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Il Piano di Rinascita Democratica
da "Drive in" di Velerdi e Rondolino

Un documento prezioso, che sarà, per gli studiosi della sinistra tra duemila anni, come i rotoli del Mar Morto per gli studiosi della Bibbia



Quando qualcuno, nei secoli venturi, vorrà cercare di capire perché la sinistra italiana nei primi anni del terzo millennio era conciata così male, dovrà occuparsi delle gesta di Bibì e Bibò. Ossia «fr&cv», ovvero Fabrizio Rondolino e Claudio Velardi. La premiata ditta, ultimo, estremo succedaneo del marxismo-leninismo, del gramscismo, del togliattismo, della linea politica, del comitato centrale, del centralismo democratico, dell'intellettuale collettivo, della scuola di Francoforte e di quella delle Frattocchie, nell'epoca della caduta del Muro, della fine del comunismo e della riproducibilità dell'opera d'arte e delle cazzate, ha per alcuni anni fatto da staff a Massimo D'Alema. Ora un libro di Alessandra Sardoni, Il fantasma del leader (di cui ha scritto il 5 giugno sul Corriere Aldo Cazzullo), ci svela un documento scritto da Bibì e Bibò nel luglio 1997. Una carta preziosa, che fa capire la crisi della sinistra italiana più di tutti i classici della scienza politica mondiale e della sociologia planetaria messi insieme. Sarà, per gli studiosi della sinistra tra duemila anni, come i rotoli del Mar Morto per gli studiosi della Bibbia. Eccome qualche brano.

«Il partito, inteso come ceto politico, è un cane morto. Il suo stato è sotto ogni punto di vista desolante: il gruppo dirigente nazionale è in buona parte formato da inetti, i gruppi dirigenti locali sono del tutto al di sotto della funzione. Sarebbe illusorio credere che la nascita della Cosa 2 possa diventare l'occasione per una rifondazione del partito, che non può essere rianimato. Dobbiamo aggirare l'ostacolo. Si potrebbe parlare di una crescente "staffizzazione" del Pds. Dobbiamo pensare il Pds come una delle componenti del comitato elettorale di Massimo D'Alema». Il giudizio sul ceto politico degli ex comunisti, legittimamente impietoso, diventa disprezzo per l'intero partito («che non può essere rianimato»). Tutti «inetti». Tranne il committente di Bibì e Bibò, Massimo D'Alema. Da far diventare presidente della Repubblica: sì, «più che Palazzo Chigi, il Quirinale». La politica è definitivamente sostituita con un obiettivo di potere personale.

Per il resto, Bibì e Bibò non ne indovinano una. Prevedono «un biennio di sostanziale stabilità»: «per i prossimi due anni non dovremo aspettarci sconquassi né fatti clamorosi». Infatti, poco più di un anno dopo, Prodi cadrà, sostituito proprio da D'Alema, e la politica del centrosinistra diventerà una specie di interminabile spot elettorale per Silvio Berlusconi, che nel 2001 vincerà le elezioni e tornerà trionfalmente al governo. Identificano un interlocutore privilegiato tra i cattolici: Franco Marini, «che è la forza più strutturata». La più utile forse per fare congiure di palazzo, ma certo non la più affidabile per costruire un partito nuovo. Prevedono poi il successo della Bicamerale, da cui uscirà un assetto semipresidenzialista e che porterà nel 1999 a elezioni anticipate, con due poltrone in palio, Palazzo Chigi e il Quirinale. In questo quadro, appunto, «D'Alema correrà per il Quirinale», perché «puntare tutto sulla guida del governo può rivelarsi azzardato: dopo uno o due anni la crisi può scoppiare, e il reincarico diventa difficoltoso se non pressoché impossibile». In effetti il governo D'Alema durerà un anno e mezzo, ma la Bicamerale fallirà, non ci saranno affatto elezioni anticipate nel 1999 e invece Berlusconi vincerà a mani basse nel 2001.

Furbi, Bibì e Bibò: propongono di far credere di puntare a Palazzo Chigi, mentre mirano al Quirinale. «Non dobbiamo scartare Palazzo Chigi, anzi dobbiamo lasciare che si creda che questo è l'obiettivo. E insieme dobbiamo coltivare l'immagine "presidenziale" di D'Alema». Anche perché «per il Polo sarà impossibile impostare una campagna elettorale quarantottesca», cioè anticomunista, «dopo aver lavorato al fianco di D'Alema-presidente della Bicamerale per fare le riforme». E infatti Berlusconi incassa la legittimazione dalemiana che lo incorona padre costituente e come d'incanto lo tira fuori da una crisi che sembrava irreversibile, dopodiché rovescia il tavolo della Bicamerale e va a una campagna anticomunista da far rimpiangere la Dc del '48. Ci sono poi osservazioni sulla voglia di lavorare di D'Alema («I ritmi di lavoro di Palazzo Chigi sono massacranti. D'Alema è un buon lavoratore, ma il suo tempo è organizzato in modo particolare: a fasi "intensive" si affiancano fasi di inattività pressoché totale», quindi è meglio «trovare un'attività più adatta a questo stile e a questi ritmi»). Osservazioni minori, che meritano attenzione soltanto perché dimostrano come un gruppo si fosse messo a fare politica (scusate, mi rendo conto che la parola è usata a sproposito) come un sarto si mette a tagliare un vestito sulle misure del suo cliente.

Anche sulla qualità dei consigli d'immagine il buon Massimo si potrebbe lamentare. «D'Alema è "giovane". Dopo i capelli e le sciarpe bianche di Scalfaro, un "giovane" al Quirinale è una svolta radicale». Sai che ideona! Giovane e bella anche la moglie: «L'immagine della first-family, giovane e bella, è un fattore essenziale nell'elezione diretta. Né Berlusconi, né Fini sono competitivi». Non hanno previsto, Bibì e Bibò, né la nuova compagna di Fini, né la deriva velinistica del Cavaliere di Casoria. Berlusconi resta però il vero modello a cui riferirsi: «Come il Berlusconi dei tempi d'oro, D'Alema deve rivolgersi agli italiani, non alla sinistra; non al proprio "popolo", ma ai giovani o ai pensionati». E, come direbbe Catalano, meglio i giovani dei pensionati: «Per quanto la contrapposizione giovani-vecchi possa essere antipatica, è proprio su questo che dobbiamo insistere». Bibì e Bibò, come due bravi personal trainer, si propongono di lavorare sul caratteraccio del capo: D'Alema è assai più "anti-italiano" che "italiano". Suscita/può suscitare lontananza, antipatia, diffidenza. Dobbiamo correggere questa percezione», per «sedurre la gente, il segmento basso della popolazione». «D'altro canto, non è possibile costruire un D'Alema "piacione e veltroniano". Meglio puntare sulla serietà, "evidenziare qualche debolezza", "lavorare sulle fotografie" (in famiglia, a casa, al mare), sui media di target medio-basso, sulla tv popolare (Costanzo). Frasi più brevi, parole più semplici. Lo sguardo deve cambiare; c'è spesso, al termine di una risposta, uno sguardo come di autocompiacimento, come di ricerca dell' applauso, che va cancellato. Il corpo dev'essere meno rigido, le mani devono muoversi con più libertà e familiarità; anche la testa può muoversi più liberamente: un movimento dolce dal basso in alto, come di un gatto che fa le fusa, è un esempio possibile». E poi «dovremo studiare qualche "evento" che definisca emblematicamente qualche nuova immagine: la ricetta di cucina è l'esempio più immediato». Seguirà comparsata televisiva con D'Alema cuoco di un indimenticabile risotto.

E gli alleati, gli altri uomini politici con cui stare sulla scena? Romano Prodi è da usare, «capitalizzandone i successi». Per farlo fuori alla prima occasione, come è successo. Walter Veltroni? «La politica culturale di Veltroni è protezionista e assistenzialista, sembrerebbe un mix di salotti buoni e invecchiati dell'intelligenza di sinistra e sottopotere democristiano». Però con Veltroni meglio non polemizzare, gli si darebbe troppa importanza: «Nei prossimi mesi e anni D'Alema non sarà mai più coinvolto in una polemica del tipo di quelle che l'hanno contrapposto a Veltroni. La leadership non è minimamente in discussione: è dunque sciocco dare l'impressione del contrario». Fausto Bertinotti? «Nei nostri discorsi c'è ancora un (sacrosanto) disprezzo per Rifondazione: tuttavia è sciocco pensare a una separazione dei destini. Dobbiamo servirci di Rifondazione esattamente come ci serviamo di Dini o di Di Pietro». Antonio Di Pietro? È stato giusto cooptarlo nel centrosinistra: «l'operazione Di Pietro è un modello. È morotea nel senso dell'inclusione all'interno del sistema di una scheggia potenzialmente eversiva». E Lamberto Dini? E Antonio Maccanico? «Basta poco per averli fedeli».

Indicati gli alleati e gli utili idioti, restano i nemici: Berlusconi? No, il sindacato e i giornalisti. «Per fare dell'Italia un Paese moderno, dobbiamo scontrarci con il sindacato. Il sindacato è l'ultimo baluardo della conservazione. La normalizzazione del sindacato è il nostro compito». Invece, «nei confronti dei media dobbiamo operare una svolta radicale. Noi non dobbiamo cambiare i giornali; dobbiamo prima di tutto sedurre i giornali, per potercene servire. Il nostro dev'essere un atteggiamento egemonico. Non dobbiamo esercitare un comando. Dobbiamo invece assecondarne gli umori. I giornalisti non vanno brutalizzati: vanno blanditi e vezzeggiati. Bisogna essere sempre sorridenti. Bisogna avvicinarsi a loro senza scorte e a passo lento. Se incontrati in luoghi o orari disagevoli vanno salutati con simpatia, persino invitati a prendere un caffè»... «Insomma, l'immagine di D'Alema come nemico dei giornalisti va rovesciata (non sarà per niente facile...)». Obiettivo finale: «Portare alla guida del Corriere e di Repubblica due direttori di garanzia, Non ci servono due direttori amici di D'Alema; ci servono due direttori che riconoscano il primato della politica». Un Piano di Rinascita Democratica da Bar Sport, o da Drive In. Bibì e Bibò quando affrontano la crisi della politica sono nicciani da reality show. Quando cercano di forgiare l'immagine del capo sono, in due, una Mity Simonetto in sedicesimo. Berlusconiani, in fondo, senza averne né i mezzi, nè le capacità. (6 giugno 2009)

 

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