldini e agli ex mazziniani che avevano vent’anni alla metà dell’Ottocento e restano coerenti con se stessi e continuano a coltivare queste idee risorgimentali, oltre a loro, negli anni Settanta e Ottanta e più avanti arrivano nuove generazioni di ventenni. Che cosa vuol dire allora essere rivoluzionari nel 1870, nel 1880, nel 1890? Può continuare a voler dire essere dei patrioti repubblicani, garibaldini o mazziniani – e teniamo presente che Mazzini muore nel 1872 e Garibaldi nell’82. Nelle bande internazionaliste degli anni Settanta e Ottanta ci troviamo anche tanti ex garibaldini. Non tutti rifluiscono a destra. Lo stesso Garibaldi può essere definito un “pentito”, ma lui si pente non da destra, ma da sinistra:  a Caprera Garibaldi pensa, legge e scrive “pentendosi” di essere stato troppo moderato. Nel 1870-’71 è in Francia alla guida di un esercito di volontari a sostegno dell’esercito della nuova Francia repubblicana nella guerra franco-prussiana, torna in azione mettendo tra parentesi quello che aveva fatto la Francia nel 1849 o nel 1867 contro la causa italiana: accorre perché per lui la Francia è la Francia della Rivoluzione. Garibaldi è un libertario che agisce non solo per la propria patria, ma accorre dovunque una buona causa lo chiami. Il Garibaldi di Caprera non è solo il vecchio acciaccato brontolone che i moderati pensano di aver sostanzialmente domato e mandato di fatto in esilio, è invece un uomo che riaffila le armi e ripensa criticamente a se stesso e a tutto il Risorgimento (per esempio attraverso il tristissimo Poema autobiografico che scrive in versi e che aveva iniziato già nel 1862, dopo l’Aspromonte, in una prigione vicino a La Spezia).
Alcuni scelgono invece di “spezzare la loro vita in due”. E quindi giudicano un male la coerenza, perché significa continuare a vivere come una volta quando invece la società è cambiata e richiede nuovi impegni e nuovi doveri.

A meditare sulla storia del primo Stato unitario non si può fare a meno di riconoscere alcuni tratti che sembrano ricorrenti nelle vicende politiche italiane. La doppiezza (i conservatori utilizzano Garibaldi se vince, pronti a scaricarlo se perde). La doppia verità (Cavallotti e Depretis si scontrano nel 1867 su ciò che si fa in modo occulto – il sostegno a Garibaldi nel 1860 – ma non si deve dire). Il trasformismo (realizzato da un ceto politico fatto di ex).  
                                                                                
Isnenghi. Non si è mai finito di approfondire che cosa s’intenda per “trasformismo”, termine che applicato a epoche e situazioni politiche diverse può essere anche considerato diversamente. A me “trasformismo” continua a suscitare sentimenti di eccessiva vicinanza a un’altra parola, “opportunismo”, che, a differenza della prima, non è stata ancora espressamente oggetto di recuperi positivi. Sono d’accordo sul rilievo e sulla lunga durata di questo termine, così come sulla sua applicabilità alla seconda metà dell’Ottocento e nuovamente all’oggi. Credo che possa essere interpretato, appunto, in due maniere. Da una parte il trasformismo è considerato una forma di pragmatismo e di laica capacità di giudicare caso per caso, svincolandosi da postulati e apriori. Dall’altra è assimilabile invece all’opportunismo. Comunque si propenda, il trasformismo è parte integrante della storia d’Italia, che è il paese degli ex: assunto a punto di partenza il 1861, è un ex Crispi, un ex Mussolini e naturalmente sono ex coloro che dirigono l’Italia postfascista. E oggi il paese è di nuovo pieno di ondate di ex. Oggi il trasformismo è dentro il declino e la crisi di alcune ideologie (attenzione: non “morte delle ideologie”, ma fine di alcune ideologie, sostituite da altre). Nella crisi dei partiti che si richiamavano ad alcune ideologie, ecco che il trasformismo può giocare una parte rilevante, perché tutto si trasforma, le forze politiche si trasformano, i loro referenti si trasformano, cambiano la collocazione e il posizionamento di ciascuno rispetto agli altri e tutto diventa molto plastico, malleabile e ballerino. Altro che “spezzare la propria vita in due”: il verbo spezzare mantiene un che di drammatico, aspro ed eroico; qui invece c’è solo un universale, continuo ripegare e piegarsi.

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