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Era Contrada a spiare Di Pietro

Mani pulite? Un complotto della Cia, con Antonio Di Pietro manovrato dai servizi segreti. Questa tesi viene periodicamente fatta riaffiorare nel tentativo di delegittimare Di Pietro e distruggere perfino il ricordo di Mani pulite. È contraddetta dai fatti: i servizi entrarono sì in campo. Ma contro Di Pietro e il pool

di Gianni Barbacetto

Mani pulite? Un complotto della Cia, con Antonio Di Pietro manovrato dai servizi segreti. Questa tesi, che periodicamente viene fatta riaffiorare nel tentativo di delegittimare Di Pietro e distruggere perfino il ricordo di Mani pulite, è contraddetta dai fatti. I servizi segreti si occuparono sì di Mani pulite, tra il 1992 e il 1994, ma già allora per colpire Di Pietro e i suoi colleghi del pool. Dossierati fin dai primi mesi dell'indagine sulla corruzione: con l'apporto anche di Bruno Contrada, che era il dirigente del Sisde che raccoglieva le informative illegali sui magistrati di Mani pulite.

«La raccolta di materiale informativo comincia tra la primavera e l'estate del 1992, quando appare chiaro che le inchieste non si fermano dopo i primi arresti»: così scrive il Comitato parlamentare di controllo sui servizi di sicurezza nella sua relazione del 6 marzo 1996. «Il questore Achille Serra teneva contatti periodici con Di Pietro per disposizione di Vincenzo Parisi, allo scopo di informare il capo della polizia sulle implicazioni che le vicende giudiziarie milanesi potevano avere sull'ordine pubblico, sulle istituzioni, sulla stabilità delle grandi imprese coinvolte nelle inchieste. Ma la disposizione impartita a Serra dimostra che vi era una preoccupazione politica circa i rischi di destabilizzazione. Questa preoccupazione politica è stata incoraggiata dall'autorità di governo e risulta, come vedremo, fortemente avvertita dal presidente del Consiglio Giuliano Amato».

A spingere l'attività informativa, in questa prima fase, è Bettino Craxi. E a realizzarla sono soprattutto uomini del Sisde (il servizio segreto civile) e del secondo reparto della Guardia di finanza (il servizio segreto interno alle Fiamme gialle). Non si conoscono, invece, eventuali attività analoghe svolte dal Sismi (il servizio segreto militare). In ogni caso, il Comitato parlamentare non ha dubbi: la raccolta di notizie riservate era assolutamente «illegittima» ed estranea ai compiti istituzionali degli organi di polizia e di intelligence.

Le informazioni su Di Pietro e colleghi le raccoglie, per conto del Sisde, la cosiddetta "fonte Achille" (che rimarrà anonima) e riguardano il periodo che va dalla primavera 1992 al 1993. Coordinatore dei centri Sisde del Lazio, che riceve personalmente nelle sue mani alcune delle informative, è Bruno Contrada. Lo stesso Contrada che, invitato come Di Pietro alla cena dei carabinieri di Roma per gli auguri di Natale del 1992, appare sulla fotografia in questi giorni pubblicata con grande rilievo, come prova di chissà quale rapporto oscuro tra l'allora magistrato e l'agente segreto che sarà poi arrestato e condannato per mafia.

Le informative Sisde non sono di grande qualità. Quella datata 29 aprile 1992 e consegnata dalla fonte proprio nelle mani di Contrada, comunica che «Di Pietro sarebbe stato sul punto di prendere provvedimenti nei confronti del figlio dell'onorevole Craxi: un avviso di garanzia» per Bobo. Mai mandato, mai neppure ipotizzato. La nota del 4 maggio insiste: nei confronti di Bobo Craxi sta per essere emesso addirittura un ordine di cattura. Parallelamente, avviene il dossieraggio realizzato da uomini della Guardia di finanza: «un complesso e intenso lavoro», spiega il rapporto della Commissione parlamentare, «volto a raccogliere note informative sui magistrati (tra i quali il dottor Di Pietro, il dottor Colombo e altri), sulla loro vita, sulle indagini, sui rapporti dell'uno o dell'altro con i colleghi e con individuati elementi della polizia giudiziaria» e «riferiscono presunte scorrettezze, che poi verranno contestate nelle ispezioni ministeriali dall'autunno del 1994 in avanti».

È da questi dossier che Craxi attinge per costruire il «poker» annunciato nell'agosto 1992 contro Di Pietro e poi per tentare nel 1994 l'affondo finale contro il pool e il suo simbolo. Ed è da queste attività informative illegittime che proviene gran parte del materiale che sarà trovato, durante una perquisizione del 1995, negli uffici romani di Craxi in via Boezio. Dice il Comitato: «C'è una sinergia informativa tra le carte in possesso dell'ex presidente del Consiglio e questi documenti. Su alcune situazioni (per esempio le indagini relative ad attività economiche riconducibili al Pci) egli ha utilizzato per le proprie schede materiali provenienti da quei dossier». Su Di Pietro, poi, Craxi accumula «una serie cospicua di schede informative, idonee a gettare sospetti infamanti e a demolire l'immagine del magistrato. Esse riguardano l'intera carriera del dottor Di Pietro da quando era in polizia, le sue amicizie, una serie di vicende private in base alle quali vengono costruite accuse contro di lui».

(Il Fatto quotidiano, 5 febbraio 2010)



Mani pulite, quel "trappolone" del 1993

Mani pulite è, come qualcuno adombra in questi giorni, un complotto ordito dalla Cia? A restare ancorati ai fatti, nella storia dell'inchiesta anticorruzione si trova qualche segnale della presenza dell'agenzia americana. Ma in azione contro l'inchiesta e contro Antonio Di Pietro. L'ombra della Cia si materializza al palazzo di Giustizia di Milano fra la primavera e l'estate del 1992. Un avvocato si presenta nell'ufficio del pm Piercamillo Davigo. È Franco Sotgiu, difensore dell'architetto Bruno De Mico, già protagonista dello scandalo delle "Carceri d'oro". De Mico, annuncia Sotgiu, ha importanti comunicazioni da fare, ma non vuole essere visto dai giornalisti.

Si avvia una lunga trattativa sul luogo dell'incontro. Il legale propone un appartamento. Davigo comincia a insospettirsi: abituato alla prudenza, il pm esclude incontri sull'inchiesta fuori dai luoghi deputati, il palazzo di giustizia, le caserme... Impone un appuntamento nella caserma dei carabinieri di via Moscova. De Mico accetta e dopo molte esitazioni racconta che ci sono «ambienti americani» disponibili a dare una mano al pool, per garantire la sicurezza dei magistrati e aiutarli a riportare in Italia i latitanti. Questi «ambienti americani» - continua De Mico - per entrare in azione attendono un segnale: la partecipazione di un magistrato del pool, preferibilmente Di Pietro, a 60 Minutes , programma tv della Cbs.

Davigo esce dall'incontro perplesso: in questa storia in cui si evoca la Cia sente odore di bruciato. Sa che la magistratura italiana non può avere rapporti con i servizi segreti. Pensa: «Questo è un trappolone». Che cosa succederebbe se qualcuno riuscisse a dimostrare che Mani pulite ha accettato collaborazioni illegittime? Così stende un rapporto al procuratore Francesco Saverio Borrelli e, per non sbagliare, apre un procedimento penale a carico di De Mico e di ignoti per il reato previsto dall'articolo 246 del codice penale: spionaggio per conto di Stati stranieri.

Le perplessità aumentano quando l'avvocato Sotgiu telefona al numero riservato di casa di Davigo chiedendo un nuovo incontro in tempi brevissimi, a quattr'occhi: «Le devo parlare, vengo a casa sua». Il magistrato rifiuta: «A casa mia non se ne parla. Se vuole, ci vediamo nel suo studio». Ci va con due ufficiali dei carabinieri: uno lo accompagna all'incontro; l'altro, a capo di una piccola squadra, controlla l'esterno per verificare eventuali presenze. Sotgiu, come già De Mico, si rifiuta di verbalizzare. Davigo allora se ne va, lasciando sul posto il carabiniere, che come ufficiale di polizia giudiziaria può avvalersi di "fonti confidenziali".

In questo e poi in un secondo incontro con l'ufficiale, Sotgiu ribadisce la disponibilità di non meglio specificati «ambienti americani» a consegnare alla giustizia alcuni latitanti: sostanzialmente Silvano Larini, amico di Bettino Craxi e postino delle sue tangenti. Purché nessuno faccia domande sui sistemi usati per rintracciarli e rimpatriarli. L'ufficiale, opportunamente istruito, non solo non dà alcuna garanzia d'impunità per i misteriosi protagonisti del blitz, ma diffida apertamente l'avvocato dal commettere reati. Con questo, i rapporti si interrompono.

Borrelli, costantemente informato dai rapporti scritti di Davigo e dei carabinieri, si allarma: sono in atto interferenze straniere? Insieme al procuratore generale Giulio Catelani decide di coinvolgere il capo dello Stato. I due magistrati chiedono udienza a Oscar Luigi Scalfaro, che li accoglie con un grande cortesia che diventa però freddezza e imbarazzo, via via che Catelani e Borrelli spiegano il motivo della visita. Il presidente fa capire che la questione non è di sua competenza e li congeda.

Un anno dopo, arriva una seconda, inattesa puntata della storia. È l'autunno 1993. A Milano il giudice Guido Salvini è impegnato nell'ultima indagine sulla strage di piazza Fontana. Biagio Pitarresi, personaggio dell'ambiente neofascista che ha accettato di collaborare alle indigini, gli confessa di essere in contatto con un uomo della Cia a Milano: Carlo Rocchi, che lavora da decenni per gli americani, è stato l'ultimo a vedere Michele Sindona vivo in carcere e ha rapporti anche con il capocentro del Sisde a Milano, che chiama «dottor Rinaldi».

Rocchi - dice Pitarresi - gli ha chiesto di passargli informazioni sulle indagini di Salvini su piazza Fontana, ma anche su un'altra indagine in corso a Milano: quella di Mani pulite. «L'ultimo favore richiestogli», conferma un rapporto del Ros in data 17 dicembre 1993, «era stato quello di rintracciare il Larini prima che lo trovassero le forze di polizia italiane... In relazione a tale sollecitazione giunta al Pitarresi, si rappresenta che lo stesso, nel corso dell'ultimo colloquio, faceva presente che tra qualche mese sarebbe stata effettuata un'operazione di screditamento del Dr. Di Pietro, basata su un servizio da esso prestato presso la polizia di Stato».

La profezia si avvera: qualche mese dopo, il Gico della Guardia di finanza di Firenze tenterà di coinvolgere Di Pietro in un'indagine sulle presunte coperture concesse, quand'era poliziotto, a un gruppo di mafiosi che avevano base all'autoparco milanese di via Salomone. Basta un controllo ai tabulati telefonici per chiudere il cerchio: Rocchi è in contatto con l'architetto De Mico. E una perquisizione dei carabinieri scopre nel suo ufficio una fotocopia del passaporto di De Mico.

Diciassette anni dopo quella strana vicenda, Davigo e Di Pietro non hanno ancora maturato certezze. Fu davvero un'intromissione della Cia, o un'iniziativa personale di De Mico? Fu «un trappolone», un tentativo di indurre il pool a qualche passo falso? Di certo c'è soltanto che, se la Cia intervenne davvero, non fu per aiutare, ma per controllare, ed eventualmente mettere in difficoltà, Di Pietro e la sua indagine.

(Il Fatto quotidiano, 6 febbraio 2010)


 
 
 

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