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Grandi opere col trucco

Il ponte sullo Stretto. E poi autostrade, ferrovie, metropolitane...
Le infrastrutture promesse da Berlusconi restano una chimera: i soldi sono pochi. Ma se alla fine si faranno, sarà con un metodo che occulta i debiti dello Stato. E lascia poi un buco all’Europa


di Gianni Barbacetto

La sera del 18 dicembre 2000 un Silvio Berlusconi in gran forma, ospite del salotto televisivo di Bruno Vespa, traccia su alcune cartine d’Italia le mappe delle grandi opere da realizzare. Strade, autostrade, ferrovie, ponti, metropolitane... Porta a porta, quella sera, diventa la più grande televendita della storia. «Guardi qua, il ponte sullo Stretto. Una grande opera, no? Ecco: si può fare. Servono 9 mila miliardi: i privati possono mettercene 4.500, l’Europa ne ha già stanziati altri mille, bastano solo altri 3.500 miliardi». Come rinunciare all’idea? Il passante di Mestre: «Costerebbe solo 1.500 miliardi». E poi via, un lungo elenco di mirabolanti offerte speciali, assolutamente imperdibili. Il paese di Bengodi raccontato con incrollabile entusiasmo.

Risultato: ottimo successo di audience (oltre 2 milioni e mezzo di telespettatori). E gran seguito di polemiche: per il trattamento di favore riservato da Vespa all’allora leader dell’opposizione, per lo spottone elettorale regalato al leader del centrodestra. In più, il radicale Daniele Capezzone invoca l’intervento di Striscia la notizia: «Questa puntata di Porta a porta costituisce una pagina televisiva che merita di essere a lungo conservata e studiata. In particolare la scenetta di un Berlusconi che sembra snocciolare a memoria nomi e numeri, ma in realtà ripassa i testi già scritti a matita sui cartelloni». Il ministro dei Lavori pubblici del governo ulivista in carica, Nerio Nesi, grida invece al plagio: «Per caso ho visto il capo dell’opposizione che disegnava il mio piano, e da un certo punto di vista sono stato anche molto contento. C’è una sola differenza: lui dà per scontato il ponte sullo Stretto, mentre io no».

Da quella puntata di Porta a porta sono passati quasi due anni e i nodi sono venuti finalmente al pettine. Le mirabolanti promesse della televendita elettorale non sono state mantenute. Anzi: «È meglio fermarci un minuto», ha dichiarato Berlusconi il 27 settembre, mentre era in corso il braccio di ferro sotterraneo per varare la nuova legge finanziaria e già la parola fatidica («sacrifici») era stata pronunciata. «È meglio fare magari anche un passo indietro nelle infrastrutture del traffico, strade e ferrovie, per poter poi fare un salto nel futuro e avere un Paese moderno. Ho infatti trovato nel cassetto dei progetti su strade, autostrade, ferrovie e alta velocità assolutamente tutti superati rispetto alle attuali esigenze e alle nuove tecnologie». La volpe dice che l’uva promessa è poco matura.

Che cosa succederà ora? Si faranno le grandi opere, prima fra tutte quel ponte sullo Stretto di Messina che delle promesse di Berlusconi è diventato il simbolo?

ATTO PRIMO. QUANTE?

La commedia delle grandi opere si sviluppa in tre atti. Atto primo: ma quali sono le «grandi» opere? quante sono? e in che cosa si differenziano dalle opere «normali»? Atto secondo: ma ci sono i soldi per farle? Atto terzo, e gran finale: se si facessero, con il sistema finanziario e d’appalti che è stato appositamente messo a punto, che cosa succederebbe del bilancio dello Stato?

Già sul numero delle «grandi opere» comincia il balletto delle cifre. Berlusconi, nella televendita da Vespa, ne indicava una manciata. Dopo la vittoria elettorale, nelle prime intenzioni del suo governo erano una decina, al massimo una dozzina di interventi strategici. Nella delibera Cipe del dicembre 2001 diventavano 220: un lunghissimo elenco di opere e operette messo insieme dopo il confronto tra il ministro incaricato della partita, il titolare delle Infrastrutture Pietro Lunardi, e i rappresentati delle Regioni che spingevano per allargare a dismisura la lista. Il Dpef (il documento di programmazione economica e finanziaria del governo) cercava poi di reintrodurre qualche criterio di priorità, indicando 21 opere «di serie A», che diventavano al massimo 36 considerando qualche intervento complesso. Le 21 (o 36) meraviglie d’Italia comprendevano l’Alta velocità ferroviaria, una serie di strade e autostrade (tra cui la Salerno-Reggio Calabria, l’asse viario Marche-Umbria, i nodi integrati di Roma, Genova, Napoli, Bari, Catania), il passante di Mestre, i valichi ferroviari del Frejus, del Sempione e del Brennero, il sistema Mose contro l’acqua alta a Venezia, interventi idrici al Sud e, naturalmente, il ponte sullo Stretto.

Poche, in verità, le novità: l’elenco sembra ripreso più o meno dal Libro bianco sulle opere pubbliche di Lamberto Dini, stilato nel 1995. E anzi, l’ideazione del sistema finanziario dell’Alta velocità, piatto forte del banchetto delle grandi opere, è perfino precedente, risale ai bei tempi di ’O Ministro, ovvero il democristiano napoletano Paolo Cirino Pomicino. Già i governi dell’Ulivo si erano comunque impegnati (ma senza propaganda televisiva) a realizzare più o meno le stesse opere, con la vistosa eccezione del ponte sullo Stretto, e il «comunista» Nerio Nesi, ultimo ministro dei Lavori pubblici prima dell’era Berlusconi, si era già dato da fare per rassicurare costruttori e impresari che ci sarebbe stato lavoro per tutti.

Ma perché «grandi opere»? Lo spiega, riservatamente, un costruttore piemontese: «Perché disciplinate da leggi speciali. Per aggirare le leggi ordinarie». Ma quanto siano «speciali» le opere e le leggi che le regolano lo capiremo soltanto arrivati al terzo atto della commedia.

ATTO SECONDO. E I SOLDI?

Non ci sono, i soldi per fare le opere, grandi o piccole che siano. Il Dpef prevede investimenti per grandi infrastrutture strategiche per oltre 125 miliardi di euro (poco meno di 244 mila miliardi di vecchie lire), con una spesa nel triennio 2002-2004 di 24 miliardi di euro (47 mila miliardi di lire). Il ministero delle Infrastrutture aveva assicurato che sul tavolo, per il prossimo triennio, c’erano 12 miliardi di euro, già destinati da leggi precedenti a specifiche grandi opere, mentre altri 8 miliardi sarebbero arrivati dal collegato alla legge finanziaria. Totale, circa 20 miliardi di euro: meno dei 24 necessari secondo il Dpef.

Poco male, tanto già la legge collegata alla Finanziaria 2002 aveva preso a colpi di scure le previsioni, ridimensionato le cifre e ridotto a 4,7 miliardi (invece di 8) le risorse destinate alle grandi opere. Mancano all’appello più di 6 miliardi di euro, da trovare chissà dove. Nel 2002 c’era già stato un calo degli stanziamenti pubblici per le opere (un 1 per cento in meno rispetto all’anno precedente). Ora è arrivata la Finanziaria dei «sacrifici» per il 2003: i particolari per le infrastrutture sono rimandati a una legge collegata, prevista per il prossimo novembre; ma già ora appare che, se non ci saranno ulteriori cali, non ci saranno neppure incrementi. E le opere straordinarie ruberanno risorse alle opere ordinarie.

In più, lamentano i costruttori, il decreto legge 194 del settembre 2002 ha reso più difficile spendere anche i soldi che lo Stato ha già stanziato. Fino a ora, le cifre che non si riuscivano a spendere (i cosiddetti residui passivi) restavano a bilancio per i successivi tre anni, e c’era la speranza di recuperarle. Adesso non più: i residui passivi stanno nel bilancio dello Stato solo un anno, poi via. Poiché i tempi per completare una grande opera (ma anche una piccola) sono molto lunghi, è ipotizzabile la cancellazione di quasi tutte le risorse stanziate di anno in anno per la realizzazione di infrastrutture. I soldi – si lamentano i costruttori associati nell’Ance – spariranno via via che saranno bandite le gare, anzi anche prima.

Fare un’opera, infatti, è un’impresa. Dal momento in cui questa è immaginata, occorrono 511 giorni (cioè 1 anno e 5 mesi) perché venga consegnato il progetto. Altri 74 giorni (2 mesi e mezzo) perché il progetto sia approvato. Poi 161 giorni (oltre 5 mesi) per la pubblicazione del bando. Se le opere sono «grandi» (valore: più di 15 milioni di euro) per la progettazione occorrono 1.206 giorni (3 anni e 5 mesi) e altri 111 (4 mesi circa) per la sua approvazione. Non è finita. Ci vogliono 48 giorni per la presentazione delle offerte da parte dei concorrenti alla procedura d’aggiudicazione, 45 giorni per lo svolgimento della gara, 65 per la stipula del contratto, 42 per la consegna dei lavori. Insomma: per poter cominciare a spendere i soldi dello Stato, occorrono in media 904 giorni (circa 2 anni e mezzo).

Poi si arriva finalmente ai cantieri. Ma per aprire un cantiere ci vogliono in media 2 anni e 7 mesi, che diventano anche 4 anni e 9 mesi per le opere di grandi dimensioni. A questo punto, e solo a questo punto, possono cominciare i lavori veri e propri. Secondo i dati dell’Ance, questi durano in media 223 giorni. In definitiva: per realizzare un’opera pubblica occorrono 3 anni e 2 mesi, che diventano 5 anni e 4 mesi nel caso di grande opera. E questo se tutto va liscio. Cosa che, in Italia, è rara.

ATTO TERZO. L’AZZARDO

Il bello di tutto il castello di carte delle grandi opere pazientemente messo in piedi da Silvio Berlusconi, Pietro Lunardi e Giulio Tremonti (il ministro dell’Economia) è che, come tutti i castelli di carte, finirà per cadere. E rivelarsi, addirittura, una truffa ai danni dell’Unione europea. Potrà trascinare l’Italia nel pozzo senza fondo della bancarotta e perfino mettere in pericolo la stabilità dell’euro. Per verificare questa ipotesi nera, anzi nerissima, occorre farsi guidare da un ricercatore bolognese, Ivan Cicconi, già capo della segreteria tecnica del ministro Nesi e direttore del Quasco, un centro studi specializzato nel campo delle costruzioni.

Qual è il modello finanziario e contrattuale inventato per le grandi opere? È quello codificato da tre leggi. La prima è quella voluta da Berlusconi per le cosiddette opere strategiche, cioè la legge Obiettivo (numero 443 del 2001, con conseguente decreto legislativo numero 190 del 2002), che dà vita al deus ex machina del nuovo sistema, un dinosauro economico chiamato general contractor: cioè una mega-impresa a cui sarà affidato dallo Stato il compito di decidere tutto, progettazione, affidamenti, appalti, direzione lavori, esecuzione, collaudo... La seconda è quella definita da Tremonti, cioè la legge salva-deficit (numero 112 del 2002), che fa nascere dal nulla due società, due centauri un po’ pubblici e un po’ privati (di capitale pubblico ma di diritto privato): la Patrimonio dello Stato spa e la Infrastrutture spa. La terza nasce dalla testa di Lunardi ed è la legge delega sulle infrastrutture (numero 166 del 2002), che stravolge la precedente legge Merloni sui lavori pubblici e introduce la quadratura del cerchio, il miracolo per fare ciò per cui non si hanno i soldi: il project financing.

La trinità Berlusconi-Tremonti-Lunardi ha così inventato un modello nuovo, anzi nuovissimo, per far sorgere le grandi opere. In verità, i tre dovrebbero ringraziare un genio della Prima Repubblica, Cirino Pomicino, inventore nel lontano 1991 dell’architettura contrattuale e finanziaria della Tav, l’Alta velocità ferroviaria. Un po’ lo hanno ringraziato, citando la Tav quando è stato presentato il decreto attuativo della legge Obiettivo: «L’affidamento a general contractor ha consentito alle Ferrovie dello Stato di dimezzare i tempi di realizzazione delle tratte Alta velocità avviate, con una spesa finale non dissimile». L’affermazione, naturalmente, non trova riscontri in natura: per esempio la tratta Tav Bologna-Firenze (che Lunardi conosce bene, perché con la sua società Rocksoil è tuttora consulente dei lavori) è partita nel settembre 1991 con una previsione di spesa di 2.100 miliardi di vecchie lire.

Oggi sono passati 11 anni, i cantieri non sono ancora chiusi e i costi sono lievitati a 8.150 miliardi: raddoppiati i tempi, quadruplicati i costi. Ma queste sono quisquilie. L’importante è che il «nuovo» modello – in realtà il vecchio modello Tav con in più un tocco di cosmetici, un po’ di rossetto qua, un filo di rimmel là – abbia realizzato una sorta di sanatoria nei confronti dei profili di illegittimità del sistema Tav, già descritti e denunciati dall’Antitrust e dalla Procura di Perugia. E abbia introdotto il general contractor come soggetto economico incaricato della progettazione e della realizzazione, senza alcuna responsabilità sulla gestione finale dell’opera. E il project financing come sistema per attingere soldi privati, ma del tutto garantiti dallo Stato.

CENTAURI E DINOSAURI

Un bel sistema. Il general contractor progetta e costruisce l’opera, ma senza rischi: sa che non la gestirà, che non dovrà ricavarci i soldi spesi, perché questi sono interamente pagati e garantiti dallo Stato. Non ci si potrà stupire, dunque, se il general contractor spingerà a far durare il più possibile i lavori e a far lievitare al massimo i costi (esattamente quello che è già successo con le tratte dell’Alta velocità: dovevano costare 18.400 miliardi di lire nel 1991, nell’agosto 2001 costavano già 34.880 miliardi, alla fine lieviteranno, secondo una stima del Quasco, verso i 76.100 miliardi). Inoltre il general contractor, a differenza del concessionario tradizionale, di lavori o di servizi pubblici, potrà agire in regime privatistico, potrà affidare i lavori a chi vorrà, anche a trattativa privata, e qualunque cosa faccia non sarà mai perseguibile per corruzione: è un privato, eventuali tangenti saranno soltanto «provvigioni».

Altra idea geniale, quella del project financing: i soldi arriveranno in parte direttamente dallo Stato, e per il resto dai privati (le banche), ma garantiti totalmente dallo Stato, attraverso Infrastrutture spa o Stretto di Messina spa (società interamente pubbliche, ma di diritto privato). Così per anni lo Stato avrà un debito, ma occulto, che non sarà iscritto nel bilancio dello Stato e non inciderà nel calcolo dei parametri del Patto europeo di stabilità. Alla fine, però, al tavolo di poker delle grandi opere le fiches dovranno essere trasformate in soldi. Al termine dei lavori, dopo – chissà – una decina d’anni, la Tav spa, la Infrastrutture spa, la Stretto di Messina spa (e, in ultima analisi, il ministero dell’Economia) dovranno restituire i prestiti delle banche. E di colpo si aprirà una voragine. Capace di affondare l’Italia e di trascinare nel disastro l’euro.

Perfino l’Ance (l’associazione dei costruttori italiani) è arrivata a fischiare il numero due di Lunardi, il viceministro Ugo Martinat, durante una manifestazione organizzata il 26 settembre alla Luiss di Roma. Ormai solo l’Agi (l’associazione che riunisce le trenta imprese grandi e grandissime) plaude alla linea Lunardi e lo appoggia con trasporto, aiutandolo anche all’interno del ministero. Dicono i sostenitori del modello grandi opere: le opere garantiranno utili sufficienti a pagare i debiti. Veramente improbabile: per la sola Tav la quota annua da restituire sarà prevedibilmente intorno ai 5 mila miliardi di vecchie lire; la quota annua di utili disponibili grazie ai biglietti ferroviari potrà arrivare al massimo attorno ai 500 miliardi di lire.

Per uscire da questa situazione, dunque, dovremmo sostenere per una quindicina d’anni una manovra finanziaria pari a 4.500 miliardi di lire. Povera Italia, povera Europa. Ma intanto, che importa. Il ponte sullo Stretto avrà la posa della prima pietra, si taglieranno nastri e si stapperanno champagne. Politici sorridenti cominceranno a far «girare soldi», a dare appalti e subappalti, ad accontentare amici e amici degli amici, a raccogliere applausi e voti. Domani, si vedrà.


Ecco chi paga il Ponte

I privati, dice Berlusconi. Bugia: i soldi li metterà Fintecna. Così i ricavi delle privatizzazioni, fatte per salvare i conti dello Stato, serviranno per finanziare un'opera che indebiterà lo Stato. Per farla iniziare hanno anche truccato i conti. Ma questa volta si farà: Berlusconi vuole la prima pietra alla vigilia delle elezioni. I lavori, però, saranno mai terminati? Ambientalisti e imprenditori uniti contro la cattedrale nel deserto. Intanto la 'Ndrangheta è già all'opera

di Domenico Marcello



Gli articoli sul ponte dello Stretto di Messina sono un genere giornalistico. I cronisti fingono di credere alle notizie che scrivono su un progetto di cui si parla da oltre trent’anni e che, a quanto pare, non si realizzerà mai per mancanza di soldi. Perciò è giusto incominciare questa inchiesta dalla grande novità: a quanto pare, stavolta si farà. Non importa che nessuno ne senta la mancanza. Non importa che il progetto finanziario sia basato su dati falsi e che l’impatto ambientale sia colossale persino per una zona abituata a sismi e maremoti. Non importa che gli industriali siano contro e, in anteprima mondiale, alleati nella battaglia con gli ambientalisti. Non importa che le stesse imprese edili vedano con preoccupazione un appalto localizzato nel presidio dell’associazione criminale meglio organizzata del mondo.

Il ponte parte perché così vuole l’Uomo Solo al Comando. Silvio Berlusconi ha firmato la delibera il primo di agosto e vuole posare la prima pietra nel maggio 2005. Secondo una strategia sperimentata, il presidente del Consiglio lascia trasparire qualche dubbio negli incontri più riservati, quelli con il governatore siciliano Udc Totò Cuffaro, con il presidente calabrese Giuseppe Chiaravalloti o con il sindaco di Messina Giuseppe Buzzanca, tutti pontisti in via di raffreddamento. Ma la decisone è presa.

Berlusconi ha messo in conto anche qualche mese di ritardo per i ricorsi amministrativi già annunciati. L’importante è arrivare alle politiche del 2006 con i lavori avviati. Se poi al gennaio del 2012 lo stretto di Messina sarà davvero ornato del ponte autoferroviario più lungo del mondo, è un altro paio di maniche. Si sa che le grandi infrastrutture in Italia, e soprattutto al Sud, partono, poi rallentano, infine, si fermano quando i soldi dello Stato finiscono oppure quando arriva la polizia giudiziaria e sequestra i cantieri, come è accaduto alla fine del 2002 con la Salerno-Reggio Calabria. Politicamente, del resto, non è affatto necessario che il ponte entri in funzione e comunque il 2012 è un orizzonte lontano. L’importante è partire con spirito garibaldino. E, certo, con i soldi.

I soldi, ha detto Berlusconi alla Fiera del Levante, non ci sono. Ma per il ponte sì, tantissimi, sufficienti a coprire quasi l’intero costo dell’opera che, inflazione e interessi sul debito inclusi, è stimato in 6 miliardi di euro. Dov’è il trucco? In via Veneto a Roma.

IL TRUCCO DEL PONTE.
Una volta, oltre ai paparazzi, in via Veneto c’era l’Iri, l’istituto per la ricostruzione industriale creato da Alberto Beneduce durante il fascismo con capitali pubblici. Quando lo Stato imprenditore è passato di moda, l’Iri ha perso fascino, potere e aziende. Le imprese pubbliche sono state privatizzate e i soldi sono finiti a tappare i buchi di bilancio.

Ma non tutti i soldi. Nello scorso novembre, quando l’Iri ha chiuso i battenti, in cassa avanzava ancora la liquidità di alcune cessioni. I tre liquidatori dell’ente di Stato, il professor Piero Gnudi di Bologna e due allievi dell’ex ministro prodiano Enrico Micheli, hanno preso questa somma e l’hanno versata in Fintecna, una società controllata al 100 per cento dal ministero dell’Economia. Sull’ultimo bilancio di Fintecna figura un attivo patrimoniale totale di 8,2 miliardi di euro. Di questi, 5 miliardi e 400 milioni sono liquidi con appena 636 milioni di debiti. Una situazione senza uguali fra le imprese italiane e rara anche a livello internazionale.

Con il contenuto di questa cassaforte sarà iniziato il ponte. Fintecna, infatti, è l’azionista principale della Stretto di Messina, la società per azioni incaricata dell’opera. I due manager chiave sono gli ex liquidatori Iri: Maurizio Prato comanda a Fintecna, Pietro Ciucci è amministratore delegato di Ponte sullo Stretto. Gli altri azionisti sono Rete ferroviaria italiana, cioè le Fs, l’Anas, e le due regioni interessate, Sicilia e Calabria. Sono quattro partner problematici, con importanti problemi di bilancio e dubbi di opportunità politica crescente. Chiaravalloti, schiaffeggiato in pubblico per l’audace statuto regionale, è in asse con Mario Tassone, polemico vice del ministro delle Infrastrutture Pietro Lunardi e ras dell’Udc in Calabria. «Il peggio è successo in agosto», dice Alberto Ziparo dei comitati no ponte e coautore de Il ponte insostenibile, «quando il sindaco messinese Buzzanca di An, un ultras del ponte, si è reso conto dell’impatto dei lavori sulla sua città e la sua giunta ha votato una delibera molto critica».

Anche se gli enti locali si defilano, sarà Fintecna a pagare il 40 per cento delle opere che spettano alla parte pubblica. In altre parole, i ricavi delle privatizzazioni, eseguite per migliorare i conti dello Stato, serviranno per finanziare un’opera che indebiterà lo Stato. Per carità, questo lo dice Diario. La Ponte sullo Stretto sostiene invece nel suo studio di fattibilità finanziaria che il ponte, oltre a legare Scilla e Cariddi, a realizzare un ponte con il Maghreb e tante altre cose bellissime, farà guadagnare soldi a palate. Negli studi previsionali, scrive Ciucci, «il valore attuale netto economico risulta sempre positivo (i benefici superano i costi), da un minimo di 1,3 miliardi di euro fino a un massimo di 4,7 miliardi».

E non basta. Alla fine della prima concessione (annus domini 2042) lo Stato potrà rimettere in gara la sua parte e ricavare 12,8 miliardi, se va bene, o 6,2 miliardi, nello scenario a crescita bassa. Com’è possibile tutto questo? Ovvio, con il project financing.
da cheope a berlusconi. Il project financing è una leggenda metropolitana applicata all’economia. Afferma che sia possibile costruire una grande infrastruttura in partnership fra lo Stato e i privati abbattendo le spese dello Stato e facendo guadagnare i privati con lo sfruttamento della concessione. Pedaggi e biglietti, in sostanza. Al mondo non esiste un solo caso di grandi dimensioni in cui questo schema abbia funzionato. Come ai tempi di Cheope, le infrastrutture sono un bagno di sangue. Per informazioni maggiori si può chiedere ai piccoli azionisti o ai gestori di Eurotunnel che, peraltro, è un’opera utile come il Canale di Suez (altra catastrofe finanziaria).

In Italia il maggiore esempio di project financing è quello dell’alta velocità ferroviaria. L’architettura finanziaria era identica a quella del ponte: lo Stato mette 40, i privati 60. Ecco com’è andata. I privati, per lo più banche, hanno comprato un gettone di ingresso da 1 miliardo di lire in Tav spa e poi si sono rifiutati di aderire ai successivi aumenti di capitale. Alla fine, la Tav se l’è ricomprata tutta lo Stato e l’ha affidata a Infrastrutture, una spa pubblica al 100 per cento guidata dal reggino Andrea Monorchio.

Ai cittadini il supertreno doveva costare 16 mila miliardi di lire con fine lavori nel 2001. Poi la cifra è un po’ salita e i tempi sono un po’ slittati: 40 mila miliardi di lire e fine lavori al 2003-2004. Oggi si parla di 52 mila miliardi e fine lavori nel 2007-2008. Un successone. E, dato che la meritocrazia dilaga, l’amministratore delegato della Tav ai tempi di Lorenzo Necci, Ercole Incalza, è stato mandato da Lunardi a Bruxelles per convincere l’Ue che il ponte andava messo fra le opere con priorità 1, le più urgenti. «Le pressioni del governo italiano a livello europeo sono state enormi», racconta la senatrice dei Verdi Anna Donati. «La commissaria ai Trasporti Loyola de Palacio, peraltro, è rimasta allibita quando le ho fatto notare che il ponte è in priorità 1, mentre la ferrovia che porta al ponte è in priorità 3».

L’inserimento del ponte nella lista delle opere europee strategiche è di sicuro il risultato migliore della diplomazia berlusconiana. In cambio, la Stretto di Messina potrà ricevere un finanziamento del 10 per cento. «E stanno lavorando», aggiunge Donati, «per portare questa cifra al 20 per cento». Fino a qui, europei o italiani, gli euro del ponte sono sempre pubblici. E i privati?

Lo schema di finanziamento recita testualmente: «L’infrastruttura non prevede l’erogazione di contributi a fondo perduto da parte dello Stato. La fattibilità finanziaria dell’opera sarebbe infatti assicurata da un aumento di capitale di Stretto di Messina nell’ordine di 2,5 miliardi di euro. Il capitale di rischio verrebbe adeguatamente remunerato e, naturalmente, recuperato durante il periodo di gestione». In quanto al 60 per cento privato, sarà coperto «attraverso finanziamenti tipo project finance contratti in più tranche sul mercato intrernazionale dei capitali garantiti unicamente dai flussi di cassa attesi per il progetto. In tale ambito è inoltre certamente auspicabile il coinvolgimento nell’iniziativa di Infrastruttture spa, considerato il suo elevato rating e la possibilità di concedere finanziamenti per durate più lunghe rispetto a quelle normalmente praticate dal sistema creditizio».

Traduzione. Lo Stato, travestito da società per azioni, mette il 40 per cento. Il resto lo chiediamo alle banche italiane ed estere, come ai tempi della Tav. In caso le banche abbiano dubbi sul fatto di recuperare «naturalmente» l’investimento con i pedaggi, lo Stato, travestito da un’altra spa (la Infrastrutture dell’ex ragioniere generale Monorchio), offrirà alle banche una garanzia solida: se stesso.

PREVISIONI FALSE.
La diffidenza insultante degli istituti di credito si fonda sull’analisi dei pochissimi dati messi a disposizione dalla Stretto di Messina. Le due cifre principali, quelle che fanno pensare al ponte come a una macchina da soldi, sono le previsioni di crescita del prodotto interno lordo meridionale e le previsioni sui flussi di traffico. Le previsioni, per definizione, non possono essere false. Ma le proiezioni sul pil sono, come minimo, ottimistiche. Il documento propone due modelli di crescita. Nell’ipotesi più carina il pil al Sud aumenterà del 3,8 per cento fino al 2012, quando il ponte dovrebbe essere completato. Nell’ipotesi prudenziale il pil salirà dell’1,8 per cento.

Ottimismo o mistificazione? Ecco i dati reali. Secondo l’Istat, nel 2002 il Sud è cresciuto dello 0,7 per cento. Sono i livelli più alti degli ultimi dieci anni contro un andamento recente intorno allo 0,2-0,3 per cento. Anche i flussi di traffico si stanno contraendo, soprattutto grazie all’aumento del cabotaggio tanto caro al commissario de Palacio, perché toglie i trasporti pesanti dalle strade. Ma il porto di Gioia Tauro non è l’unico concorrente del ponte. Ci sono i concessionari dei traghetti di Caronte e Tourist ferry boat, rispettivamente la famiglia Matacena e la famiglia Mondello.

Già adesso i loro prezzi (16 euro andata e ritorno) sono inferiori a quelli previsti per il passaggio di un’auto sul ponte (10 euro solo andata) e possono scendere ancora. Nel canale della Manica i gestori di trasporti via mare stanno facendo affari d’oro togliendo clienti all’Eurotunnel. Per evitare che sul ponte, a parte i dieci giorni critici di agosto, ci vadano solo i gabbiani, la soluzione proposta dai pontisti è di limitare le concessioni attuali e togliere di mezzo il ferribotte.

Per niente facile. Qualcuno, prima o poi, dovrà spiegare al commissario europeo per la concorrenza come mai un imprenditore statale sbatte fuori mercato imprenditori privati utilizzando una clava da 5,4 miliardi di euro pubblici. E visto che il liberismo è diventato di sinistra, Elio Matacena, fratello di quell’Amedeo scomparso in estate che sosteneva i boia chi molla nonché zio del forzista dissidente Amedeo junior, si è messo ad appoggiare la lotta e i ricorsi degli ambientalisti. Accanto a Matacena, del resto, si sono schierati compatti tutti gli industriali calabresi che chiedono strade e ferrovie funzionanti invece della classica cattedrale nel deserto.

GRANDE OPERA, GRANDE RISCHIO.
Eppure almeno i costruttori dovrebbero essere contenti. Non si sputa su 6 miliardi di commesse. Ma anche qui la faccenda è più complicata di quanto sembra. Intanto, bisogna fare una gara. Il decreto legislativo del 24 aprile 2003 ha dovuto accogliere le obiezioni del commissario Mario Monti. La strada più probabile, caldeggiata da Giuseppe Zamberletti ex ministro dc di lunghissimo corso e presidente della Stretto di Messina, prevede la gara per la scelta di un general contractor e una gara per la gestione dei raccordi (svincoli, nodi ferroviari eccetera). Lo suggeriscono anche i consulenti di PricewaterhouseCoopers Consulting per «non concentrare i rischi in capo al concessionario».

I rischi, appunto. Il ponte sullo Stretto che dovrebbe fare guadagnare allo Stato 17,5 miliardi di euro da qui al 2042 comporta un rischio di impresa elevatissimo. Chi parteciperà alla gara dovrà impegnarsi, sulla base di un progetto molto vago, a completare l’opera a determinate condizioni. Che succederà se i tempi e i costi risulteranno superiori?

Lo spiegano i due nuovi commi dell’articolo 4 del decreto. «All’entrata in esercizio del collegamento sullo Stretto sarà accertato il costo aggiornato dei lavori e stabilito l’eventuale contributoi integrativo da corrispondere alla società concessionaria per gli aumenti di costo derivanti da forza maggiore, sorpresa geologica o comunque derivanti da richieste del concedente. Ai relativi oneri si farà fronte con le risorse stanziate annualmente per le infrastrutture strategiche» (comma elle).

In altre parole, se l’opera costerà più di 6 miliardi, la differenza ce la mette lo Stato. Ma questa ventata di ottimismo per le imprese è stroncata dal comma u. «Negli atti contrattuali di affidamento dell’opera a terzi la Stretto di Messina ha facoltà di recedere dal contratto ove il progetto comporti sostanziali modifiche alle opere ovvero aumenti di prezzo». Questo vuol dire che se i subappalti fanno impazzire i costi, lo Stato non paga e la patata bollente se la tiene il concessionario. La differenza è sostanziale. Il general contractor deve subappaltare. Quindi trasferirà il rischio sulle piccole imprese. Più d’una è fallita nei lavori dell’alta velocità. Altre, come quelle che lavoravano sui cantieri della Salerno-Reggio Calabria, sono in mano alla criminalità e si sono organizzate risparmiando sui materiali, dato che troppo cemento fa male.

ALLARME MAFIA.
Il governo ha pensato anche all’allarme ’Ndrangheta. Nel sito web della Stretto di Messina si danno riferimenti precisi all’impegno dell’esecutivo e del ministro Lunardi (quello che due anni fa diceva che con mafia e camorra bisogna convivere). Ecco il catalogo.

Nell’aprile 2002 Lunardi istituisce un «Servizio di alta sorveglianza» sugli appalti al Sud. Nell’ottobre 2002 Giuseppe Pisanu, ministro dell’Interno, crea un gruppo di lavoro per monitorare i lavori sul ponte. Nell’aprile 2003 Piero Luigi Vigna, capo della Direzione nazionale antimafia, crea un pool investigativo. A fine maggio, Gianni De Gennaro, capo della polizia, istituisce un Comitato di coordinamento per l’Alta sorveglianza delle Grandi opere. Il 17 luglio Lunardi e la Guardia di finanza firmano un protocollo di intesa contro le infiltrazioni della criminalità negli appalti pubblici.

A dispetto di tutte queste iniziative, l’8 luglio il Sisde, servizio segreto del ministero dell’Interno, scrive nel suo rapporto semestrale che «la ’Ndrangheta si concentra sempre più sugli ingenti finanziamenti collegati alle iniziative di rilancio della Calabria e sulle risorse per la realizzazione delle centrali elettriche, ma soprattutto sulla costruzione del ponte di Messina». Mentre Cosa nostra, secondo il Sisde, è in parte bloccata dallo strappo fra l’ala stragista e l’ala «del basso profilo», le ’ndrine calabresi vanno d’amore e d’accordo. Quando ci sono in ballo i soldi per un porticciolo o un’altra struttura da poco, si contano i morti per strada. Con il ponte ce n’è davvero per tutti.

Diario, 26 settembre 2003



Vedi anche: Grandi opere col trucco (clicca sulla freccia qui sotto)

 

 
 
 

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Nanni Moretti
Ora che ci siamo ritrovati non perdiamoci di vista

Nanni Moretti
Con questi politici non vinceremo mai

Il regalo di Berlusconi
a Bin Laden

Business Week
(del 22 ottobre 2001) scrive: dopo l'11 settembre, c'è un Paese che marcia in direzione opposta all'Occidente: è l'Italia del Cavaliere

Storia del Signor Savoia
Biografia non autorizzata di un erede al trono d'Italia,
piduista e manager di affari oscuri, che mentre tutti ritornano, vorrebbe tornare anche lui

Milano da bere,
atto secondo

Mille indagati per vicende di corruzione. Le tante indagini sulla Regione del "governatore" Roberto Formigoni. Tangentopoli non è mai finita

Piccole bombe crescono
Chi sono, che cosa fanno, che cosa pensano i fascisti di Forza nuova. I loro rapporti con Alleanza nazionale, con la Lega nord, con Forza Italia...

Rinasce «Società civile»
Questa volta nel web,
ecco di nuovo i ragazzacci di Società civile.
Riprende vita, via internet, uno storico mensile milanese

 
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