Quando, a trentanni dai fatti,
arrivarono le ultime sentenze sulle stragi degli anni Settanta,
a destra ci fu chi subito insorse. «Vogliono riscrivere
la storia dItalia con la penna rossa», disse,
nel luglio 2001, lavvocato Carlo Taormina (a quei
tempi uno e trino: contemporaneamente avvocato di uno degli
imputati di strage, deputato di Forza Italia e sottosegretario
allInterno del governo Berlusconi). Ora è il
tempo delle sentenze dappello. In attesa di quella
sulla strage di piazza Fontana, è arrivata quella
sulla strage della Questura di Milano, quattro morti e 46
feriti provocati da un bomba lanciata il 17 maggio 1973
da Gianfranco Bertoli, sedicente anarchico. Un verdetto
che non solo ribalta le conclusioni di primo grado, ma cancella
tutta la storia delleversione degli anni Settanta
fin qui scritta da innumerevoli sentenze e qualche buon
libro di ricostruzione giornalistica o storica: Bertoli
era davvero anarchico, ha fatto tutto da solo, voleva vendicare
la morte di Pinelli, nessun golpe era in preparazione, servizi
segreti e apparati dello Stato sono stati corretti e non
hanno avuto alcun ruolo nella «strategia della tensione».
Anzi, non cè stata alcuna «strategia
della tensione».
A giungere a queste conclusioni è la Corte
dassise dappello presieduta dal giudice Santino
Belfiore (e «martiri di Belfiore» sono ormai
chiamati, nel palazzo di Giustizia di Milano, i magistrati
che per anni hanno lavorato sulleversione di destra,
da Gerardo DAmbrosio a Guido Salvini). Estensore della
sentenza è Luigi Pietro Caiazzo, persona per bene,
giudice di Magistratura democratica, dunque per definizione
«toga rossa» e «penna rossa». Chissà
come faranno, ora, Silvio Berlusconi e alleati a far rientrare
Caiazzo nel loro schema dei «giudici politicizzati».
Ma, lasciando stare le congiure immaginate, la storia dei
processi per strage è una storia di congiure reali.
Che vale la pena di raccontare.
Gianfranco
Bertoli e un numero di Lotta continua
LA
GUERRA NON ORTODOSSA
Tutto inizia in piazza
Fontana, a Milano, il 12 dicembre 1969: lì
avviene la «madre di tutte le stragi», subito
caricata sulle spalle di un anarchico, Pietro Valpreda,
ma in realtà realizzata da un gruppo di neofascisti
con corpose complicità degli apparati dello Stato.
Era in corso una guerra, una guerra non dichiarata, tra
lOccidente e il Comunismo. Un «conflitto a bassa
intensità» («low intensity war»),
una «guerra non ortodossa»: non dichiarata,
sotterranea, combattuta con mezzi non convenzionali, con
eserciti invisibili e combattenti senza divisa, ma pronti
a tutto. La «guerra rivoluzionaria», o «non
ortodossa», era stata teorizzata in ambienti vicini
ai servizi di sicurezza Usa ed era stata introdotta in Italia
in un convegno avvenuto a Roma nel 1965, allhotel
Parco dei Principi, finanziato da un istituto di studi strategici
(ma, in pratica, dal servizio segreto militare), con la
partecipazione di alti ufficiali e giovani neofascisti.
Si era allavvio della «distensione»,
della fase in cui i due blocchi, Est e Ovest, cominciavano
a parlarsi. Fu allora che il fronte anticomunista si divise:
una parte si impegnò nel confronto, scommise sulla
progressiva democratizzazione del fronte avversario; unaltra
invece si radicalizzò, teorizzando che le dottrine
del «dialogo» e della «coesistenza»
tra i blocchi segnavano non già una minore pericolosità
del comunismo, bensì una nuova, più insidiosa
offensiva. La terza guerra mondiale, sosteneva questa parte,
era già iniziata, seppure non nelle forme tradizionali
del conflitto dichiarato: il fronte comunista era allopera
con mezzi politici e psicologici. A questi bisognava contrapporsi,
subito, a ogni costo, con durezza e mezzi adeguati, sullo
stesso terreno. Utilizzo di civili anticomunisti, infiltrazione
nei gruppi avversari dellultrasinistra. Azioni di
«destabilizzazione» (comprese le stragi) per
provocare la richiesta dordine e lintervento
dei militari.
Piazza Fontana è il battesimo del fuoco della
«guerra non ortodossa». Una strage attribuita
ai «rossi» (lanarchico Valpreda) per bloccare
il 68 studentesco e il 69 operaio, per spianare
la strada alla dichiarazione dello stato demergenza
e allintervento dei militari. Qualcosa però
sinceppa. La reazione autoritaria non si dispiega.
Nella «notte della Madonna» (l8 dicembre
1970) la macchina del golpe si mette in moto, ma viene fermata.
Il principe Junio Valerio Borghese è bloccato: forse
una parte del fronte anticomunista usa i golpisti, ma non
vuole andare fino in fondo; gli basta leffetto di
«stabilizzazione» già ottenuto. Gli attentati,
però, si ripetono: 22 luglio 1970, stazione di Gioia
Tauro, sette morti, 50 feriti; 31 maggio 1972, Peteano di
Sagrado, in Friuli, tre morti, un ferito; 7 aprile 1973,
sul treno Torino-Genova il neofascista Nico Azzi rimane
ferito mentre innesca una bomba ad alto potenziale; 12 aprile
1973, durante una manifestazione di missini viene lanciata
contro la polizia una bomba a mano, che uccide lagente
Antonio Marino; 17 maggio 1973, un uomo con la barbetta
e gli occhi spiritati getta una bomba davanti alla Questura
di Milano, in via Fatebenefratelli.
LA
CHIAVE DELLA STAGIONE EVERSIVA
Ecco. Gianfranco Bertoli, una grossa A tatuata sul
braccio, appena bloccato si proclama anarchico. Ha ucciso
e gettato a sinistra la responsabilità di una nuova
strage, provocando nuove richieste dordine. Il partito
del golpe è sempre al lavoro: tra il dicembre 73
e il gennaio 74 scatta lo stato dallarme nelle
caserme italiane; e ai fascisti si unisce anche il «liberale»
Edgardo Sogno, che prepara il suo colpo di Stato, previsto
per lagosto 1974. Intanto, altre bombe nere esplodono:
in piazza della Loggia a Brescia (28 maggio 1974, otto morti,
94 feriti) e sul treno Italicus (4 agosto, 12 morti, 48
feriti).
Se cè una vicenda, in questo intrico
di eversione e depistaggi, che racconta più dogni
altra (anche più di piazza Fontana) che cosè
stata la storia dItalia negli anni Settanta, questa
è la strage della Questura. È la chiave per
capire se vi erano eversioni o un progetto eversivo, singole
stragi o una strategia del terrore, «deviazioni»
marginali o costanti scelte istituzionali. Per questo la
sentenza su Bertoli e la sua bomba è cruciale: determina
la possibilità di raccontare (oppure no) la verità
sulla nostra storia recente.
Dopo larresto, Bertoli ripete di essere un
«anarchico individualista», di aver fatto tutto
da solo. Ma, anche questa volta, qualcosa non funziona.
Malgrado i depistaggi degli apparati dello Stato scattino
puntuali come ad ogni bomba, le indagini di giudici scrupolosi
e le inchieste di giornalisti che non credono alle verità
ufficiali smontano i piani. E anche la storia dell«anarchico»
Bertoli, vendicatore solitario, finisce per sgretolarsi.
Emerge, soprattutto per merito del giudice istruttore milanese
Antonio Lombardi, unaltra verità. Bertoli è
tuttaltro che anarchico e tuttaltro che solo:
da sempre amico dei neofascisti, fin dagli anni Cinquanta
informatore del servizio segreto militare (fonte «Negro»),
uomo della struttura segreta di Gladio; nel 1971 fugge dallItalia
con laiuto di strani personaggi, si rifugia in un
kibbutz israeliano dove sembra fare più il mercenario
che lagricoltore, poi torna in Italia, viene addestrato
per la strage da un gruppo di «neri» in un appartamento
di Verona, infine arriva a Milano, getta la bomba che doveva
uccidere il ministro dellInterno Mariano Rumor (colpevole
di aver chiesto lo scioglimento di Ordine nuovo, il gruppo
fascista fondato da Pino Rauti al centro di ogni manovra
eversiva), ma fallisce lobiettivo perché si
era attardato al bar, a bere un cognacchino.
Tutto ciò viene ritenuto provato nella sentenza
di primo grado, che nel marzo 2000 aggiunge, allergastolo
già inflitto a Bertoli, altri ergastoli ai neofascisti
Carlo Maria Maggi, Giorgio Boffelli, Francesco Neami, Amos
Spiazzi. E 15 anni, per depistaggio, a Gianadelio Maletti,
alto ufficiale del servizio segreto militare. Un anno dopo,
arriva la condanna per la strage di Piazza Fontana per personaggi
dello stesso gruppo. E la «strategia della tensione»
diventa storia, canonizzata in due sentenze che si confermano.
Poi arriva la sentenza Caiazzo, «penna rossa»
che cancella ogni certezza precedentemente raggiunta: in
193 incredibili pagine in cui le prove portate al dibattimento
di primo grado vengono trascurate, o azzerate, o dimenticate,
o svalutate senza giustificazione. Con leffetto di
smentire - ma senza giustificazione logica - una ricostruzione,
sostituita da un altra data per dimostrata - ma non dimostrata
affatto. Ora il sostituto procuratore generale Laura Bertolè
Viale ha fatto ricorso in Cassazione, chiedendo di cancellare
una sentenza giudicata logicamente insostenibile.
«VIVA
PINELLI, VIVA LANARCHIA»
Bertoli era un anarchico? Sostenerlo è davvero
difficile. In tutta la sua vita frequenta per lo più
fascisti, che lo considerano uno di loro. Lo ammette perfino
il suo coimputato Maggi, il capo di Ordine nuovo (On) del
Triveneto. E in carcere frequanta e diventa amico dellideologo
degli stragisti, Franco Freda. Quando il giudice Lombardi,
nel 1991, arriva nella sede del Sismi, ex Sifar, ex Sid,
salta finalmente fuori la scheda della fonte «Negro»,
ovvero Bertoli Gianfranco, e i servizi sono costretti ad
ammettere di averlo avuto in forza come informatore dal
1954 al 1960. La sua scheda, però, porta la data
del 1966, da cui si arguisce che in quellanno ha ripreso
servizio, per proseguirlo almeno fino al 1971. Lo ammettono
gli stessi segretari generali del reparto D del Sid, i generali
Demetrio Cogliandro e Antonio Viezzer. Viezzer lo dice chiaro:
«Ho scritto io, di mio pugno, "cessato",
nel 1971».
Nella sentenza dappello tutto ciò viene dimenticato,
in forza di una nuova testimonianza (lunica chiesta
in aula dalla Corte dassise dappello): quella
dellattuale capo del Sismi, il generale Niccolò
Pollari, che per escludere il ritorno in servizio di Bertoli
nel 1966 racconta una complicatissima storia sui metodi
di classificazione delle schede negli archivi dei servizi;
una spiegazione condita però da una dose massiccia
di «probabilmente», «presumo», «suppongo»,
«ritengo verosimile». Nella sentenza, miracolosamente,
i dubbi diventano certezze. Eppure nel 1971 Bertoli, ricercato
per rapina, era stato fatto espatriare in Israele proprio
dai servizi segreti. Ufficialmente, fuggì aiutato
da alcuni «compagni anarchici», ma erano una
strana compagnia: cera Rolando Bevilacqua, anarchico
ma in realtà informatore del Mossad in contatto con
i carabinieri del colonnello Renzo Monico (arrestato per
depistaggio delle indagini sulla stage di Peteano); cera
Aldo Bonomi, confidente della polizia, doppiogiochista infiltrato
tra gli anarchici (e oggi felicemente ospitato come commentatore
sulle pagine del Corriere della sera e perfino di Avvenimenti);
cera Umberto Del Grande, editore della rivista Anarchia,
ma anche in collegamento con i fascisti di Ordine nuovo
di Verona; e infine cera Enrico Rovelli, il «compagno
anarchico» che corse a portare la foto di Bertoli,
quella inserita sul passaporto falso usato per lespatrio,
al commissario Luigi Calabresi (Rovelli fu anche informatore
dellUfficio affari riservati, con il nome in codice
«Anna Bolena»; in cambio dei suoi servizi ha
avuto un occhio di riguardo dalla Questura per le licenze
e per la sua carriera di manager musicale, gestore prima
del Carta vetrata di Bollate, poi del Rolling stone di Milano,
infine impresario di pop star come Patty Pravo e Vasco Rossi
e oggi proprietario dellAlcatraz di Milano, oltre
che grande amico di Ignazio La Russa).
Giunto in Israele, Bertoli ha la possibilità
di incontrare ed ospitare nel kibbutz dove vive personaggi
del calibro dei fratelli Jemmy, esponenti di Ordre nouveau,
gruppo francese fratello di Ordine nuovo. E di fare più
dun viaggio allestero. Sono molti i testimoni
che lo hanno incontrato (a Venezia, a Recco, a Parigi, a
Marsiglia...). Ma il giudice dappello non ci crede,
perché non risulta dal passaporto: è evidente
però che Bertoli poteva avere a disposizione più
dun passaporto. Nellultimo dei suoi viaggi in
Italia prima della strage - racconta il testimone Carlo
Digilio - Bertoli è «recluso» per alcuni
giorni nellappartamento di via Stella, a Verona, abitato
dal fascista Marcello Soffiati, dove riceve una sorta di
lavaggio del cervello come preparazione dellimpresa
della Questura. Poi, arrivata lora x, compie lultimo
viaggio da Israele a Marsiglia e da lì a Milano.
Con in tasca una bomba a mano israeliana rubata nel kibbutz,
dice (creduto dal giudice dappello). Ma ve lo vedete
il pasticcione Bertoli, che non è riuscito a portare
a compimento una sola azione nella sua vita, passare indenne
i severissimi controlli israeliani e poi francesi e poi
italiani? Più credibile è che lordigno
gli sia stato consegnato a Milano, poco prima dellattentato.
È provato, infatti, che Ordine nuovo (che aveva una
corrente filo-israeliana, collegata con il Mossad, e che
in Israele aveva organizzato un «viaggio di studio»,
nei primi anni Settanta) avesse armi israeliane: già
nel 1966 furono sequestrate nelle abitazioni di due militanti
di Ordine nuovo, a Verona e a Livorno, armi, munizioni e
barattoli di esplosivo gelatinizzante israeliano.
Gli stessi coimputati di Bertoli ammettono più
di quanto lestensore della sentenza non voglia credere.
Amos Spiazzi, militare interno agli ambienti golpisti della
Rosa dei Venti, ha dichiarato in ben due interrogatori di
aver sentito dire negli ambienti di destra, poco dopo la
strage, che la bomba di Bertoli gli era stata data a Milano.
E Gianadelio Maletti, in un suo memoriale mandato alla Corte
nel 2002, afferma: «È ovvio che Bertoli, che
parlava più lingue, disponeva di più passaporti
e di fondi spropositati rispetto al suo lavoro... non può
essere il ladro di polli di cui si parla» (l'ipotesi
di Maletti è interessante: Bertoli sarebbe stato
uomo degli Affari riservati, il servizio segreto civile
di Federico Umberto D'Amato, e il Sid non ne sapeva nulla.
Però il Sid lo copre, almeno a posteriori, come ha
fatto per i responsabili di Piazza Fontana. Ma questo Maletti
non lo ammette: scarica tutte le responsabilità sugli
Affari riservati e solleva il Sid da ogni colpa...).
Nel 1973, dopo la strage, il Sid invece di certo
copre Bertoli, non passando ai magistrati neppure una pagina
di ciò che era conservato negli archivi dei servizi.
Quando poi vengono scoperti gli elenchi segreti della pianificazione
Stay behind (Gladio), ecco anche lì il nome di Bertoli,
accanto a quello di altri personaggi coinvolti nelle vicende
eversive della «guerra non ortodossa», da Enzo
Maria Dantini a Manlio Portolan, da Gianni Nardi a Marco
Morin. Per tutti, gli uomini dei servizi hanno una scusa
pronta, una spiegazione, un caso di omonimia da far valere.
Per Bertoli ci sono quasi riusciti: hanno scovato un altro
Bertoli Gianfranco, nato a Portogruaro, e hanno aperto,
a posteriori, un fascicolo su di lui. Peccato che, accanto
alle smentite dellinteressato («Mai sentito
parlare di Gladio»), ci siano anche alcuni grossolani
errori compiuti dai maestri spioni: in una scheda hanno
scritto che il Bertoli di Portogruaro nel 1965 abitava,
appunto, a Portogruaro. Errore: si erano fidati dellanagrafe,
nella realtà lignaro Bertoli bis si era trasferito
a Mandello Lario, in provincia di Como. Non solo: sulla
scheda dei servizi, formalmente chiusa nel 1972, compare
anche un numero di telefono, 0341/733442. Ai giudici è
bastato un controllo presso la Telecom (allora si chiamava
ancora Sip) per sapere che quel numero era stato attivato
soltanto il 4 settembre 1984. Ma come, il fascicolo non
era del 1971?
Ma tutto questo i giudici dappello mostrano
di non saperlo. Che la strage di via Fatebenefratelli non
sia il colpo di testa improvviso di un «anarchico
individualista» è provato anche dal fatto che
levento è stato annunciato. Lo ha testimoniato
Ivo Dalla Costa, un militante veneto del Pci che aveva raccolto
lo sfogo del conte Piero Loredan, stravagante personaggio
strettamente legato agli ambienti di Ordine nuovo, tanto
da garantire con fidejussioni bancarie le attività
editoriali del «nero» Giovanni Ventura. «Il
conte era agitato», ha raccontato Dalla Costa nel
1995, «e disse che doveva parlarmi urgentemente. Mi
disse: a Milano entro 48 ore succederà un attentato
contro unalta personalità del governo e ne
parlerà lintera Italia. Avvisa chi di competenza».
Dalla Costa, militante coscienzioso, avverte i suoi superiori
di partito, poi si mette in viaggio per Milano. Da Roma
intanto arrivano a Milano due personalità del Pci,
Giancarlo Pajetta e Alberto Malagugini, che ascoltano con
preoccupazione le notizie dal Veneto e si incaricano di
avvertire il giudice Emilio Alessandrini.
VIA
STELLA, VERONA
Che cosa sia successo in seguito non si sa (oggi
tutti i testimoni di questa vicenda sono morti), ma è
certo che dagli ambienti di Ordine nuovo era uscita, pochi
giorni prima, la notizia di un attentato a «unalta
personalità del governo». Era Mariano Rumor,
il cui nome era stato fatto anche da Remo Orlandini, uno
dei golpisti di Junio Valerio Borghese, in un colloquio
registrato di nascosto dallagente del Sid Antonio
Labruna, ufficiale del reparto D alle dirette dipendenze
di Gianadelio Maletti: «Lunico nome che mi è
rimasto impresso come obiettivo di attentato è quello
dellonorevole Rumor», testimonia il maresciallo
dei carabinieri Paolo Di Gregorio, che aveva poi trascritto
il colloquio registrato.
La sentenza dappello cancella tutto con un
sol colpo di spugna. La fonte delle notizie passate da Loredan
a Dalla Costa - secondo il giudice di secondo grado - sarebbero
state cene ad alto tasso alcolico con alcuni giornalisti
che avrebbero fatto soltanto discorsi fumosi e generici.
Quanto al colloquio registrato e al nome di Rumor, la sentenza
dappello sostiene che è tutto sbagliato, che
quella registrazione non è mai esistita e che lufficiale
si è confuso con un altro colloquio, con un altro
golpista, Attilio Lercari. Falso. I fatti emersi dalle inchieste
e dai processi sono diversi: Loredan aveva avuto informazioni
precise (un attentato, tra 48 ore, a Milano, contro un esponente
del governo) e le aveva avute non a tavola, ma negli ambienti
di Ordine nuovo. E il maresciallo Di Gregorio, interpellato
sul punto dal giudice Lombardi, aveva categoricamente escluso
di aver mai lavorato alla trascrizione dei colloqui con
Lercari: è proprio Orlandini a parlare di Rumor.
Lo conferma, del resto, un superiore di Di Gregorio, il
generale Viezzer: «Effettivamente sapevo che Labruna
aveva dei colloqui con Orlandini che registrava... In quel
periodo appresi da un mio collega del Sid che si parlava
di un attentato a Rumor». E lo ribadisce lo stesso
Labruna: «Sono convinto che il nastro di Orlandini
che parlava dellattentato a Rumor sia stato fatto
sparire».
Un altro generale dei servizi, Sandro Romagnoli,
scrive di suo pugno sui fogli delle trascrizioni: «È
probabile che il Lercari si riferisca al fatto che la morte
dellagente Marino e lattentato di Bertoli non
avevano conseguito gli obiettivi previsti, cioè caos
e interventi delle Forze Armate». È la chiave
interpretativa dei fatti di quel drammatico 1973, la spiegazione
della strategia della tensione: la pianificazione dellattentato,
il caos, la strage, a cui deve seguire lintervento
militare, il ritorno allordine. Rumor doveva morire,
perché da presidente del Consiglio, dopo piazza Fontana,
non aveva dichiarato lo stato demergenza, e poi, da
ministro dellInterno, nel 1972 aveva avviato liter
per mettere fuori legge Ordine nuovo, portato a compimento
nel 1973 dal suo successore al Viminale, Paolo Emilio Taviani.
Per questo Rumor e Taviani erano nel mirino di On. Ci avevano
provato in tutti i modi, i capi di On, a uccidere Rumor.
Lo aveva raccontato il «nero» Vincenzo Vinciguerra,
a cui avevano chiesto di ammazzare il ministro dc nella
sua villa in Veneto, garantendogli il non intervento della
scorta. Vinciguerra aveva rifiutato, perché voleva
fare la guerra allo Stato, non la guerra per lo Stato. Lo
aveva ripetuto Roberto Cavallaro, finto magistrato militare
e vero golpista di Stato coinvolto nelloperazione
della Rosa dei Venti. Lo aveva confermato il fascista Marco
Affatigato. Anche Carlo Digilio, lo «zio Otto»,
informatore degli americani e armiere di Ordine nuovo, racconta
ai magistrati: «Maggi ci parlò del suo progetto
di un attentato a Rumor e ci informò che Vinciguerra,
interpellato per lesecuzione, si era rifiutato...
Prospettò la possibilità di reclutare per
lattentato tale Gianfranco Bertoli, persona disposta
a tutto. Se si fosse riusciti a reclutarlo, vi sarebbe stata
per lazione una copertura anarchica dinanzi allopinione
pubblica».
Ma per il giudice dappello tutto ciò
non esiste. E Digilio non è neppure da prendere in
considerazione, perché inattendibile. È proprio
Digilio a raccontare di essere poi stato in via Stella,
a Verona, durante i giorni delladdestramento di Bertoli:
«Mi ricordo che Neami stava facendo con Bertoli una
specie di lavaggio del cervello su cosa avrebbe dovuto dire
se fosse stato arrestato; se ciò fosse avvenuto avrebbe
dovuto dire che era un anarchico, che si era procurato da
solo la bomba in Israele, che aveva fatto tutto da solo,
essendo un anarchico individualista. Neami si comportava
duramente con Bertoli quando non gli dava le risposte esatte...
Bertoli fumava e beveva molto. In effetti gli piaceva molto
bere e finiva con lubriacarsi a tavola. Annegava le
sue malinconie nellalcol. Appresi che lo avevano convinto
con la promessa di un po di soldi... Neami cercava
di rafforzare i suoi propositi stuzzicando la sua vanità,
dicendo che doveva mostrare il suo coraggio, che sarebbe
stato un eroe e che tutti avrebbero parlato di lui. Bertoli
era molto esigente e chiedeva continuamente da bere e vitto
di prima qualità portato da fuori. Chiedeva sigarette
e alcolici di marca e nellappartamento vi erano bottiglie
vuote dovunque sul pavimento, tanto che a volte vi inciampavamo».
Gli altri «neri» presenti nellappartamento,
Neami, Boffelli, Soffiati, Maggi (tutti poi imputati per
strage) negano che ci fosse Bertoli, ma non negano la loro
presenza in quei giorni in via Stella. Confermano, dunque,
Digilio: erano tutti lì, per i più stravaganti
motivi; Carlo Maria Maggi, per esempio, frequentava quellappartamento
perché aveva unamante... La sentenza dappello
dà loro ragione. Dà credito al fatto che Bertoli
fosse anarchico, tesi che neppure i suoi coimputati sostenevano
più. Dà credito al suo diario del 1968, in
cui ripete qualche slogan sullanarchia. Ma che strano
diario: poche paginette, che riguardano soltanto una dozzina
di giorni, probabilmente scritte nel 1970, prima di fuggire
in Israele, e lasciate alle spalle come prova a futura memoria.
Ora la parola passa alla Cassazione. Dovrà
decidere se la storia di questo povero Paese si scrive con
linchiostro delloblio o con quello della verità.
Diario, 7 febbraio 2003
La Corte di cassazione ha deciso nel luglio 2003 di
annullare la sentenza d'appello per la strage della Questura.
Ora sull'episodio chiave della strategia della tensione
si celebrerà a Milano un nuovo processo.