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Diario delle scalate/1
La rude razza romana va all'assalto


Chi è Stefano Ricucci, l’immobiliarista venuto dal nulla che ha dato l’assalto al “Corriere della sera”. Come ha fatto a diventare, con Danilo Coppola e Giuseppe Statuto, il nuovo campione del capitalismo italiano. Perché piace tanto a Silvio Berlusconi. E a Massimo D’Alema

di Gianni Barbacetto

La rude razza romana ha iniziato l’assalto al sistema. Due grandi banche, Antonveneta e Bnl, sono sotto scalata da parte di una composita compagnia di finanzieri di provincia e d’immobiliaristi romani, che dicono di volerle salvare dagli stranieri (gli olandesi di Abn Amro, i baschi del Banco di Bilbao). E la Rcs, editrice del principale quotidiano italiano, il Corriere della sera, è sotto attacco da parte di Stefano Ricucci, il più nuovo di quegli immobiliaristi. Con Danilo Coppola e Giuseppe Statuto forma un trio del mattone che sembra aver rivestito i panni delle truppe d’assalto. Dietro di loro si muovono i battaglioni di banchieri come Gianpiero Fiorani, presidente e amministratore delegato della Popolare di Lodi; di manager come Giovanni Consorte, il boss di Unipol; di finanzieri come Emilio Gnutti, già protagonista nel 1999 della madre di tutte le nuove scalate, l’opa su Telecom.

È l’attacco al cuore dello stato di cose presente. L’Italia vive una crisi strutturale, la grande industria è in declino, la piccola ha perso competitività, le Grandi Famiglie del Nord sono al crepuscolo, non c’è più un Enrico Cuccia a fare da centro del sistema. Dopo la «rude razza padana» di Chicco Gnutti e dei suoi amici, che tanto era piaciuta a Massimo D’Alema, ecco s’avanza la rude razza romana dei nuovi padroni del mattone. Espugnata Rcs, potrebbe cadere Mediobanca. E l’obiettivo seguente sarebbero le Generali, la cassaforte più preziosa del sistema.

Fantascienza, per ora. Ma intanto Ricucci annuncia di avere in mano (quando scriviamo) almeno il 18,5 per cento di Rcs e insidia i fragili equilibri del patto di sindacato che tiene per ora insieme, dentro Rcs, i rappresentanti di quella che fu l’ala nobile del capitalismo italiano, più qualche nuovo arrivato.

Le prime reazioni sono state dure: chi è mai questo Ricucci, da dove viene, come ha fatto i soldi? Le maldicenze sulle origini della razza mattona e le domande sulle fortune degli immobiliaristi si sono moltiplicate. I più benevoli sussurrano che sono figli dello scudo, riferendosi al cosiddetto «scudo fiscale» che dal 2001 ha permesso il rientro anonimo e a buon mercato dei capitali nascosti all’estero. I più malevoli accennano a loschi traffici di ogni sorta, ma senza portare mai uno straccio di prova. Le domande sono rimbalzate dai salotti buoni alle pagine di giornali come il Sole 24 ore, il Mondo, L’espresso. Con seguito di proteste, rettifiche, querele.

Anche il presidente di Confindustra Luca Cordero di Montezemolo, all’assemblea annuale dell’associazione, il 26 maggio, ha toccato l’argomento, quando a proposito della «malintesa battaglia per l’italianità delle banche», ha detto: «Ne sono seguiti incontri più o meno riservati presso le autorità, manovre incrociate, emersione di nuovi soggetti e di capitali misteriosi, rastrellamento di azioni sul mercato, scalate clandestine, sospetti e accuse di insider trading, denunce di azioni di concerto, interventi della magistratura. Niente di più lontano da produzione e lavoro».

Gastone e Cenerentola.
«Aridaje!», ripete Ricucci ogni volta che sente parlare di «capitali misteriosi» e ogni volta che gli viene chiesto come abbia fatto i soldi. E poi parte in quarta a spiegare la sua storia di mattoni e successo, aiutato da una fidanzata esuberante e comunicativa come Anna Falchi, che il prossimo 2 luglio, all’Argentario, diverrà sua moglie. «Tra di noi ci chiamiamo Cenerentola e Gastone», ha confidato Anna Falchi a Monica Setta per Gente. «Veniamo dalla stessa esperienza: Stefano ha cominciato come odontotecnico, io sono cresciuta con la mamma e mio fratello in un Paese come l’Italia che mi era sconosciuto. Non è stato facile per nessuno dei due». Poi la nipote del pastore luterano finlandese cresciuta in Italia senza padre è diventata attrice e ha conquistato le copertine. E il ragazzo di borgata è diventato ricco e famoso. «Sì, lui è Gastone. Gastone Paperone, quello dei fumetti che fa diventare oro tutto ciò che tocca».

Come Gastone, evidentemente, deve avere una fortuna sfacciata. Perché davvero non è facile arrivare a 43 anni e possedere, secondo quanto dichiara, un patrimonio di oltre 2 miliardi di euro: 910 milioni in immobili e circa 1.400 milioni in partecipazioni (tra cui 450 in Rcs, 420 in Antonveneta, 450 in Bnl, 50 in Bipielle). Stefano Ricucci, infatti, non nasce ricco. Suo padre è autista dell’Atac, l’azienda dei trasporti pubblici di Roma, sua madre è casalinga. Dopo il diploma, lavora come odontotecnico in un laboratorio dentistico di Centocelle. Per arrotondare, in estate fa il cameriere.

La leggenda delle origini narra del primo affare immobiliare a 19 anni: un terreno della madre scambiato con tre appartamenti; poi racconta di compravendite di negozi a Zagarolo, che a molti italiani ricorda per lo più «l’ultimo tango» di Franco e Ciccio. Nel 1984 il giovane Stefano fonda la sua prima società: per la gestione di ambulatori e laboratori clinici, lui che era solo l’ultimo dei tecnici. L’anno seguente, il primo affare di peso: acquista un immobile a San Cesareo, alle porte di Roma, e lo rivende – racconta – guadagnando 246 milioni di lire. Da allora non si ferma più. Da Zagarolo e Grottaferrata passa a Roma e Milano.

Mente veloce, gran lavoratore, uomo fortunato. Ma la sua fortuna più grande è incrociare la bolla immobiliare: in un’Italia in cui l’industria declina, il mattone cresce ininterrottamente di valore; e il cambio di regime monetario con l’arrivo dell’euro aumenta la propensione agli investimenti immobiliari (anche perché costringe a mettere in circolo i soldi indichiarabili). Negli ultimi anni (ottobre 1998-ottobre 2004, secondo dati di Nomisma) le abitazioni incrementano il loro valore in media del 65 per cento, gli uffici del 59 per cento, i negozi di oltre il 57 per cento. Ma i palazzi di pregio a Milano e Roma in alcuni casi raddoppiano o addirittura triplicano il loro valore. Ricucci, per esempio, compra nel 1999 un centro residenziale a Talenti, vicino a Montesacro, per 17 miliardi di lire e lo rivende subito dopo a 50. L’anno dopo per 37 miliardi compra Palazzo Bonaparte, in piazza Venezia a Roma, e lo rivende a 90. A Milano possiede un palazzo in via Borromei valutato 120 milioni di euro, un altro in piazza Durante che vale 118 milioni, un terzo nella centralissima via Silvio Pellico, a ridosso della Galleria Vittorio Emanuele, che viene valutato 60 milioni.

Lavora soprattutto con le banche, stringe rapporti e alleanze, compra e vende grandi immobili, realizza operazioni di vaste dimensioni. Fino a diventare il re della rude razza romana. Ha fatto affari con la Fingruppo di Chicco Gnutti e con la Capitalia di Cesare Geronzi, restando poi con entrambi in rapporti non proprio affettuosi, secondo i bene informati. Ma realizzando comunque ottime plusvalenze.

Quando, nel 1989, ha fondato la sua holding, l’ha chiamata Magiste, sommando le prime lettere dei nomi dei suoi genitori, Matteo e Gina, e del suo, Stefano: tutto casa e famiglia. Ma l’ha domiciliata in Lussemburgo, al riparo da sguardi indiscreti. Si attornia solo di uomini fidati, tra cui Luca Pompei, un giovanotto di 30 anni, nipote di Giorgio Almirante e di Donna Assunta, che è di casa a casa Ricucci. E nelle sue operazioni – non tutte proprio un esempio di trasparenza – entrano finanziamenti misteriosi (come quello da 1,8 miliardi di euro ottenuto in Lussemburgo: in cambio di quali garanzie patrimoniali? e messe a disposizione da chi?) e teste di legno, come nella migliore tradizione italiana. Il signor Ezio Candela, per esempio, è un pensionato ottantunenne esperto in fallimenti (ne ha sei sul groppone) a cui Ricucci il 30 dicembre 2004, per la cifra di soli mille euro, ha passato la società Immobiliare il Corso. Ovvero una scatola in cui erano passati immobili di Ricucci venduti a Gnutti, poi finita alla banca di Fiorani. Candela gli era già stato utile, come ricostruisce Vittorio Malagutti sull’Espresso, quando, indossati i panni dell’amministratore unico, aveva preparato il passaggio al curatore fallimentare di un’azienda del primo Ricucci, il centro odontostomatologico Arcadia.

Archiviati i denti e raggiunta la ricchezza, ora, con addosso una nuvola di Rush (Gucci eau de toilette), sogna il riconoscimento sociale e insegue la promozione culturale. Una laurea se l’è già presa, in Economia, presso una certa Clayton University di San Marino, non proprio la Sorbona. Dove una laurea l’ha portata a casa anche Anna Falchi, in Letteratura. Adesso il suo obiettivo è diventare cavaliere del lavoro. Ci tiene proprio. «Qual è il problema? Lavoro da 23 anni», ha dichiarato al settimanale Economy, «e per diventare cavaliere ne occorrono 20. Ho un gruppo che paga le tasse in Italia. E ho creato ricchezza...». E ha aggiunto tenero: «Io chiedo solo una chance. Chiedo solo di essere rispettato per il lavoro che faccio. È troppo?».

«È il re della matematica», dice di lui Anna Falchi, «a volte provo a fargli fare a mente dei calcoli complicatissimi e non sbaglia mai». Per il resto, vita tranquilla. «Stiamo in casa e io mi metto ai fornelli per lui». Piatto preferito: lasagne al ragù. «Non frequentiamo i salotti mondani né i circoli esclusivi, ma solo gli amici di sempre»: l’attrice Lorenza Indovina e lo scrittore Niccolò Ammaniti, per esempio, «che hanno deciso di sposarsi dopo di noi»; o il presidente della Confcommercio Sergio Billè, probabile testimone di nozze.

Tra amici, Stefano si lascia andare e fa il simpatico: «Con quell’accento romano e le sue freddure sembra Alberto Sordi», racconta Anna Falchi. Che ama cucinare e vuole che il marito faccia il maschio, ma pretende un suo ruolo anche fuori dalla cucina: «Non per niente mi chiamano Lady Finanza: quando siamo a cena intervengo e so quello che dico». Per ora si accontenta di fare la produttrice cinematografica, ha fondato una società che si chiama A-Movie Productions e vuole realizzare un film da Oscar con Dustin Hoffman. Domani si vedrà.

Chi non lo ama dipinge Ricucci come uno dei tanti operatori spregiudicati che riescono a emergere in tempi di crisi, senza aver creato nuove imprese o nuovi prodotti; spalleggiati e utilizzati da banchieri altrettanto spregiudicati, hanno solo spostato in Borsa, drogando il listino, i soldi guadagnati col mattone. «Ricucci non ha alcun fascino, zero magnetismo. Neppure la fierezza, tutta siciliana, di un altro che si è fatto dal niente come Salvatore Ligresti», racconta un grande banchiere che ha avuto a che fare con lui («Ma mi raccomando, niente nomi»).

Lui ripete fino alla noia di essersela invece meritata, la sua fortuna. E che «dietro Ricucci c’è solo Ricucci, che ha fatto strada lavorando duramente e grazie a tanti amici che hanno creduto in lui. Punto». Siccome poi nei salotti buoni non lo invitano, è entrato di forza in uno dei migliori, quello di Rcs, buttando sul piatto una cifra valutata tra i 450 e i 700 milioni di euro. E subito tutti a interrogarsi: perché vuole il Corriere della sera? chi c’è dietro? di chi sta facendo il cavallo di Troia? La sua risposta è la solita: dietro Ricucci c’è solo Ricucci, io non sono un prestanome di lusso. Quando la scalata era solo agli inizi, del resto, a proposito dei giornali aveva rilasciato una dichiarazione che oggi è da rileggere attentamente: «Non ce l’ho con chi scrive. Mi dà fastidio però la malafede, la censura sui fatti, i conflitti di interesse tra editori e giornalisti. Chiedo rispetto. E regole uguali per tutti: dagli Agnelli a Ricucci. Perché si smetta di distribuire patenti di credibilità a chi vende scarpe, negandole a chi vende immobili». Capito? Ma comunque, dato che i protagonisti di questa storia non aiutano a capire molto di più, non resta che raccogliere indizi, seguire piste. A cominciare dal volo del calabrone.

Il patto del calabrone.
Il patto di sindacato che scade nel 2007 e controlla il 58 per cento di Rcs è un calabrone: non si sa come riesca a volare, eppure vola. Tiene insieme, infatti, 15 soggetti che hanno scarse motivazioni a stare insieme. Banchieri e imprenditori di quella che una volta era l’ala nobile del capitalismo italiano (Mediobanca, Generali, Fiat, Pirelli, Pesenti, Gemina, Edison, Mittel, Merloni, Intesa, Capitalia...), più un paio di nuovi arrivati accettati non senza fatica (Diego Della Valle e Salvatore Ligresti). È questo calabrone che gestisce il Corriere, magari anche stando a guardare attonito chi – come Francesco Gaetano Caltagirone, palazzinaro romano di più antica tradizione – stava fuori dal patto, ma tenendosi stretto un bel 2 per cento di azioni Rcs che avrebbe voluto far contare di più. Con questo calabrone che ronza ma non disturba, il Corriere negli ultimi anni è andato per la sua strada, cambiando più volte direttore ma dimostrando nella sostanza di essere difficilmente condizionabile dai poteri. Per quanto tempo ancora, però, riuscirà a volare il calabrone?

Un indizio da cui partire è la questione dei prezzi. Il titolo Rcs, spinto dagli acquisti, è cresciuto di oltre l’80 per cento in un anno, raggiungendo una quotazione 60 volte gli utili netti del 2004, mentre la media europea di settore è di 16 volte. Insomma: Ricucci, malgrado le sue ripetute dichiarazioni in linguaggio tuttoborsaefinanza, ha comprato a prezzi fuori mercato, spendendo più di 450 milioni di euro al 6 giugno, quando ha annunciato di avere in tasca il 18,5 per cento.

«Sa cosa vuol dire Rcs? Vuol dire Ricucci-Coppola-Statuto». È solo una battuta, ma siccome circola dentro le mura del Corriere della sera fa un certo effetto. E allora la prima pista da seguire per capire che cosa sta succedendo è quella degli immobiliaristi. Ricucci sta rastrellando titoli per Caltagirone, si diceva nella prima fase della scalata, magari contando sull’aiuto, dall’interno del patto, di Salvatore Ligresti e del suo nuovo mentore, il banchiere di Capitalia Cesare Geronzi. Ma poi Caltagirone, il 26 maggio, ha annunciato di aver venduto il suo 2 per cento, realizzando una bella plusvalenza di 38 milioni, ma soprattutto lanciando un segnale: io non c’entro con questi nuovi arrivati della razza mattona. (A meno che non sia tutta una finta, un depistaggio per non scoprirsi come il vero scalatore).

La seconda pista passa per il banchiere preferito da Ricucci, cioè quel Gianpiero Fiorani che è il vero regista delle altre due scalate in corso, su Antonveneta e su Bnl. Fiorani è forte del rapporto intenso e diretto, molto diretto, con il governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio. Ma è fragile perché, dopo tante acquisizioni realizzate ma non ancora digerite, la sua indebitatissima Popolare di Lodi o riesce a compiere il grande salto e diventa una banca di prima fila, oppure rischia miseramente di implodere: l’indicatore che misura la sua solidità patrimoniale (Tier 1) è sceso sotto il 2 per cento, non era mai successo a nessuna banca italiana.

La terza pista è la più cervellotica: a sostenere Ricucci sarebbe addirittura Giovanni Bazoli, il banchiere di Intesa, uno che con Ricucci non troverebbe parole comuni neppure per parlare del tempo, ma a cui sarebbe utile un assalto ai confini per riuscire a manovrare i rapporti di forza all’interno del patto; e a realizzare una sorta di guerra preventiva, rastrellando quote di Rcs per annullare così i rischi di vere scalate ostili. O di defezioni temute, come quella di Fiat, che in Rcs ha una delle quote più pesanti (oltre il 10 per cento), ma così tanti problemi a Torino da rendere prevedibile, prima o poi, un suo ritiro da Milano. Bazoli ha però smentito seccamente ogni suo coinvolgimento nella vicenda e il patto del calabrone ha dato ripetuti segnali di compattezza. Si è consolidato salendo, il 30 maggio, dal 57,4 al 58,08 per cento. E poi si è blindato, inventando il 5 giugno una clausoletta salvacalabrone secondo cui, in caso di opa, i soci s’impegnano a comprare loro le quote di chi voglia vendere.

Inseguendo indizi, si scopre che tra i finanziatori di Ricucci ci sono la Popolare dell’Emila Romagna di Guido Leoni, la Popolare di Vicenza e la genovese Carige guidata da Vito Bonsignore, tre istituti molto vicini al governatore Fazio e tutti e tre impegnati a difendere, con Fiorani, «l’italianità» di Bnl contro gli spagnoli. Ma anche in ambienti impensabili si scovano indizi che portano a Ricucci. In Banca Intermobiliare, per esempio, boutique finanziaria torinese controllata dalla famiglia Segre e da sempre vicina a Carlo De Benedetti. Oggi ha tra i suoi clienti più affezionati proprio Stefano Ricucci, Danilo Coppola e Giuseppe Statuto, cui ha offerto servizi e finanziamenti, anche in relazione alla scalata Bnl.

Altri indizi portano ad Arnaldo Borghesi, amministratore delegato di Lazard Italia e membro di board cari a Bazoli come quello di Mittel e della Fondazione Giorgio Cini. È l’advisor preferito di Fiorani e, secondo voci diffuse durante la prima fase della scalata, era al lavoro anche per conto di Ricucci. L’editoria, del resto, a Borghesi piace, vista la sua vicinanza al quotidiano economico Finanza & Mercati diretto dal suo amico Osvaldo De Paolini, gran sostenitore degli affari di Fiorani e compagnia. Ma Ricucci ha poi dovuto smentire espressamente di aver affidato incarichi a Lazard «e specificamente a Borghesi».

Anche Francesco Micheli, finanziere-musicista ormai defilato, ha smentito di avere una parte in questo giallo con troppi indiziati e con piste che, anche se cadute, possono essere state vere per qualche momento o potranno diventar vere in futuro. Anche perché, seppure l’avesse iniziata da solo, oggi l’avventura Rcs non può più essere gestita in solitaria da Ricucci e comunque è destinata a sfuggirgli di mano. Il 30 maggio ha cominciato a parlare di opa: ma un’offerta pubblica d’acquisto su Rcs, che per legge farebbe sciogliere il patto del calabrone, obbligherebbe a mettere sul piatto almeno 3 miliardi e mezzo di euro e a spenderne effettivamente almeno la metà. Too much anche per la rude razza romana.

La pista rossa.
Poi c’è la pista rossa. E qui gli indizi si moltiplicano. La banca più impegnata con Ricucci è la Deutsche Bank e il banchiere a lui più vicino (se si esclude Fiorani, naturalmente) è Vincenzo De Bustis, oggi numero uno di Deutsche Italia e vecchia conoscenza di Massimo D’Alema fin dai tempi eroici della Banca del Salento e di Banca 121. Sono firmati Deutsche e Société Générale giganteschi finanziamenti a Ricucci (per un totale di 1,8 miliardi di euro) su cui anche la Consob ha chiesto chiarimenti. De Bustis comunque sostiene di non saperne nulla: sono operazioni decise dal trading desk della sede di Londra. Ma il desk di Londra non fa investimenti senza relazione del desk di Milano. E poi la Deutsche è partner di Magiste anche nella gara in corso per la gestione dell’immenso patrimonio immobiliare Enasarco (valore: 3 miliardi di euro) in cui Ricucci si scontra con concorrenti del calibro di Generali e Pirelli Real Estate. La pista rossa, dunque, porta ad ambienti vicini a D’Alema. Chi lo conosce è pronto a giurare che a D’Alema piace l’attacco al cuore dello stato di cose presente sferrato dai nuovi capitani coraggiosi, dalla rude razza romana.

La pista rossa, del resto, è confermata anche da altri più sostanziosi indizi. Chi è il grande alleato di Fiorani (e dunque di Ricucci) in tutte le partite più rischiose che ha in corso? È Giovanni Consorte, il finanziere creativo di Unipol, l’uomo che ha trasformato il vecchio mondo delle cooperative rosse in una macchina da guerra da scatenare nelle operazioni finanziarie più spregiudicate: dalla madre di tutte le opa lanciata da Chicco Gnutti su Telecom, fino agli odierni arrembaggi a Bnl e Antonveneta. Consorte sembra aver stretto una sorta di patto informale con Fiorani e Gnutti, con cui fa cordata in molte operazioni benedette dal governatore Fazio. In casa, invece, Consorte si è assicurato il controllo della galassia Unipol grazie a un’architettura societaria così arzigogolata e autoreferenziale, piena di scatole cinesi e partecipazioni incrociate (l’ha raccontata Mario Gerevini sul Corriere nell’aprile 2004), da far invidia perfino alla «costruzione gotico-castrense» delle holding berlusconiane. Alla faccia della trasparenza che ci si aspetterebbe dal movimento cooperativo.

Non è un mistero che il nume tutelare politico di Consorte sia Massimo D’Alema, con tutta la rete degli amministratori locali Ds (necessari, per esempio, per stipulare grandi contratti pubblici con Unipol, o per concedere licenze edilizie a una Coop in grande espansione. Ma utili anche all’espansione dei nuovi palazzinari). Il mondo dalemiano è in grande fermento ed espansione, dopo le ultime vittorie elettorali del centrosinistra alle amministrative.

Tra i dalemiani spicca Pierluigi Bersani, ministro all’epoca della scalata Telecom da parte dei «capitani coraggiosi». Allora nell’operazione fu coinvolta anche la «banca rossa», il Monte dei Paschi di Siena, che pochi anni prima, nel 1996, era stata convinta da un suo consigliere d’amministrazione (Silvano Andriani, molto legato a D’Alema) ad acquistare una partecipazione in Mediaset decisiva per il successo del collocamento in Borsa della holding televisiva di Berlusconi. Oggi il Monte dei Paschi ha invece resistito alle pressioni politiche ed è rimasto neutrale rispetto alle scalate Bnl e Antonveneta. E nel mondo delle cooperative si è ormai formata una fronda anti-Consorte. Ma lui va avanti imperterrito. Tanto che anche Montezemolo, all’assemblea annuale di Confindustria, ha lanciato un’inattesa stoccata alla pista rossa. Dopo aver attaccato «la malintesa battaglia per l’italianità delle banche» e aver criticato, senza giri di parole, «l’emersione di nuovi soggetti e di capitali misteriosi», Montezemolo ha alzato per un attimo gli occhi dai fogli che stava leggendo e, a braccio, ha aggiunto: «E nel Paese, soprattutto nella sinistra, abbiamo sentito troppi silenzi».

La frecciata era rivolta ai dalemiani. Reazione scandalizzata di Pierluigi Bersani: «Passaggio gratuito». E qualche giorno dopo, a proposito delle ipotizzate vicinanze Ricucci-D’Alema: «Mi sembrano palloni che si fanno girare per coprire la realtà dei fatti». Ma Franco Bassanini, ex ministro della Funzione pubblica, commenta con Diario: «L’uscita di Montezemolo forse era ingenerosa, visto che a sinistra qualcuno aveva parlato, eccome». Romano Prodi, Francesco Rutelli, Giuliano Amato e lo stesso Bassanini, esprimendosi apertamente per l’applicazione delle regole di mercato, avevano criticato le cordate di Fiorani e amici. «E del resto da destra, più che silenzi, sono arrivati sostegni forti ed espliciti agli scalatori», continua Bassanini, «vedi il comportamento di Luigi Grillo, presidente della Commissione lavori pubblici del Senato».

Detto questo, però, Bassanini non si scandalizza per la critica di Montezemolo. E ammette che i silenzi, a sinistra, ci sono stati. Anzi, altro che silenzi. D’Alema a Porta a porta ha parlato e si è schierato, quando si è lasciato sfuggire: «Io sono per il mercato, ma l’Italia non può avere solo filiali». Ora Bassanini replica: «A un’opa si deve rispondere con un’altra opa, non rastrellando azioni con operazioni poco trasparenti che alla fine danneggeranno i piccoli azionisti e faranno guadagnare i soliti noti». Su questi temi il Corriere ha da tempo chiesto un’intervista a Massimo D’Alema, ma per ora non ha ricevuto risposta.

A meno che... A meno che la pista rossa – si sussurra nei palazzi della politica – non sia un’invenzione centrista, un complotto anti-Ds messo in circolo da Della Valle e Montezemolo, con alle spalle Francesco Rutelli...

La pista B.
Ma a proposito di opa, se davvero, alla fine, arrivasse a lanciare un’offerta pubblica d’acquisto su Rcs, allora Ricucci darebbe l’innesco a una rivoluzione. Il patto di sindacato sarebbe sciolto e ognuno correrebbe per sé. Funzionerà la clausoletta salvacalabrone? Certo che a quel punto i soldi necessari sarebbero davvero tanti e piste diverse, allora, potrebbero arrivare a sommarsi. E potrebbe magari palesarsi qualcuno che ha tanti soldi e tanta voglia di togliersi uno sfizio: fare finalmente i conti con quei rompiscatole del Corriere, sempre pronti a criticare il governo. Di personaggi con tanti soldi (magari per aver appena venduto un 17 per cento di Mediaset, con un ricavo di 2,2 miliardi di euro) e con conti politici in sospeso con il quotidiano di via Solferino ce n’è uno solo in Italia, e si chiama Silvio Berlusconi.

A voler guardare, qualche piccolo indizio che porta alla pista B. si è già materializzato. Nella lista stilata da Ricucci con i nomi per il consiglio d’amministrazione di Antonveneta nel caso fosse respinto lo straniero, compariva Ubaldo Livolsi: oggi è consulente di Ricucci, però è noto che Livolsi, dopo essere stato manager di Berlusconi, è diventato finanziere in proprio ma sempre in un’area contigua al suo ex capo, tanto da essere membro del consiglio d’amministrazione di Fininvest.

E in questa storia fa capolino anche il banchiere napoletano Federico Imbert, responsabile per l’Italia di Jp Morgan, in affari con Fiorani e Gnutti oltre che con l’Unipol di Giovanni Consorte, ma anche regista del collocamento del 17 per cento di Mediaset appena venduto da Berlusconi; il 25 maggio Imbert è stato ricevuto a Palazzo Chigi, secondo quanto annunciato da un comunicato della presidenza del Consiglio che non spiega i motivi della visita.

Soldi sporchi e avventurieri.
E così stiamo assistendo all’ennesimo arrembaggio lanciato contro il fragile capitalismo italiano. In passato ci hanno provato in tanti, i Sindona, i Calvi, i Parretti... Anche allora circolavano le maldicenze su capitali misteriosi, i sussurri su affari sporchi. E in qualche caso è emerso che i rapporti con la criminalità organizzata c’erano davvero. I due più grandi banchieri privati italiani sono morti in circostanze misteriose, dopo crac clamorosi, lasciando scie di soldi che puzzavano di mafia. Raul Gardini, con la Calcestruzzi, era diventato tecnicamente socio di Cosa nostra. Salvatore Ligresti fu indagato (ma senza alcun risultato) «ai fini di un’eventuale proposta per l’applicazione di misure di prevenzione». E il braccio destro di Berlusconi Marcello Dell’Utri non è stato forse condannato a nove anni in primo grado per i suoi rapporti con la mafia? La storia italiana è fatta così. In queste storie del passato molti avevano abbozzato, altri si erano opposti, qualcuno ci aveva rimesso la vita.

«Sempre nei momenti di crisi entrano in campo capitali strani», comincia a ragionare un grande banchiere (anche lui: «Ma noi non ci siamo neanche visti»). Grandi speculazioni in tempo di declino dell’industria, grandi capitali che tornano a casa grazie allo scudo fiscale. Oggi, in più, c’è una novità radicale, anche rispetto alle brutte storie del passato: la crisi è strutturale e non c’è più nessuno che possa fare barriera. Il grande capitalismo italiano è ridotto a utilities e immobiliare. I vecchi equilibri sono saltati, non c’è più un Cuccia a fare il buttafuori e i nuovi arrivati spingono per entrare. I barbari premono ai confini, vogliono essere accettati nei vecchi salotti buoni. E con quali argomenti si può tenerli fuori? «In quei salotti stanno ormai signori che comandano senza avere i soldi. Da dove attingono la loro legittimazione le Grandi Famiglie ormai in declino, o i banchieri che comandano senza aver mai messo una lira di tasca propria? In nome di che cosa vantano una supremazia morale? Come possono dire a chi arriva con grandi capitali: voi non meritate di entrare?».

E allora che c’è di strano se qualcuno s’innamora dei barbari, della rude razza padana, poi della rude razza romana, animal spirits senza storia e senza cultura, ma vitali e solvibili? Ne subisce il fascino anche Massimo D’Alema, uno che a Milano si trova a disagio e per questo ci viene raramente, che nei suoi salotti si sente in imbarazzo, che non ama i «poteri forti», così privi di ogni deferenza verso la politica. Certo, una volta la sinistra lanciava i «patti tra i produttori» e alla rendita preferiva il profitto, l’industria alla finanza, non civettava con chi la produzione non sa che cosa sia ed è più interessato alla speculazione che all’innovazione e alla ricerca. Ma le cose, evidentemente, cambiano.

Anche l’ex palazzinaro Berlusconi – come Ricucci passato in fretta dall’ago al milione, e poi dall’immobiliare alla tv e alla politica – in fondo non ama Milano, la Milano delle grandi banche e dei grandi giornali che l’ha sempre guardato con sufficienza. Quando dice che l’80 per cento della stampa è comunista, non pensa certo all’Unità, ma al Corriere della sera, al Sole 24 ore. E in un certo senso ha ragione: il capitalismo nobile non ha mai amato gli outsider; li ha sempre disprezzati e messi alla porta, magari dopo aver concluso con loro qualche vantaggioso affare.

Oggi tutto questo potrebbe saltare. Una dozzina d’anni fa, la stagione chiamata Mani pulite è stata per un attimo, un attimo soltanto, anche egemonia culturale, possibilità di raddrizzare i conti dello Stato e i metodi degli affari. «Allora qualcuno si è illuso che fosse possibile introdurre anche in Italia il capitalismo di tipo anglosassone, un capitalismo delle regole», continua a ragionare il banchiere. «Oggi è chiaro che quel progetto è fallito». I barbari hanno i loro circuiti offshore e i loro rappresentanti in politica, hanno tanti soldi e metodi spregiudicati. Potrebbero sostituire del tutto un capitalismo nobile che, se mai c’è stato, ormai non c’è più.
Avrà ragione il banchiere pessimista? •



Scalatori mascherati. La Consob accusa



La variopinta compagnia degli scalatori
(da Gianpiero Fiorani a Emilio Gnutti, da Giovanni Consorte a Stefano Ricucci) è oggetto di una serie di inchieste giudiziarie per reati societari. La procura di Roma, per esempio, sta indagando sulla scalata Bnl, i magistrati di Milano Giulia Perrotti ed Eugenio Fusco stanno invece indagando su Antonveneta. Si comincia così a sollevare qualche velo sui finanziamenti occulti e sulla rete di società, alcune delle quali domiciliate nelle Isole Vergini e in altri paradisi fiscali, da cui quei finanziamenti sono transitati. Fiorani inoltre è il protagonista anche per due ardite operazioni di salvataggio, quelle che hanno strappato dal crac Credieuronord, la banca della Lega, e Hdc-Datamedia, la società di sondaggi di Luigi Crespi (per questo è anche indagato).

Anche la Consob ha posto sotto osservazione gli scalatori. E nel rapporto del 10 maggio 2005 sull’affare Antonveneta ricostruisce minuziosamente i flussi di denaro entrati nella partita. Dimostrando che Fiorani e i suoi amici hanno cominciato a rastrellare azioni della banca di Padova ben prima del 3 febbraio 2005, data in cui la Popolare di Lodi (Bipielle) ha chiesto a Bankitalia l’autorizzazione a salire fino al 15 per cento. Si erano già mossi, dice il rapporto Consob, 38 soggetti che avevano acquistato più del 22 per cento del capitale di Antonveneta. È così dimostrato che «il progetto Bipielle fosse già da tempo esistente e strutturato» e che «l’amministratore delegato di Bipielle avesse posto in essere contatti e incontri, anche con soci italiani aderenti al patto, finalizzati ad acquisire una partecipazione in Antonveneta». In spregio alle regole, dunque, Fiorani e gli scalatori (tra cui Ricucci e Coppola) hanno stretto accordi sotterranei e non dichiarati, hanno organizzato una cordata segreta e sottratta a ogni controllo, hanno costituito un patto di sindacato occulto. Senza darne comunicazione al mercato e alle autorità di controllo, Consob e Bankitalia.

Di questo patto di sindacato occulto di cui fanno parte, secondo Consob, «38 soggetti», 18 appartengono al gruppo bresciano di Chicco Gnutti, 12 al gruppo dei lodigiani legati a Fiorani, cinque sono immobiliaristi (tra cui Stefano Ricucci e Danilo Coppola) e tre trader. I 38 soggetti, grazie alle informazioni riservate ricevute da Fiorani, hanno anche realizzato consistenti plusvalenze, perché hanno comprato sotto traccia titoli Antonveneta prima dell’inizio ufficiale della scalata, rivendendoli poi alla Popolare di Lodi quando i prezzi erano considerevolmente lievitati. Al reato ipotizzato di false comunicazioni si aggiunge così quello di insider trading. È ipotizzabile inoltre anche il reato di aggiotaggio, perché gli scalatori avrebbero manipolato i meccanismi di mercato facendo salire i prezzi di Antonveneta ben oltre i 25 euro ad azione offerti dagli olandesi di Abn-Amro, facendo così fallire la loro opa.

Ma Fiorani non ha solo passato preziose informazioni agli amici, li ha anche generosamente finanziati, con cifre variabili da 10 a 50 milioni di euro a testa, con un esborso totale di 1.118 milioni di euro. In 31 casi su 38 si è trattato di finanziamenti, scrive la Consob, con «profilo di rischio elevatissimo». Ricucci, secondo il rapporto, è un caso a sé. «Ha avuto nel medesimo periodo una significativa crescita del suo affidamento complessivo con la banca», anche se «non direttamente collegabile agli acquisti in questione». Ma sappiamo che la sua Magiste era impegnata anche in altre partite, tra cui spicca la scalata Rcs.

Quali e quanti soldi sono passati da Bipielle Suisse a misteriose società dei Caraibi e poi arrivati a Ricucci che li ha utilizzati per il suo shopping milionario? Sulla base di quali garanzie patrimoniali? E fornite da chi? Domande ancora senza risposta, che le indagini dovranno cercare di trovare. (gb)

Diario, 10 giugno 2005



Diario delle scalate/2
"Sì, i lanzichenecchi ci piacciono"


"Diario" ha posto un problema: i rapporti tra la composita compagnia degli scalatori e la "finanza rossa". Sono arrivate smentite. Ma anche una conferma: gli outsider non sono peggio degli altri. Ricucci "non ha la rogna". Intanto giungono nuove informazioni sullo scalatore del "Corriere". E Berlusconi...

Compagno Ricucci?
Nel numero scorso, "Diario"
ha allineato gli indizi sul campo,
nel tentativo di comprendere
la scalata Rcs, un giallo con troppi indiziati. Nell’ultima settimana, sono arrivati commenti, smentite, conferme, arricchimenti, nuove scoperte... Ma, come nei gialli,
è capitato che alcuni indiziati, sentendosi gli occhi addosso, abbiano fatto un passo falso: hanno dichiarato di amare
gli outsider, i lanzichenecchi,
la rude razza romana. Intanto
si rafforza un’altra pista indicata da "Diario", quella che fa capo
a un ricco imprenditore italiano,
forte anche in politica, con fedeli alleati Oltralpe.



Nei gialli capita che gli indiziati, sentendosi gli occhi addosso, facciano un passo falso. Chissà se è quello che è successo a proposito del grande assalto alla finanza italiana raccontato nel numero scorso da Diario. Volevamo capire e illustrare i movimenti in corso su Rcs, Bnl, Antonveneta, Mediobanca, Fiat, Generali... Poiché sono movimenti in gran parte sotterranei, per niente trasparenti, con soldi che non si sa da dove vengono e protagonisti che non mostrano il loro volto, Diario ha scelto di allineare indizi. Ha raccontato diverse piste, tra cui la "pista Berlusconi" e la "pista rossa" (in copertina si leggeva: "Compagno Ricucci").

La reazione di Massimo D’Alema e degli uomini a lui vicini è stata inaspettata. Ci si poteva immaginare una secca smentita, accompagnata da un elogio della trasparenza e del mercato. La prima c’è stata, il secondo no. Anzi. "Non conosco nessuno di quei personaggi che si citano. Io questo Ricucci non so neanche chi sia", dichiara D’Alema il 10 giugno 2005 all’Unità. C’è da credergli. Ma poi aggiunge: "Certe campagne si concludono perché, immagino, si vogliono tutelare degli interessi specifici, di persone che ritengono che i loro interessi personali sono una nobile battaglia in difesa degli interessi del mercato, mentre gli interessi degli altri sono un ignobile complotto dietro cui si cela un qualche Belzebù". Dunque gli assalti finanziari in atto sono invece, per D’Alema, un corretto scontro di mercato a cui assistere con distacco, tanto una parte vale l’altra, e vinca il migliore.

Claudio Velardi, che fu il braccio destro di D’Alema a Palazzo Chigi (anche se oggi, civettando un po’, si definisce un "disilluso del dalemismo"), parla ancora più chiaro. L’11 giugno sul Corriere della sera ammette che sì, D’Alema quando era presidente del Consiglio avrebbe fatto meglio a stare zitto, a non dire in pubblico ciò che pensava dei protagonisti dell’opa su Telecom ("Avrebbe dovuto risparmiarsi quella frase sui capitani coraggiosi"). Ma poi gli scappa che cosa pensa, oggi, dei nuovi capitani coraggiosi, della rude razza romana degli immobiliaristi d’assalto: "Effettivamente Caltagirone è un grande imprenditore. Ma Ricucci cos’ha, la rogna?".

Ce ne vorrebbero di più.
Il giornale di cui Velardi è editore, il Riformista, è più esplicito e afferma (nell’editoriale del 7 giugno) che "gli outsider, i lanzichenecchi, gli immobiliaristi, i redditieri" non sono un problema per il capitalismo italiano. Anzi, ce ne vorrebbero di più. "Il problema italiano è proprio quello di una certa carestia di outsider; sì, proprio di gente che viene dal nulla e si fa da sola, e mentre si fa da sola produce sviluppo, pil e benessere". Come Michele Sindona? Come Roberto Calvi? Come Giancarlo Parretti e tanti altri outsider della finanza italiana (i fratelli Canavesio, Florio Fiorini, Orazio Bagnasco, Paolo Federici, Vincenzo Cultrera, Luciano Sgarlata, Gianmario Borsano, Giorgio Mendella, Virgilio De Giovanni e tanti altri il cui elenco completo riempirebbe pagine e pagine)?

Pierluigi Bersani, ministro di D’Alema all’epoca della scalata Telecom da parte della "rude razza padana" (riunita attorno al finanziere bresciano Chicco Gnutti), ha dichiarato che è un "ragionamento preistorico" affermare di vedere lo zampino della "finanza rossa" dietro le operazioni in corso, solo perché "fra i player c’è una cooperativa": perché è una cooperativa che "agisce sul mercato nel modo che ritiene più appropriato, senza chiedere il permesso a nessuno". Bene. Benissimo. Ma allora come mai i banchieri "rossi" o considerati "dalemiani" (Giovanni Consorte, Vincenzo De Bustis) agiscono liberamente sul mercato, mentre invece chi li critica è certamente eterodiretto, parte di un complotto?

"E che dubbio c’è? Non siamo mica nati ieri", ha dichiarato infatti D’Alema. "Conosciamo i salotti e le persone che contribuiscono a tutto questo". Non si fanno nomi, ma si può ipotizzare che il complotto sia stato architettato sull’asse Montezemolo-Della Valle-Rutelli. O forse i salotti evocati sono quelli di Giuliano Amato e Franco Bassanini? Il tutto con la compiacenza, evidentemente, del Corriere della sera, forse del Sole 24 ore e, buon ultimo, di Diario. Ma questo tracciar complotti non è un "ragionamento preistorico"?

Allora forse è meglio lasciarli stare, i complotti, da una parte e dall’altra. E ragionare serenamente sul solo materiale che abbiamo a disposizione, per ora: gli indizi, i rapporti, le alleanze.

1. È vero che nelle diverse partite in corso c’è, schierato a geometria variabile, un composito gruppo che riunisce soggetti diversi. Banchieri di provincia che stanno tentando l’estremo azzardo, la mano di poker da cui dipende la loro vita o la loro morte. Finanzieri della "rude razza padana", anch’essi un po’ in affanno dopo il colpo grosso della scalata Telecom che non ha avuto repliche. Oscuri immobilieri della "rude razza romana" di cui si conosce più la vita privata che il curriculum professionale. Insomma, tanto per non far nomi, Gianpiero Fiorani della Popolare di Lodi, Chicco Gnutti con la sua Hopa e Stefano Ricucci, Danilo Coppola, Giuseppe Statuto e compagnia mattona...). Il tutto, sotto l’incredibile ala di colui che dovrebbe essere l’arbitro della partita, e invece fa il giocatore e il padrino: il governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio.

2. È vero che una parte di questi player sono variamente legati alla cosiddetta finanza rossa. Sarà anche "preistorico" dirlo, ma così è. Tanto che dentro alla finanza rossa medesima si sta oggi combattendo una guerra silenziosa in cui alcuni (per esempio Pierluigi Fabrizi del Monte dei Paschi, o Turiddo Campaini di Unicoop) stanno differenziando i loro comportamenti e non stravedono certo per le avventure finanziarie del boss di Unipol Giovanni Consorte. E tanto che perfino la stessa Unipol sta lentamente cambiando la sua architettura di controllo e il suo sistema delle alleanze: meno scatole cinesi e partecipazioni incrociate, più separazione dai capitali di Chicco Gnutti.

3. È vero, infine, che questa "finanza rossa" – come dimostrato dalle dichiarazioni di questi giorni – ama i lanzichenecchi, subisce il fascino degli animal spirits della nuova razza mattona.

Non è in questione soltanto l’indicazione del puparo di Ricucci (Se c’è. E se Ricucci, spalleggiato dai suoi amici lodigiani e bresciani, non gioca in proprio, con l’aiuto di uno stratega vero, magari made in Lodi, e con la speranza di vendere, al momento buono, al miglior offerente). Ma si potrà pur ragionare sulle frequentazioni, le alleanze, i metodi e le subalternità culturali di una parte della sinistra?

D’accordo, nessuno crede alla favola del vecchio Capitalismo Sano, delle Grandi Famiglie, dei Salotti Buoni. Non è però un buon motivo per buttarsi nelle braccia dei nuovi avventurieri. Non viviamo in Svezia, da noi in genere gli outsider si sono fatti spazio con i soldi – non è trendy dirlo, ma è così – della mafia. E anche senza andare tanto in basso, gli attuali protagonisti (almeno quelli che si vedono, per gli altri chissà) sono oggi sotto indagine per una fila di comportamenti contro il mercato che farebbe impallidire qualunque finanziere di un normale Paese d’Europa o d’America: aggiotaggio, insider trading, finanziamenti a rischio concessi agli amici e agli amici degli amici, false comunicazioni al mercato e alle autorità di vigilanza, creazione di un patto di sindacato occulto... È questo il modello che piace tanto?

Un vecchio leader del Pci siciliano, Michelangelo Russo, mentre attorno a lui crescevano gli affari di Cosa nostra e chi si opponeva veniva ammazzato, diceva che "non si può fare le analisi del sangue alle imprese". Più recentemente, un altro leader comunista, Emanuele Macaluso, spiegava che non c’è motivo di stupirsi se uomini come Giulio Andreotti o Silvio Berlusconi hanno avuto rapporti o hanno fatto affari con la mafia. E chi si stupisce, ormai, se il Teatro Lirico a Milano sarà gestito dal senatore Marcello Dell’Utri, condannato in primo grado a nove anni per concorso esterno a Cosa nostra?

Bruno Tabacci, uomo che di politica e finanza se ne intende, ribadisce a Diario che "la politica non conta più un piffero". Che ormai non crede alla politica che guida la finanza: semmai è il contrario. Appunto: non è che sta succedendo questo anche a sinistra?

Attenzione, però: anche chi, dall’altra (?) parte, lancia lodi ad altri soggetti in campo, non fa certo un bel servizio alla politica. Così Francesco Rutelli, quando dichiara al Corriere, il 10 giugno, che "Francesco Gaetano Caltagirone è un imprenditore. Anzi, un grande imprenditore", cancella in un attimo tutte le cose belle declamate fino a quel momnento. Nulla contro il Calta, per carità, ma "la politica dovrebbe preoccuparsi solo delle regole e della trasparenza", commenta Tabacci. Che poi aggiunge: "Qui non abbiamo più arbitri, solo tifosi. E penso anche al governatore di Bankitalia".

Intanto, nell’ultima settimana, agli indizi allineati da Diario se ne sono aggiunti altri. Che però peggiorano la situazione. Per esempio: Ricucci sarebbe meno ricco e meno pulito di quello che vuol far credere. E accanto al suo gioco piccolo si è ormai avviato il gioco grande della finanza internazionale, con la discesa in campo, per la conquista di Mediobanca e Generali, di finanzieri come Tarak ben Ammar, grande alleato e amico di Silvio Berlusconi. Ecco dove porta il gioco degli apprendisti stregoni, commenta un finanziere milanese. Evocano forze più grandi di loro e finiranno per esserne stritolati. A meno che il nuovo arrivato, alla fine, non si ricordi, grato, di loro.

Pista siciliana.
Ricucci? "Panna montata", ha dichiarato Carlo De Benedetti a Venezia, in margine a un convegno della Fondazione Cini. Un vero "maestro del bluff", secondo Claudio Gatti del Sole 24 ore. Dichiarazione dei redditi 1995 (a 32 anni, mica a 18): 5 milioni di lire. Poco, per un grande immobiliarista già in affari. Anche oggi, conti alla mano, il patrimonio di oltre 2 miliardi di euro si smagrisce parecchio, malgrado le repliche di Ricucci. Le valutazioni degli immobili risultano gonfiate. Le acquisizioni sono spesso complicate operazioni ricche di contratti di leasing e d’interventi bancari, ma povere di soldi veri. Le banche sono la vera bacchetta magica di Gastone, come lo chiama la promessa sposa Anna Falchi. Ma non tutte le banche: alcune, come Credito italiano e Cariplo, lo depennano dall’elenco dei clienti perché non si fidano di lui; altre, come la Banca agricola mantovana e poi la Popolare di Lodi, invece lo gonfiano di soldi e stanno dietro alle sue operazioni.

Quanto alla fedina penale, non è brillante. Quella che Ricucci ha inviato al Sole 24 ore è candida come la neve, ma è quella per usi amministrativi. Quella per usi di giustizia, invece, scovata da Claudio Gatti, racconta di due pazienti che denunciarono l’odontotecnico Ricucci per truffa (nel 1986) e per esercizio abusivo della professione dentistica (nel 1988). Sostenendo che, dopo essersi presentato come dentista, aveva sbagliato intervento: una sua iniezione aveva provocato una "semi-paresi dell’occhio sinistro, della guancia e del collo". Storie vecchie, cancellate dall’amnistia del 1989. Più imbarazzante una vicenda del 2002: Ricucci è stato arrestato per resistenza a pubblico ufficiale. Processo, patteggiamento per quattro mesi di detenzione, pena sospesa.

Ma le storie più preoccupanti vengono dalla Sicilia. Uno degli uomini di fiducia di Ricucci è Guglielmo Fransoni, avvocato quarantenne: è il tributarista che presenta la sua faccia quando c’è da trattare con le banche. Fransoni opera a Roma; insegna Diritto tributario all’università di Foggia, in Puglia; è nato a Vibo Valentia, in Calabria. Però gli affari lo portano spesso a Messina. Tanto che nel 1997, scrivono Peter Gomez e Vittorio Malagutti sull’Espresso, nella città siciliana Fransoni è stato denunciato per riciclaggio. Colpa di alcune società domiciliate nel suo studio, tra cui la Telecom Sicilia spa, e di un suo cliente, Giuseppe Cuminale, che nel 2003 stava per essere arrestato dalla procura antimafia. La Cassazione bloccò il provvedimento, ma confermò la gravità degli indizi raccolti. Il metodo era ottenere sostanziosi appalti da Telecom Italia per la posa di cavi, far fallire le società che avevano ottenuto gli appalti, far sparire i soldi degli appalti (con un vorticoso giro di denaro e opere d’arte) grazie all’aiuto di uomini di Messina e di Barcellona Pozzo di Gotto considerati dagli investigatori legati a Cosa nostra.

Oggi Fransoni si occupa di tutt’altro. È nel consiglio d’amministrazione di Magiste International, la holding di Ricucci domiciliata in Lussemburgo. Ed è stato fermato al valico di Chiasso, il 21 febbraio scorso, dal Nucleo valutario della Guardia di finanza: nella Mercedes su cui viaggiava in compagnia di un altro uomo di Ricucci, Luigi Gargiulo, c’erano preziosi documenti finanziari su società offshore e operazioni riservate. Stavano prendendo la strada dell’estero e invece ora sono al vaglio dei magistrati di Milano Giulia Perrotti ed Eugenio Fusco.

Assalto alla cassaforte.
La faccenda intanto si è estesa. Dopo la scalata Rcs, si sono palesati movimenti su Mediobanca e Generali. È davvero iniziato il grande assalto al cuore del (debole) capitalismo italiano che Diario ha ipotizzato nel numero scorso. Ma se gli eventuali protagonisti dietro Ricucci e i suoi amici sono invisibili nel blitz sul Corriere, quelli che stanno comprando titoli Mediobanca e Generali sono imprendibili. "Non capiamo che cosa sta succedendo", confessa un grande banchiere del Nord. "Non vedo una strategia, da nessuna parte. Forse ci sono solo movimenti opportunisti, nel senso che uno o più soggetti si stanno muovendo cogliendo le opportunità che si presentano, senza un vero piano".

Ha smentito con decisione di essere dietro a qualunque operazione su Mediobanca e Generali Vincent Bollorè, socio francese della banca d’affari che fu guidata da Enrico Cuccia. "Io non vedo nessun attacco", ha dichiarato anche l’altro grande sospettato, Tarak ben Ammar. Il finanziere franco-tunisino è al centro di una complessa rete di rapporti che tiene insieme George Bush e i capitali arabi, Rupert Murdoch e Silvio Berlusconi.

Fu Tarak, la sera del 24 novembre 1995, che tirò fuori dai guai l’amico Silvio. Con un’intervista al Tg5 di Enrico Mentana in cui dichiarò che i 15 miliardi di lire versati su conti esteri da Berlusconi erano pagamenti di diritti televisivi all’estero. Era una balla: risulterà che erano la più grande tangente mai pagata in Italia a un singolo uomo politico, Bettino Craxi. Si può credere a quest’uomo? o


Per la laurea, paga a Hong Kong


Stefano Ricucci potrà appendere al muro i certificati che attestano la conquista dei titoli di "Bachelor" e "Doctor" in Economia (7.640 euro investiti, per un totale di 36 esami e due tesi finali). La sua signora non è da meno: Anna Falchi si è laureata su Pasolini grazie a un corso da "Doctor Degree" (costo variabile fra i 10 e i 13 mila euro) e pare che ora miri a specializzarsi in Storia del cinema. Lo sfizio di avere un "Dott." sul biglietto da visita, entrambi se lo sono tolti grazie alla Clayton University, università con base a Hong Kong che sul suo sito si definisce "il padre dell’apprendimento a distanza". Nata nel 1972, oggi la Clayton si vanta di avere studenti in ogni parte del mondo. Chi clicca per compilare i formulari d’iscrizione (tutto online) può parlare giapponese, italiano, francese o urdu.

Gli esami sono scritti, ma da spedire per posta. Gli iscritti devono studiare con un tutor scelto da loro, ma la cui esistenza non viene mai verificata dall’università (Anna dice di aver studiato con la sua tutor tre volte a settimana). Oltre ai corsi canonici in Business administration o Scienze sociali, alla Clayton si può studiare Psicofisiologia, Fitoterapia ed Erbologia, o Pianificazione ambientale. I titoli rilasciati non sono riconosciuti in Italia e nemmeno negli Stati Uniti, quasi tutto si svolge online e gli accrediti delle rette finiscono sulla Hong Kong and Shanghai Banking Corporation di Hong Kong, banca nota per essere stata assolutamente impenetrabile alle rogatorie italiane durante le indagini di Tangentopoli. Se nonostante tutto questo non siete ancora perplessi, l’indirizzo per voi rimane www.culhk.com.

Diario, 17 giugno 2005





Diario delle scalate/3
Se il Biscione mangia il Leone


Ricucci apre la strada, poi arriverà uno con soldi e strategia.
La profezia di Ubaldo Livolsi, uomo di Silvio



Un grande banchiere del Nord dice a Diario: «Se perde le elezioni e torna a occuparsi dei suoi affari a tempo pieno, ne vedremo delle belle. Quello ha i soldi e le capacità per comprarsi l’Italia». Quello è Silvio Berlusconi. E l’alternativa che si apre, di qui a un anno, è secca. O vince le elezioni e governa l’Italia, trasformando profondamente (in peggio) le regole della democrazia e mettendo in salvo per sempre i beni per le sue famiglie. Oppure le elezioni le perde, e allora si scatena: il capitalismo italiano è a una svolta, i vecchi poteri non tengono più, gli ex salotti buoni (da Rcs a Mediobanca, fino a Generali) sono sotto attacco e non potranno resistere a lungo, se agli immobiliaristi della rude razza romana si unirà chi ha soldi, strategia e alleanze per far saltare il banco.

Berlusconi ci aveva già provato, a entrare nel cuore del capitalismo italiano. Come ha ricordato Alberto Statera, nel 1979 tentò di mettere sul piatto una trentina di miliardi di lire per comprare un 3-4 per cento di Generali ed entrare nel consiglio d’amministrazione. Gli rispose, per iscritto, Cesare Merzagora: no grazie, noi del Leone di Trieste non vogliamo palazzinari. Da allora il Biscione è sempre stato tenuto fuori dai circoli della grande finanza del Nord. L’unico pezzo d’Italia che Berlusconi non è ancora riuscito a conquistare.

Ora i giochi si sono riaperti e il Biscione potrebbe saldare vecchi conti in sospeso. Ad avviare le danze sono stati i nuovi outsider. Il Gianpiero Fiorani di Lodi, di professione banchiere creativo, che per assaltare Bnl e Antonveneta mette a rischio la sua Bipielle e poi chiede i soldi ai clienti, offrendo warrant e abbonamenti al Touring club. E il Chicco Gnutti di Brescia, «capitano coraggioso» dell’assalto a Telecom. E il Giovanni Consorte di Unipol, banchiere rosso vicino a Massimo D’Alema. E, per finire in gloria, Stefano Ricucci detto Gastone, ex odontotecnico che si spacciava per dentista e ora si spaccia per finanziere alla conquista del Corriere (e in tanti, anche a sinistra, gli danno credito).

Di una compagnia così male assortita non ci sarebbe bisogno di preoccuparsi, se non fosse che i salotti buoni oggi sono così malmessi che qualunque Ezechiele lupo, con il suo soffio, può riuscire a far crollare la casa.

Ci aveva tentato un certo Michele Sindona, con i soldi del Vaticano e di Cosa nostra, ed era stato respinto da Enrico Cuccia. Appena in tempo: finì in bancarotta, con una condanna per omicidio (del commissario liquidatore delle banche sindoniane, Giorgio Ambrosoli) e una dose di stricnina nel caffè (aveva scelto partner d’affari molto severi, inflessibili).

Aveva scalato la finanza italiana anche il ragionier Roberto Calvi, successore di Sindona in certi riciclaggi di soldi a rischio: finì anch’esso in bancarotta, terrorizzato e in fuga, infine appeso a un ponte sul Tamigi con qualche mattone in tasca.

Ci riusciranno ora, e senza le precedenti disavventure, Ricucci, Fiorani e appendice rossa? Riusciranno a nobilitare se stessi e a cambiare volto al capitalismo italiano? Certo quel che non si vede all’orizzonte è uno straccio di progetto strategico, che strappi questo Paese al destino di declino dell’industria. L’Italia sembra avviata a diventare il campo in cui scorrazzano vecchi e nuovi finanzieri, producendo ricchezza per sé ma non valore per il Paese. In questo quadro, Berlusconi, una volta che la razza mattona avrà fatto da ariete, rinuncerà a raccogliere i risultati, buttando alla fine sul piatto gli unici soldi veri di tutta questa storia? Il Biscione, questa volta, potrebbe mangiarsi il Leone. E non ci sarà alcun Cuccia a mediare, alcun Merzagora a bloccare.

Che Silvio potrebbe essere della partita è annunciato da più d’un segnale. Il più lampante? L’intervista di Aldo Livolsi al Sole 24 ore, il 21 giugno, che decreta la fine dello status quo, quello delle grandi famiglie ormai tramontate e delle banche arroccate a difendere un mondo che non c’è più; e annuncia l’arrivo di una radiosa era nuova per il capitalismo italiano. Si presentano sulla scena «nuovi attori»: Ricucci, certamente (di cui Livolsi è advisor). E poi?

Livolsi lo spiega in una frase: «Ricucci può inizialmente essere l’uomo che apporta i primi capitali, che dà una scossa per valorizzare gli asset non pienamente sfruttati, per poi essere affiancato da uno o più soci-industriali capaci di portare contenuti e strategie di business». Chiaro? Ricucci sfonda, poi arriva lo stratega. Detto da Livolsi, ex manager di Berlusconi che ancora siede nel consiglio d’amministrazione di Fininvest, sembra un piano d’attacco.

Se a questo si aggiunge la possibilità che gli acquisti di azioni Generali delle ultime settimane siano manovrate da Tarak ben Ammar, imprenditore televisivo franco-tunisino che già in passato ha reso preziosi servigi a Berlusconi, il quadro è completo. Tarak ha smentito. Ma le scalate riuscite sono quelle in cui il cavaliere (bianco o nero?) si palesa solo alla fine.

Berlusconi, poi, avrebbe qualche problema perfino in Italia a dire ora in pubblico che lui, padrone della politica e della tv, di Mediolanum e della Mondadori, punta a scardinare gli equilibri di chi lo aveva respinto, a conquistare il maggior quotidiano italiano e una delle compagnie d’assicurazioni più grandi d’Europa.
Meglio aspettare le elezioni, poi si vedrà. Il Leone dorme, il Biscione ha appetito.

Diario, 24 giugno 2005





Diario delle scalate/4




Dopo l’intervista del 21 giugno sul Sole 24 ore al finanziere ex Fininvest Ubaldo Livolsi («Ricucci può inizialmente essere l’uomo che apporta i primi capitali... per poi essere affiancato da uno o più soci-industriali capaci di portare contenuti e strategie di business»), Silvio Berlusconi in persona – come evocato dal nulla – ha detto la sua: non ho alcun contatto con Stefano Ricucci, escludo ogni relazione «con il mio gruppo» (ma il presidente del Consiglio non aveva risolto il conflitto d’interessi?); però lo difendo perché «dà fastidio ai cosiddetti poteri forti». Quanto alle domande sulle origini dei soldi di Ricucci, Berlusconi dice di «non essere in sintonia con le critiche» (figurarsi, non ha ancora risposto sui soldi suoi!).

Stesso giorno (23 giugno), stessa simpatia: anche a Piero Fassino, segretario dei Ds, Ricucci piace: «incomprensibile la puzza sotto il naso» che circonda i palazzinari, dichiara a Sky Tg24. Intanto Ricucci e la sua holding Magiste (come anche Chicco Gnutti e la sua Fingruppo) sono indagati dalla procura di Milano per aggiotaggio. Ma la notizia non sembra sfiorare Berlusconi né impressionare Fassino. Non una parola sul rispetto delle regole e sulla trasparenza. Ricucci è difeso (sul Corriere del 22 giugno) anche da veri esperti del ramo, come l’ex latitante Romano Comincioli e l’indagato per bancarotta Paolo Romani. Con questi chiari di luna, la difesa delle regole se l’assume il leader di Confindustria Luca Cordero di Montezemolo: «Quando in Italia negli anni passati si sono verificati fenomeni di cui non si sapeva bene l’origine, o sono spuntati capitali ingenti dalla provenienza misteriosa, spesso ci siamo trovati di fronte a delle sorprese...».

Intanto, sul fronte Antonveneta, Gianpiero Fiorani (anch’egli indagato per vari reati finanziari) cambia logo alla sua banca (da Popolare di Lodi a Banca popolare italiana), incurante del fatto che le nuove iniziali ricordino la tristemente famosa Banca privata italiana di Michele Sindona. I conti del suo istituto sotto sforzo per acquisti e scalate restano a rischio, dicono gli analisti, e dipenderanno dal successo delle operazioni d’aumento di capitale.

Per quanto riguarda la «finanza rossa», il Monte dei Paschi di Pier Luigi Fabrizi ha diviso chiaramente le sue sorti da quelle del finanziere creativo di Unipol Giovanni Consorte, impegnatissimo nelle scalate Bnl e Antonveneta (e anch’egli sotto osservazione delle procure di Milano e Roma). Anche una parte del mondo cooperativo – dal toscano Turiddu Campaini al lombardo Silvano Ambrosetti – critica Consorte per le «cattive compagnie» con cui fa affari (Fiorani, Gnutti, Ricucci, Fininvest...).

Sotto attacco (da entità ancora senza nome) anche Mediobanca e Generali. Da rifare la gara per le case Enasarco. (gb)


Diario, 24 giugno 2005

 

Diario delle scalate/5

Assalto a Rcs. Altalena del titolo in Borsa (-4 per cento il 28 giugno). Ma Stefano Ricucci non vende. Ormai è al 20,1 per cento e il 1 luglio respinge la richiesta della Consob di comunicare le variazioni di quota anche solo dell’1 per cento. Sul fronte politico, incassa il sostegno anche della Lega (dopo quello di Berlusconi). Roberto Maroni infatti il 28 giugno dichiara: «Ricucci mi ha ispirato un’istintiva simpatia perché è stato duramente attaccato da chi ha spazio sui mezzi d’informazione, come è capitato a noi della Lega». Massimo D’Alema, che già aveva sdoganato Ricucci sostenendo nella sostanza che il capitalismo non è questione di pedigree, il 2 luglio se la cava con una battuta sulla (risaputa) debolezza del capitalismo italiano: «Se degli oscuri immobiliaristi, dietro ai quali si è finalmente appurato che non ci sono io, spaventano i salotti buoni del capitalismo italiano, evidentemente c’è una fragilità di quegli assetti proprietari che non ha uguali al mondo». Vittorio Merloni, invece, rimette al centro la vera questione del capitalismo, quella della trasparenza: «Ricucci è un mistero. Quanto meno, si può dire che il suo percorso non è tracciabile».

Assalto ad Antonveneta. Prosegue la scalata della Banca popolare italiana (Bpi, ex Lodi) di Gianpiero Fiorani ad Antonveneta. I conti (e i ratios patrimoniali) di Bpi sono fatti quadrare con finanza creativa: prestiti mascherati da cessioni di quote di controllate. Bankitalia non vede, non sente, non parla. Il 28 giugno i magistrati di Milano Eugenio Fusco e Giulia Perrotti chiedono il sequestro di 110 milioni di euro, considerati illecito profitto di 18 correntisti della Popolare di Lodi per compravendita di titoli Antonveneta. Lo stesso giorno la Consob dà il via libera all’opas di Lodi a 27,5 euro (di cui solo 4,9 in contanti), dopo averla bloccata per quattro volte (perché non migliorativa dell’opa a 26,5 euro tutta contanti di Abm Amro). Il 1 luglio Francesco Greco interroga alla procura di Milano (che lavora su ben 40 indagati) il finanziere italosvizzero Luigi Colnago (già oggetto di due articoli di Diario). Ma la bomba arriva il 4 luglio: tre funzionari di Bankitalia sono indagati dalla procura di Roma, per aver controllato poco e male la scalata di Fiorani.

Finanza rossa. Il numero uno di Unipol, Giovanni Consorte, va all’attacco di Bnl, malgrado i rischi per la sua compagnia assicurativa: Bnl costa il triplo del valore di Unipol, disavanzo e indebitamento alla fine sarebbero enormi, la logica industriale enunciata (la conquista di Bnl vita) sarebbe modesta nei risultati finanziari. Consorte (con il suo 15 per cento in Bnl) cerca un’intesa con Ricucci e il fronte degli immobiliaristi (che hanno il 27 per cento). Intanto a Siena scontro sulle fondazioni. La commissione Finanze del Senato vota – il 23 giugno, lo stesso giorno in cui il Monte dei Paschi (Mps) abbandona Unipol nell’assalto a Bnl – un emendamento al disegno di legge sul risparmio che sterilizza al 30 per cento il diritto di voto delle fondazioni bancarie nelle assemblee delle banche. Un provvedimento su misura per Mps: il suo 49 per cento è nelle mani della Fondazione Montepaschi guidata da Giuseppe Mussari. Con le nuove regole la Fondazione «pesa» solo il 30 per cento. Divisione, a sorpresa, tra i Ds: votano tutti contro, tranne due dalemiani, Massimo Bonavita e Nicola Latorre, che si astengono. Quest’ultimo, ex segretario di D’Alema, spiazzando anche Piero Fassino, dichiara: «Le Fondazioni sono il simbolo della conservazione». Voci sul possibile ritorno a Siena di Vincenzo De Bustis (considerato dalemiano, ex numero uno di Mps e ora di Deutsche Bank Italia, istituto che da Londra è il grande finanziatore di Ricucci): Montepaschi sarebbe una buona preda per la banca tedesca.
Intanto la Consob il 24 giugno commina una maximulta a 40 manager bancari (tra cui De Bustis) per non essersi «comportati con diligenza, correttezza e trasparenza nell’interesse dei clienti»: avevano venduto, attraverso Banca 121 e poi Mps, prodotti bancari «strutturati» e complessi, mascherati sotto nomi rassicuranti (MyWay, 4You, Btp-tel, Btp-index, Btp-on line...).

(Diario, 8 luglio 2005)


Diario delle scalate/6

Siena, Ds contro i Ds

Questa settimana si scopre che Stefano Ricucci, lo scalatore di Rcs, piace anche al segretario Ds Piero Fassino, che il 7 luglio dichiara al Sole 24 ore: «Non c’è un’attività imprenditoriale che sia pregiudizialmente migliore o peggiore di un’altra. (...) È tanto nobile costruire automobili o essere concessionario di telefonia, quanto operare nel settore finanziario o immobiliare».

Gli risponde Andrea Pininfarina, vicepresidente della Confindustria: «Non mi pare il caso di mettere sullo stesso piano, dal punto di vista dello sviluppo di tutto il Paese, chi fa impresa e chi di mestiere fa il raider finanziario». Il 12 luglio dice la sua anche Mario Baccini, Udc, ministro della Funzione pubblica: «Più industria, meno finanza», chiede in sostanza, affermando che quelli di Ricucci sono affari che sembrano «catene di Sant’Antonio, che non producono ricchezza».

Mentre Ricucci (sposo il 9 luglio) è sotto indagine penale e la sua trasparenza è vicina allo zero, Fassino sembra non vedere il problema: «Spetta a Consob, Antitrust, Autorità delle comunicazioni, Vigilanza della Banca d’Italia garantire le regole, non a me», dice il segretario Ds. Che concede la sua benedizione anche alla rischiosa scalata di Unipol su Bnl. «Se le cooperative crescono, a me fa piacere», aggiunge Fassino.

Per conquistare Bnl, Giovanni Consorte, numero uno di Unipol, tratta con gli immobiliaristi del contropatto, che controllano il 27,5 per cento della banca romana. Trattativa che si dimostra più lunga e complicata del previsto. Consorte deve trovare i soldi, 2-2,5 miliardi di euro per un aumento di capitale, e realizzare cessioni che non intacchino i ratios della compagnia. Poi deve ottenere i via libera delle autorità di controllo. E il tempo stringe: il 22 luglio terminerà l’opa su Bnl degli spagnoli di Bbva.

Sul fronte della scalata Antonveneta, gli olandesi di Abn Amro ottengono una proroga della loro opa tutta in contanti fino al 22 luglio. Un comunicato di Bankitalia il 5 luglio difende il suo direttore centrale della Vigilanza, Francesco Frasca, indagato per non aver vigilato sulla scalata sotterranea della Popolare di Lodi. Un comunicato non era stato stilato neppure quando la procura di Trani aveva indagato il governatore Antonio Fazio in persona, per il collocamento di prodotti MyWay e 4You.

Indagati dalla procura di Roma anche Giovanni Benevento e Gianpiero Fiorani (presidente e amministratore delegato della Popolare di Lodi, ora Bpi) per ostacolo all’attività di vigilanza. Bankitalia non ha ancora dato il via libera all’opas di Fiorani su Antonveneta. Gli analisti moltiplicano le domande sul modo con cui Fiorani ha ricostruito il patrimonio primario della sua banca, ipotizzando che le dismissioni (per 1,08 miliardi) siano prestiti mascherati.

Nel frattempo al Monte dei Paschi (Mps) arriva una doppia condanna, dal tribunale di Firenze e da quello di Brindisi, per mancata trasparenza proprio sui prodotti finanziari MyWay e 4You dei tempi della Banca 121 di Vincenzo De Bustis, oggi alla Deutsche Bank Italia. Mps questa volta sta fuori dalla partita, non sostiene Consorte e critica Fassino. «Il Monte con Bnl», dichiara il sindaco di Siena Maurizio Cenni, «sarebbe stato una banca che per tre, quattro anni non avrebbe prodotto reddito». E Giuseppe Mussari, presidente della Fondazione Montepaschi, dichiara, dubbioso, al Mondo: «Il punto è capire se i capitali che sono derivati legittimamente dalla bolla immobiliare si tradurranno poi in iniziative imprenditoriali vere, capaci di produrre ricchezza nuova e reale».

(Diario, 15 luglio 2005)

Diario delle scalate/7

«Compagno Ricucci» e Consorte

Che scandalo per quel «Compagno Ricucci» sparato sulla copertina di Diario sei settimane fa. Proteste, scuotimenti di teste, sorrisi di sufficienza. Per dire cose simili, aveva dichiarato Massimo D’Alema, bisogna essere «stupidi o mascalzoni». Ora che è partito l’assalto di Unipol a Bnl, quel «Compagno Ricucci» – che semplicemente poneva sul tappeto in modo giornalistico il problema della «finanza rossa» e dei suoi strani alleati – ha una sua consacrazione dai fatti.

In queste sei settimane abbiamo avuto ripetute dichiarazioni di Massimo D’Alema, Piero Fassino, Pierluigi Bersani e altri esponenti Ds in difesa degli immobiliaristi, tanto costruire automobili vale quanto vendere case e poi Ricucci «non c’ha la rogna». Qualcuno, saggiamente, ha ribattuto che il capitalismo non sarà questione di pedigree, ma di trasparenza sì. Inascoltato, mentre la Consob e almeno tre Procure (Roma, Milano, Brescia) indagano proprio sulla scarsa trasparenza di Ricucci e compagni. Ma che importa? «È tanto nobile costruire automobili o essere concessionario di telefonia, quanto operare nel settore finanziario o immobiliare», dice Fassino senza fare un plissé.

Così, sdoganata politicamente la «rude razza romana», alleata a geometria variabile con i «capitani coraggiosi» che tanto piacevano a D’Alema fin dai tempi della scalata Telecom e con i «banchieri padani» stile Gianpiero Fiorani, ora la «finanza rossa» passa in prima linea e punta direttamente su Bnl. Con una operazione che galvanizza una parte della sinistra e del mondo cooperativo, ma che potrebbe essere il primo mattone di una Torre di Babele.

Adesso chi continuava a chiedersi chi c’è dietro a Ricucci e chi gli ha dato i soldi, avrà finalmente una risposta: «La finanza rossa», dice sorridendo un banchiere, indicando i 210 milioni di euro che saranno versati a Ricucci da Unipol. La compagnia assicurativa guidata da Giovanni Consorte, infatti, pagherà complessivamente 1,2 miliardi di euro per il 27,5 per cento di azioni Bnl nelle mani del cosiddetto «contropatto degli immobiliaristi». Così Ricucci, Francesco Gaetano Caltagirone, Giuseppe Statuto, Danilo Coppola, Vito Bonsignore e compagni di scalata avranno carburante per nuove avventure: l’assalto a Rcs? a Mediobanca? a Generali?

Se Ricucci ora conquisterà il Corriere, magari – chissà – per offrirlo a Berlusconi, sarà chiaro da quale Bicamerale sotterranea della finanza sarà nata la spartizione delle spoglie degli ex salotti buoni del capitalismo italiano in declino. Ma questa è fantascienza, delirio complottista.

Più concreto è il meccanismo da cui l’assalto Unipol-Bnl nasce. C’è un’uguaglianza asimmetrica, nell’operazione. Gli azionisti sono tutti uguali – come dice Fassino – quando si tratta di legittimare oscuri speculatori con soldi tirati fuori da chissà dove. Non sono tutti uguali quando invece si tratta di pagare: ci sono gli azionisti normali e gli azionisti furbi (quelli del «contropatto»), ricompensati con plusvalenze da favola. Tanto le scalate, in Italia, non si fanno con le regole, ma con manovre di palazzo.

Come l’altra scalata, quella all’Antonveneta lanciata da Gianpiero Fiorani e dalla sua Popolare di Lodi diventata Banca popolare italiana (Bpi, la stessa sigla – guarda gli scherzi del destino – della Banca privata italiana di Michele Sindona). Fiorani trova i soldi per andare alla conquista dell’istituto padovano con cessioni che sembrano tanto prestiti travestiti. E con il parere negativo dei tecnici di Bankitalia (per assenza dei requisiti patrimoniali), superato d’imperio dal governatore Antonio Fazio.

L’Europa ci guarda e allibisce. Saranno anche stranieri, gli olandesi dell’Abn-Amro e gli spagnoli del Banco di Bilbao, ma avevano fatto offerte pubbliche chiare e trasparenti, per Antonveneta e per Bnl, secondo le regole che sembravano vigenti in Italia. Ora si sono accorti che le regole non sono uguali per tutti. Che in Italia è possibile fare scalate a debito, con cordate occulte, mentendo spudoratamente alle autorità di controllo e al mercato, potendo contare per di più sul sostegno di quello che dovrebbe essere l’arbitro (e cioè il governatore di Bankitalia). Se il colpo riesce, i vincitori faranno pagare alle prede i costi della stangata.

Gli uomini nuovi della finanza italiana fanno così, così si muovono i Fiorani, i Consorte, i Ricucci, a cui piace il palcoscenico e lo show più che i conti e i bilanci. Tanto per fare un esempio, Mario Gerevini spiega sul Corriere economia che il primo azionista della Popolare di Lodi (con il 4,1 per cento) è il fondo Victoria&Eagle, domiciliato alle Cayman. Chi c’è dietro? La stessa Popolare di Lodi, che ci ha investito 153,5 milioni di euro: giochetti simili non li faceva un certo Roberto Calvi, nelle sue filiali andine? Eppure i vertici del maggior partito della sinistra italiana non vedono nulla di strano in questa corsa senza regole a costruire il nuovo capitalismo nel Paese rimasto senza un Enrico Cuccia e in pieno declino industriale.

In questo quadro, perfino Marco Follini, segretario dell’Udc, riesce a dire una cosa saggia, replicando sul Sole 24 ore a Piero Fassino: «Credo che ci sia un certo eccesso di zelo in una cultura politica che ha scoperto il mercato in tarda età e ha finito qualche volta per farsi affascinare dai suoi aspetti più ambigui e tortuosi». Ma Consorte esulta, il mondo cooperativo è in tripudio, la sinistra è felice e si appresta così a entrare in campagna elettorale contro il partito-azienda di Silvio Berlusconi.

(Diario, 22 luglio 2005)

 

Diario delle scalate/8
La Bicamerale della Finanza



Colpo di scena, signore e signori, in questa grande storia italiana, anzi europea, di soldi, banche e potere che Diario vi sta raccontando da otto settimane: lunedì 25 luglio la procura di Milano ha ordinato il sequestro d’urgenza del 40 per cento delle azioni Antonveneta in mano agli scalatori (il Gianpiero Fiorani della Popolare di Lodi e altri sette suoi amiconi, tra cui il finanziere bresciano Chicco Gnutti e gli immobiliaristi romani Stefano Ricucci e Danilo Coppola).

I due ragazzi terribili della procura, Eugenio Fusco e Giulia Perrotti, hanno messo nero su bianco che «occorre prevenire ulteriori condotte criminose» e dunque hanno ordinato il sequestro senza neppure aspettare un provvedimento del giudice delle indagini preliminari. Anche perché per mercoledì 27 era prevista, in seconda convocazione, l’assemblea degli azionisti di Antonveneta e bisognava impedire che le quote rastrellate contro ogni regola da Fiorani e compagni fossero usate contro quei poveri illusi degli olandesi di Abn Amro che avevano fatto una regolare opa su Antonveneta credendo che in questo Paese le regole valessero per tutti.

Ma c’è un colpo di scena nel colpo di scena: nel decreto di sequestro delle azioni, ci sono alcuni edificanti esempi di colloqui telefonici tra Fiorani e il governatore di Bankitalia Antonio Fazio. Che a parlare con il banchiere di Lodi sia il governatore in persona è una bomba. Anche perché Fazio, secondo quanto risulta dalla sua stessa voce, non esita a chiamare nella notte l’amico Fiorani per annunciargli: «Ho appena messo la firma». Sono le 00.12 del 12 luglio e il governatore gli comunica che ha stracciato le conclusioni negative degli ispettori della Banca d’Italia e ha dato il suo via libera alla Popolare di Lodi che si lancia ufficialmente all’attacco di Antonveneta, dopo aver però già rastrellato in maniera occulta consistenti pacchetti di azioni. «Tonino, io sono commosso», risponde Fiorani a Fazio, «io ti ringrazio... ti ringrazio... ho la pelle d’oca... io, guarda Tonino, ti darei un bacio sulla fronte, ma non posso farlo... so quanto hai sofferto... prenderei l’aereo e verrei da te in questo momento se potessi!».

Che il rapporto tra i due fosse stretto era noto, ma ora è dimostrato in diretta dai loro salamelecchi telefonici. Il 5 luglio, quando Abn Amro, povera ingenua, chiede una proroga alla scadenza della sua opa, Fazio dice a Fiorani: «Allora se tu vieni da me verso le 15, le 15.30, stiamo insieme un’ora, un’ora e mezza, ché... diciamo... voglio verificare un insieme di cose... L’unica cosa: passa come al solito, dal dietro... dietro di là». E Fiorani: «Sì, va bene... sennò sono problemi...».

Giornalismo kamikaze. Intermezzo comico. Il giorno del colpo di scena, esilarante editoriale sulla prima pagina del Giornale: «E se qualcuno fosse stato in pensiero, ora può stare tranquillo. Sulla storia delle banche siamo arrivati anche alle intercettazioni, naturalmente fatte filtrare ad arte fuori dai palazzi di giustizia». E ancora: «Lunedì “escono le intercettazioni”, cioè qualcuno decide che in quel giorno è il momento “giusto” per farle uscire». E di nuovo, ossessivamente: «Ci dovrebbero spiegare che bisogno c’era di fare uscire le intercettazioni...». Effettivamente le intercettazioni «sono uscite» martedì 26 luglio. Ma su un solo, unico quotidiano: il Giornale, per la firma di Gianluigi Nuzzi. Un caso di scoop suicida, di giornalismo kamikaze.

In più, l’editoriale del Giornale s’interroga: «Tra tutte le intercettazioni, fior da fiore, hanno beccato proprio quelle con il governatore della Banca d’Italia». Ma pensa un po’: quegli indiscreti dei magistrati hanno prestato attenzione alle telefonate di Fiorani ad Antonio Fazio, invece di quelle del banchiere al bar o alla zia.

Che poi siano finite proprio e solo sul Giornale, malgrado la procura avesse blindato le indagini per non farle trapelare (e con successo, a parte il Giornale), secondo i bene informati vuol dire che è scattata la «smagliatura Tremonti»: l’ex ministro delle Finanze, grande nemico di Fazio, ha ancora amici ai vertici della Guardia di finanza, che sta facendo le indagini per la procura di Milano, e ha amici anche al Giornale.

La novità (con buona pace del Giornale) è l’entrata del governatore sulla scena giudiziaria. Che nella vicenda delle scalate Fazio fosse fazioso e non arbitro imparziale era già noto e anche Diario l’aveva variamente, nelle settimane scorse, cercato di documentare. Questa storia, del resto, è piena di cose già scritte di cui nessuno vuole però prendere atto (scalatori mascherati, scalate a rischio crac, immobiliaristi dai soldi dubbi, regole dribblate, amnesie della sinistra, scambi di cortesie destra-sinistra...). Il fatto è che ora ci sono le prove in presa diretta dell’incredibile «concerto» tra Fiorani e Fazio.

Possibili conseguenze. Uno: il governatore vedrà presto il suo nome inserito tra gli indagati per reati finanziari, insieme a Fiorani, Ricucci e gli altri? Due: si dimetterà? In un Paese normale la risposta alla seconda domanda sarebbe sì, invece la Banca d’Italia ha subito emesso una nota in cui sostiene che tutto va bene e che le autorizzazioni concesse a Fiorani erano atti dovuti.

Del resto, chi mai chiederà seriamente le dimissioni del governatore? Neppure il centrosinistra, preoccupato che poi il nuovo numero uno della Banca d’Italia nasca sotto l’ombrello del governo Berlusconi. I Ds, in più, di Fazio hanno bisogno, per portare a compimento nei prossimi mesi la scalata della «rossa» Unipol su Bnl.

Rischio crac.
Anche nei giorni precedenti il gran colpo di scena, ne sono successe di cose.
20 luglio, intervista di Massimo Mucchetti a Romano Prodi sul Corriere («I politici pensino alle regole, non agli affari», «Fazio non agisce da arbitro ma da parte in gioco», «Il capitalismo si ammala se le leggi rendono convenienti la speculazione e non la produzione e l’innovazione»).
21 luglio, intervista di Alberto Statera a Massimo D’Alema su Repubblica (con una conferma: «Ma sa che le dico? Nei confronti dell’Unipol c’è una campagna razzista»; e un aggiustamento di tiro: sulla scalata al «Corriere è giusto chiedere maggiore chiarezza»).
22 luglio, fallimento delle offerte pubbliche degli olandesi di Abn Amro su Antonveneta e dei baschi del Banco di Bilbao su Bnl. 23 luglio, scoperta che l’intervento dell’azionista romano Stefano Ricucci all’assemblea Antonveneta – potenza della Padania – era stato scritto a mano a Lodi, negli uffici di Fiorani: che «concerto» di idee!

Del resto, Fiorani è un banchiere creativo, che oltre a far comprare azioni sottobanco agli amici e ai misteriosi fondi gestiti alle Cayman da Luigi Enrico Colnago (sempre con soldi generosamente erogati dalla sua banca), ha saputo anche inventarsi un modo geniale per finanziare la sua pericolosa scalata al potere: realizza cessioni di quote di società controllate che in realtà sono onerosissimi prestiti mascherati.

Un esempio lo ha raccontato Mario Gerevini sul Corriere. Fiorani ha «venduto» a Deutsche Bank il 10 per cento della Cassa di Bolzano, realizzando ben 183,4 milioni di euro. Bravo, no? Peccato che una quota identica, il 10 per cento della stessa banca bolzanina (anzi, un 10 per cento più prezioso, perché permetteva di arrivare al 58 per cento, cioè al controllo assoluto), fosse stata venduta esattamente un anno fa alla Bayerische Landsbank a soli 79,2 milioni.

Dunque, Fiorani è un mago capace di valorizzare del 120 per cento in un anno una sua partecipazione. Ma questo lo crede solo Fazio. Chi guarda le carte, più prosaicamente, è portato a pensare che Fiorani parcheggi pacchetti di azioni presso banche e finanziarie (Deutsche Bank, Dresdner, Earchimede di Chicco Gnutti) allettate da sostanziose commissioni. Con questo sistema porta a casa circa un miliardo di euro, da buttare nella scalata Antonveneta. Domani, dopo aver conquistato la banca di Padova, si dovrà riprendere le sue partecipazioni, che aveva venduto ma con l’elastico (un elastico che in finanza si chiama opzione call).

C’è un’incognita. Se non la conquista, l’Antonveneta, che cosa succederà di Fiorani? Dove troverà i soldi per ricomprare tutte le sue vendite con l’elastico? Queste sono operazioni a rischio crac. Oh, non ci venite a dire che siamo uccelli del malaugurio, quando ripetiamo che le società alle Cayman di Fiorani ricordano tanto le consociate andine dell’Ambrosiano di Roberto Calvi e che la nuova sigla della banca di Fiorani (Bpi, Banca popolare italiana) è la stessa di Sindona (Bpi, Banca privata italiana)...

Bicamerale della finanza
. Come passerà le vacanze il governatore Fazio? Chissà. Ma non sembra che debba preoccuparsi troppo. Sembra blindato, a destra e a sinistra. E qui si apre l’altro capitolo, quello sull’altra scalata: Unipol alla conquista di Bnl, dopo il fallimento del Banco di Bilbao. Fazio ha già fatto capire che permetterà la conquista. Così ha portato dalla sua parte quella larga parte della dirigenza Ds (D’Alema e Fassino in testa) che tifa per Unipol e per dare una banca al mondo delle cooperative. Aspirazione legittima, anche se un po’ rischiosa dal punto di vista finanziario per la compagnia guidata da Giovanni Consorte e per le coop che l’hanno seguito.

Meno legittimo è che la politica tifi per uno schieramento finanziario e, in forza di ciò, abbassi il livello critico. Accettando Fiorani (e anche Ricucci, che in fondo «non c’ha la rogna») perché sia data via libera a Consorte. Sì, questa grande storia italiana, anzi europea, di banche e scalate e potere è fatta di vicende diverse (Antonveneta, Bnl, Rcs, Mediobanca...), ma ha una sua sostanziale unitarietà, una rete unica, anche se articolata, di protagonisti e comprimari, banchieri, finanzieri e politici, stretti attorno al governatore Fazio, che si crede il nuovo Cuccia.

Per questo rischia di diventare una «Bicamerale della finanza» fatta di scambi e concessioni reciproche. Un grande accordo sotterraneo per ridisegnare il volto del (debole) capitalismo italiano. Tangentopoli, al confronto, è archeologia. Sembra averlo intuito Prodi, quando si mostra preoccupato che si stia aprendo una nuova stagione di commistioni tra politica e affari.

Ancora una volta, sono dovuti intervenire i magistrati per svelare i giochi sporchi. E qualcuno ha già cominciato a lamentarsi dell’invadenza dei giudici. Peccato che, prima di loro, nessuno di chi poteva parlare lo abbia fatto: né Bankitalia, né la politica. Tutti impegnati a tifare e tramare, invece che a regolare.

(Diario, 29 luglio 2005)

E il finanziere rosso disse: «Ho già capito!»

Dalle intercettazioni telefoniche esce un quadro raccappricciante dei rapporti tra l'arbitro (Fazio) e i giocatori (Fiorani, Ricucci e compagni), ma anche tra il banchiere che piace tanto alla Lega (Fiorani) e il boss della finanza rossa (Consorte). In una telefonata del 29 giugno tra Consorte e Fiorani c'Ë, secondo i magistrati di Milano, la prova che Fiorani abbia inscenato false cessioni di quote d'aziende controllate dalla sua banca: servono per fare cassa e rientrare nei parametri finanziari minimi richiesti alle banche. In realtý sono finte vendite o vendite con l'elastico, trucchi per ottenere prestiti.

Il trucco pi˜ smaccato, lo snodo cruciale, Ë la "vendita" di quote alla Earchimede: una societý controllata (al 49 per cento) da Chicco Gnutti e che ha tra i soci la stessa banca di Fiorani (11,92 per cento) e anche Consorte (attraverso Unipol Merchant e Aurora Assicurazioni, Consorte controlla il 14 per cento di Earchimede). Ebbene, nella telefonata del 29 giugno, Fiorani chiede a Consorte di intervenire presso i «suoi» uomini in Earchimede per far passare la delibera utile alla Popolare di Lodi.
Fiorani: «Oggi c'è un consiglio Earchimede e tu hai un tuo consigliere dentro e anche un sindaco».
Consorte: «Certo».
Fiorani: «Loro deliberano diciamo temporaneamente con T maiuscola dell'acquisto di pìartecipazioni nostre che sono Ducato (...) e, aspetta... Efibanca».
Fiorani: «E vengono deliberate con lo scopo di fare un'operazione diciamo così... di...».
Consorte: «Ho già capito!».

La «talpa» a palazzo di Giustizia

Consorte è anche l'interlocutore rassicurato dalla "talpa" di palazzo di Giustizia. Era infatti in contatto con il giudice Francesco Castellano (quello che ha "prescritto" Berlusconi nel processo Sme): più di quindici telefonate tra i due, dal 5 luglio fino al 25 del mese. Secondo quello che poi Consorte diceva agli altri suoi interlocutori, Castellano lo avrebbe rassicurato: state tranquilli, il giudice interviene lui sui magistrati di Roma.

Fassino, Consorte e il governatore

«Dobbiamo stare attenti a non indebolire l'istituzione Bankitalia», dichiara Fassino il 27 luglio. Ma l'istituzione è indebolita dal governatore con i suoi comportamenti, non da chi eventualmente chiedesse la sue dimissioni. Invece la sinistra è cauta. Dai vertici Ds un silenzio assordante per due giorni. Poi la soffice dichiarazione di Fassino, di ritorno dalla Turchia. Da D'Alema, per ora, neanche un soffio. Bersani: «Non possiamo aprire adesso il tormentone estivo "Fazio sì, Fazio no", in questo modo si va allo sfascio».


Per le puntate precedenti del Diario delle scalate
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I furbetti del Botteghino

di Gianni Barbacetto

 

Strana estate, quella del 2005. Estate di patti occulti, scalate sotterranee, finanza d’avventura, personaggi spregiudicati, arbitri venduti, matrimoni da vip, feste al Billionaire, intercettazioni telefoniche, declassamenti dell’Italia, commistioni tra affari e politica, ritorno della “questione morale”, polemiche vere e polemiche false. Le contese per conquistare un paio di banche italiane, l’Antonveneta di Padova e la Banca nazionale del lavoro di Roma, e l’assalto al principale giornale italiano, il Corriere della sera, sono diventati il grande giallo dell’estate. Tracimati fuori dalla finanza, sono diventati da una parte questione politica, dall’altra materia di gossip.

All’inizio potevano sembrare tre diverse storie, tre distinte scalate. Si sono invece presto dimostrate un’unica vicenda: un grande assalto al potere, in un momento per l’Italia di declino economico e di confusione politica; un tentativo di ridisegnare il volto del (debole) capitalismo italiano. Con istituzioni e partiti che, in maniera occulta, facevano il tifo per i contendenti e intervenivano nelle contese. Tangentopoli, al confronto, è archeologia. E non ci sono soltanto le tre scalate ufficialmente dichiarate. Sotto pressione, in Borsa, sono stati anche i titoli Mediobanca, Fiat, Generali...

Ora, con l’autunno, sono cadute alcune delle foglie che coprivano protagonisti, comprimari, tifosi. Ed è apparso il disegno, fallito ma non del tutto, dell’avventura d’estate. I protagonisti di prima fila sono un poker d’assi: il banchiere della Popolare di Lodi Gianpiero Fiorani, il finanziere bresciano Emilio Gnutti, l’immobiliarista romano Stefano Ricucci, il manager di Unipol Giovanni Consorte. Sono loro il commando d’assalto che si è lanciato, fuori da ogni regola, nelle operazioni.

Alle loro spalle: il governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio, l’istituzione che rinuncia finanche al decoro, l’arbitro della partita che si trasforma in commissario tecnico di una delle squadre in campo; poi una folla di “amici”, sostenitori e complici; e infine tutta una schiera di politici, parlamentari, uomini di partito, di destra e di sinistra, che si muovono sotterraneamente, contando sul fatto che delle loro mosse e delle loro parole nulla trapelerà. Invece: la professionalità della Guardia di finanza, l’intelligenza di alcuni magistrati e soprattutto le norme europee (quelle sul market abuse), da poco diventate legge italiana, fanno venire alla luce almeno parte della trama.

Dei quattro campioni della compagnia scalante, ognuno ha un suo piano da realizzare, un suo disegno di potere. Progetti diversi, anche con margini di competizione tra di loro: c’è chi sogna la Grande Banca Padana, chi persegue l’ingresso nei Salotti Buoni dopo tanto purgatorio, chi vuole la Banca Rossa e chi, semplicemente, tanti, tanti soldi... Ma ciascuno entra nella partita convinto che potrà approfittare degli altri e portare a casa il suo risultato. Antonveneta, Bnl, Rcs, poi – chissà – Fiat, Capitalia...

Il governatore Fazio è il grande protettore istituzionale, senza di lui nulla sarebbe potuto accadere. Silvio Berlusconi, invece, è il grande beneficiario, colui che, a lungo respinto dai “salotti buoni” della finanza italiana, ha tutto da guadagnare dalla destabilizzazione degli attuali equilibri: per “normalizzare” il Corriere e poi magari puntare a due prede che gli stanno particolarmente a cuore: Telecom e Generali. Sarebbero davvero un bel premio di consolazione, in caso di sconfitta elettorale.

Ma c’è anche la sinistra, in questa grande storia italiana di soldi, banche, giornali e potere. Perché se la variopinta compagnia degli scalatori cerca sponde a destra e conta sull’aiuto di Berlusconi per conquistare Antonveneta e Corriere, ha a sinistra una sua solida sponda per portare Bnl a Unipol. Questa sotterranea complicità produce effetti. Il primo, già devastante: l’impossibilità per la sinistra, che ha interessi nella partita, di osservare serenamente ciò che sta succedendo, di capire davvero, di giudicare criticamente gli assalti.

Le parole/1. D’Alema sdogana Ricucci


Questa storia d’estate ha una lunga gestazione. Ma s’impone all’attenzione dell’opinione pubblica quando appare chiaro che un sconosciuto immobiliarista romano noto fino ad allora per essere il fidanzato di Anna Falchi, Stefano Ricucci, che nel 1995 (a 32 anni, mica a 18) dichiarava redditi per 5 milioni di lire, nella primavera 2005 è miliardario e scala il Corriere della sera. Inevitabili le domande: Ma chi è ’sto Ricucci? Chi c’è dietro? Dove prende i soldi?

Ci sono i finanziamenti dell’amico Fiorani, certo. Le alchimie immobiliari della razza mattona. I “capitali scudati” rientrati in Italia grazie al governo Berlusconi... Ma qualcuno, alle soglie dell’estate, suggerisce che c’è anche una “pista rossa” da seguire, per tentare di rispondere a quelle domande. Il settimanale Diario la spara in copertina già agli inizi di giugno: «Compagno Ricucci». È un modo giornalistico per sottolineare, in un contesto ancora in gran parte opaco e oscuro, le strane alleanze e le cattive compagnie degli scalatori.

Gran finanziatore di Ricucci è la Deutsche Bank, guidata in Italia da quel Vincenzo De Bustis passato alla storia, o almeno alla cronaca, come il banchiere vicino a Massimo D’Alema fin dai tempi della Banca del Salento. E poi chi è il grande alleato del gruppo Ricucci-Fiorani-Gnutti in tutte le partite più rischiose che ha in corso? È Giovanni Consorte, il finanziere creativo di Unipol, l’uomo che ha trasformato il vecchio mondo delle cooperative rosse in una macchina da guerra da scatenare nelle operazioni finanziarie più spregiudicate: dalla madre di tutte le opa, lanciata da Gnutti su Telecom, fino agli odierni arrembaggi a Bnl e Antonveneta. Consorte ha stretto un patto di ferro con Fiorani e Gnutti, con cui fa cordata nelle operazioni benedette dal governatore Fazio.
La “pista rossa”, dunque, porta ad ambienti vicini a D’Alema. Chi lo conosce è pronto a giurare che al presidente Ds piace l’attacco al cuore dello stato di cose presente sferrato dai nuovi capitani coraggiosi. Dopo la «rude razza padana» è la volta della «rude razza romana»?

In tutta sincerità, alle soglie dell’estate 2005, questi sono solo indizi. Ma giornalismo, quando l’opacità trionfa, è cercare di porre domande, seguire piste, allineare indizi. A questo punto però già succede una cosa inaspettata: quella parte della sinistra chiamata giornalisticamente in causa sul «Compagno Ricucci», invece di cavarsela con una secca smentita e un bell’elogio della trasparenza, s’incammina su un percorso tortuoso.

«Non conosco nessuno di quei personaggi che si citano. Io questo Ricucci non so neanche chi sia», dichiara D’Alema il 10 giugno 2005 all’Unità. Ma poi aggiunge: «Certe campagne si concludono perché, immagino, si vogliono tutelare degli interessi specifici, di persone che ritengono che i loro interessi personali sono una nobile battaglia in difesa degli interessi del mercato, mentre gli interessi degli altri sono un ignobile complotto dietro cui si cela un qualche Belzebù». Dunque gli assalti finanziari in atto sono, per D’Alema, un corretto scontro di mercato a cui assistere con distacco, tanto una parte vale l’altra, e vinca il migliore.

Così D’Alema sdogana Ricucci, che non è un Belzebù. E il capitalismo non è questione di pedigree. Torna sulla questione il 2 luglio con una battuta sulla (risaputa) debolezza del capitalismo italiano: «Se degli oscuri immobiliaristi, dietro ai quali si è finalmente appurato che non ci sono io, spaventano i salotti buoni del capitalismo italiano, evidentemente c’è una fragilità di quegli assetti proprietari che non ha uguali al mondo». Gli risponde indirettamente Vittorio Merloni, sostenendo che nel capitalismo non conterà il pedigree, ma la trasparenza sì: «Ricucci è un mistero. Quanto meno, si può dire che il suo percorso non è tracciabile».

Claudio Velardi, che fu il braccio destro di D’Alema a Palazzo Chigi (anche se oggi, civettando un po’, si definisce un «disilluso del dalemismo»), parla ancora più chiaro. L’11 giugno sul Corriere della sera ammette che sì, D’Alema quando era presidente del Consiglio avrebbe fatto meglio a stare zitto, a non dire in pubblico ciò che pensava dei protagonisti dell’opa su Telecom («Avrebbe dovuto risparmiarsi quella frase sui capitani coraggiosi»). Ma poi gli scappa che cosa pensa, oggi, dei nuovi capitani coraggiosi, della rude razza romana degli immobiliaristi d’assalto: «Effettivamente Caltagirone è un grande imprenditore. Ma Ricucci cos’ha, la rogna?».

Il giornale di cui Velardi è editore, il Riformista, è più esplicito e afferma (nell’editoriale del 7 giugno) che «gli outsider, i lanzichenecchi, gli immobiliaristi, i redditieri» non sono un problema per il capitalismo italiano. Anzi, ce ne vorrebbero di più. «Il problema italiano è proprio quello di una certa carestia di outsider; sì, proprio di gente che viene dal nulla e si fa da sola, e mentre si fa da sola produce sviluppo, pil e benessere». Come Michele Sindona? Come Roberto Calvi? Come Giancarlo Parretti e tanti altri outsider della finanza italiana (i fratelli Canavesio, Florio Fiorini, Orazio Bagnasco, Paolo Federici, Vincenzo Cultrera, Luciano Sgarlata, Gianmario Borsano, Giorgio Mendella, Virgilio De Giovanni e, per non parlare di Sergio Cragnotti e Calisto Tanzi, tanti altri il cui elenco completo riempirebbe pagine e pagine)?

C’è sempre qualcuno che resta affascinato dall’assalto dei “nuovi”, spregiudicati ma pieni d’energie, contro i “vecchi”, spompati e senza una lira. Evviva, dunque, Ricucci, Coppola, Statuto, Fiorani, Gnutti...?

Pierluigi Bersani – ministro di D’Alema all’epoca della scalata Telecom da parte della «rude razza padana» riunita attorno al finanziere bresciano Chicco Gnutti – dichiara che è un «ragionamento preistorico» affermare di vedere lo zampino della «finanza rossa» dietro le operazioni in corso, solo perché «fra i player c’è una cooperativa»: perché è una cooperativa che «agisce sul mercato nel modo che ritiene più appropriato, senza chiedere il permesso a nessuno».

I «player rossi», dunque, si muovono liberamente sul mercato. Chi li critica, invece, è parte di un complotto: «E che dubbio c’è? Non siamo mica nati ieri», dichiara D’Alema. «Conosciamo i salotti e le persone che contribuiscono a tutto questo». Il presidente Ds non fa nomi. I salotti evocati sono quelli di Giuliano Amato e Franco Bassanini, che remano contro le scalate? O ce l’ha con l’asse Montezemolo-Della Valle-Rutelli, spalleggiato da Corriere della sera e Sole 24 ore?

Fatto sta che mentre l’Italia intera s’interroga preoccupata e cerca di capire da dove venga questo Ricucci e la sua rude razza romana, chi lo sdogana è – chi l’avrebbe mai detto – la sinistra dalemiana
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Le parole/2. Fassino sdogana Ricucci


Il segretario dei Ds Piero Fassino interviene nel dibattito il 23 giugno e, a sorpresa, scavalca lo stesso D’Alema nella difesa di Stefano Ricucci e compagnia scalante: «Incomprensibile la puzza sotto il naso» che circonda i palazzinari, dichiara a Sky Tg24. Lo stesso giorno diventa pubblica la notizia che Ricucci e la sua holding Magiste, come anche Chicco Gnutti e la sua Fingruppo, sono indagati dalla procura di Milano per aggiotaggio.

Il 7 luglio, con un’intervista al Sole 24 ore, Fassino rincara la dose: «Non c’è un’attività imprenditoriale che sia pregiudizialmente migliore o peggiore di un’altra. È tanto nobile costruire automobili o essere concessionario di telefonia, quanto operare nel settore finanziario o immobiliare».

Tenta di rispondergli Andrea Pininfarina, vicepresidente della Confindustria: «Non mi pare il caso di mettere sullo stesso piano, dal punto di vista dello sviluppo di tutto il Paese, chi fa impresa e chi di mestiere fa il raider finanziario».

Ma mentre Ricucci va sotto indagine penale e la sua trasparenza è vicina allo zero, Fassino sembra non vedere il problema: «Spetta a Consob, Antitrust, Autorità delle comunicazioni, Vigilanza della Banca d’Italia garantire le regole, non a me», dichiara al Sole il segretario Ds, che concede la sua benedizione invece alla scalata di Unipol su Bnl: «Se le cooperative crescono, a me fa piacere».

Replica bruciante, sempre sul Sole, di Marco Follini, segretario dell’Udc: «Credo che ci sia un certo eccesso di zelo in una cultura politica che ha scoperto il mercato in tarda età e ha finito qualche volta per farsi affascinare dai suoi aspetti più ambigui e tortuosi. E non mi convince una sinistra finanziaria che benedice, come ha fatto Fassino, l’eventuale opa di Unipol su Bnl ponendo le sue mani sul mercato al modo di quei re taumaturghi che nel Medioevo guarivano gli scrofolosi».

Il 21 luglio diventa noto che la procura di Roma sta indagando anche sulla scalata di Ricucci su Rcs. Lo stesso giorno, torna in campo D’Alema, che dichiara ad Alberto Statera di Repubblica: «Gnutti non lo conosco, come non conosco quello che è stato definito il “compagno” Ricucci. Compagno di chi? Falsità montate ad arte per depistare, per difendere altri interessi. In questo Paese è fortissimo l’intreccio tra interessi in campo e proprietà dei giornali. E il giornalismo economico è inquinato». I nomi, gli chiede Statera? «Non ne faccio». Subito dopo D’Alema dedica però un accenno benevolo agli immobiliaristi: «Gli speculatori fanno plusvalenze. Se rispettano le leggi dello Stato, perché criminalizzarli?».

Nessuno naturalmente li vuole criminalizzare per le plusvalenze. Semmai qualcosa da dire c’è sui metodi con cui le realizzano, visto le indagini e le condanne per insider trading. E nessuno ha mai detto o scritto che D’Alema sia il «socio» di Ricucci: la critica era semmai rivolta al sistema delle alleanze e alle “cattive compagnie”. Ma il presidente dei Ds preferisce drammatizzare, per poi sostenere che la “finanza rossa” non esiste: «Lo dimostra il fatto che su Bnl il Monte dei Paschi di Siena ha fatto come voleva». Vero: Montepaschi ha rifiutato di seguire Consorte nella scalata a Bnl, ma lo ha fatto rompendo con i vertici Ds e dopo insistenti pressioni di Roma e ripetute telefonate di Fassino.

D’Alema si spinge fino a difendere Gnutti, variamente indagato per reati finanziari e già condannato per insider trading. L’8 agosto dichiara infatti a Orazio Carabini del Sole 24 ore: «E che cos’ha che non va Gnutti? È socio anche di Olimpia (la finanziaria che controlla Telecom Italia, ndr) e nessuno ha mai detto niente. In queste critiche c’è un evidente elemento di ipocrisia». E poi: «Non si può fare di ogni erba un fascio. Da una parte un capitalismo buono, produttivo. Dall’altra quello degli speculatori legati al mondo politico. È una rappresentazione deviante, falsa... La verità è che il sistema è fragile. Raffigurarlo come sano, produttivo, aggredito dall’esterno da speculatori manovrati dal mondo politico è lontano dalla realtà. E si può fare solo perché gran parte dei giornali fanno capo agli stessi gruppi. Purtroppo il dibattito è inquinato perché i giornali possono scrivere male dei politici, ma non dei loro proprietari».

E Unipol? «Io nell’operazione Unipol non c’entro nulla», risponde D’Alema a Statera su Repubblica. «Quella è un’azienda, una grande azienda quotata in Borsa da anni. Se l’operazione che sta facendo sarà buona o cattiva lo giudicherà il mercato. A me sembra un’operazione del tutto limpida, fatta con tre grandi banche internazionali. Ma sa che le dico? Nei confronti dell’Unipol c’è una campagna razzista».

Comunque, conclude D’Alema, «se ci sono profili illeciti, intervengano le procure della Repubblica». Qualcosa di simile aveva detto anche Fassino: «Spetta a Consob, Antitrust, Autorità delle comunicazioni, Vigilanza della Banca d’Italia garantire le regole, non a me». Ma la politica non ha proprio nulla da dire, prima che arrivi la magistratura? Esistono comportamenti che non sono reati penali, ma possono essere politicamente inopportuni?

Le parole/3. Quanta cautela su Fazio


Lo scandalo scoppia quando le trame sotterranee vengono svelate dalle intercettazioni telefoniche: diventano visibili a tutti il disegno dei quattro scalatori, le connessioni tra loro, le alleanze reciproche, l’incredibile “concerto” con Fazio, i rapporti con la politica. Reazioni? Una parte della sinistra se la prende non con gli intercettati ma con le intercettazioni. E quanta cautela, agli inizi, su Fazio...

La situazione è più grave che dopo il più grave crac italiano, quello Parmalat, perché questa volta è compromessa la massima istituzione bancaria del Paese, Bankitalia. Eppure il vertice Ds fa a gara per tenere, per giorni e giorni, bassi i toni, per non insistere sulle dimissioni: non si può cacciare il governatore, sostiene una parte dei Ds, perché sennò poi, eliminata l’anatra zoppa, dovremo tenerci per chissà quanto un nuovo e più forte governatore messo lì da Berlusconi; e perché Fazio – ma questo lo sussurrano solo i critici interni – serve anche a quella parte della sinistra che è impegnata nella scalata di Unipol su Bnl.

Prudenti. Cauti. Cautissimi. Dichiarazioni a scandalo caldo, il 27 luglio. Il segretario Ds Piero Fassino: «Dobbiamo stare attenti a non indebolire l’istituzione Bankitalia». Pierluigi Bersani, europarlamentare Ds ed ex ministro di D’Alema ai tempi dei “capitani coraggiosi”: «Non possiamo aprire adesso il tormentone estivo “Fazio sì, Fazio no”, in questo modo si va allo sfascio». Un altro ex ministro del governo D’Alema, Vincenzo Visco, il 3 agosto: «Dimissioni? È una decisione che deve valutare a livello personale... No, non c’è stata una richiesta di dimissioni da parte dei Ds... Le riforme in corso comunque non toccherebbero l’attuale governatore, intervenire sarebbe contrario al trattato della Banca centrale europea. L’eventuale mandato a termine riguarderà il successore... Al momento, non vedo illeciti in senso stretto».

D’Alema in persona, l’8 agosto, sul Sole 24 ore dichiara che, a proposito delle dimissioni di Fazio, «la scelta è affidata alla sua sensibilità. Non tocca certo all’opposizione». Fino al 7 settembre, quando Bersani dichiara alle agenzie che per Fazio «andarsene in queste condizioni sarebbe come cedere alla canea» (anche se subito viene corretto e smentito da altri esponenti del suo partito: ormai a sinistra è finalmente prevalsa la linea del rigore; del resto di lì a poco lo stesso Berlusconi giungerà a “sfiduciare”, almeno formalmente, Fazio).

Le parole/4. Contro le intercettazioni


Anche le intercettazioni telefoniche e ambientali, permesse nelle inchieste sui reati finanziari dalla nuova disciplina europea introdotta in Italia con la Legge comunitaria del maggio 2005, sono guardate con sospetto e fastidio da una parte della sinistra. Eppure sono uno dei pochi metodi d’indagine efficaci per scoprire ciò che viene progettato e realizzato in segreto, ai danni del mercato e dei risparmi di milioni di cittadini.

Eppure, ecco come le giudica Visco il 27 luglio: Fazio ha avuto un «comportamento discutibile, ma non bisogna esagerare con le intercettazioni». E il 3 agosto: «Le intercettazioni, comunque, sono assolutamente disdicevoli...». D’Alema rincara la dose: «C’è qualcosa di violentemente impudico in quanto sta succedendo. Intrufolarsi nelle conversazioni private della signora Fazio è roba da tricoteuses, da voyeurs».

Fin qui, le parole. Ma ci sono anche i fatti. Ai tempi dell’opa Telecom, la madre di tutte le scalate, Guido Rossi criticò il ruolo in quella vicenda di D’Alema, che nel 1999 era presidente del Consiglio, sentenziando: «Palazzo Chigi è l’unica merchant bank dove non si parla inglese». Ma al confronto delle scalate dell’estate 2005, quella Telecom (che non è né una banca né un giornale) era un modello di correttezza.

I fatti/1. Soldi ai mattonari


Il 18 luglio Giovanni Consorte diventa ufficialmente il protagonista (player, direbbe Bersani) della scalata a Bnl. Acquista le quote rastrellate sotto traccia nei mesi precedenti dagli immobiliaristi. Così chi continuava a chiedersi chi c’è dietro a Ricucci, chi gli ha dato i soldi, ha finalmente una risposta: «La finanza rossa», dice sorridendo un banchiere, indicando i 408 milioni di euro che saranno versati a Ricucci da Unipol. I cosiddetti “contropattisti” incassano infatti dalla compagnia bolognese oltre 2 miliardi di euro e portano a casa delle belle plusvalenze: complessivamente 1,2 miliardi: Ricucci 210 milioni di euro, Francesco Gaetano Caltagirone 255, Danilo Coppola 230, Giuseppe Statuto 207, Vito Bonsignore 180, Ettore Lonati 105, Giulio Grazioli 42.

Così Ricucci, Statuto, Coppola, Bonsignore e compagnia scalatante avranno carburante per nuove avventure: l’assalto a Rcs? a Mediobanca? a Generali? Commenta a caldo un banchiere del Montepaschi: «I partner degli affari vanno scelti. Che senso ha dare più di 2 miliardi di euro a gente come quella? È carburante per nuovi incendi».

Continua qualche irriducibile critico: se ora Ricucci conquisterà il Corriere, magari per offrirlo a Berlusconi o a qualcuno dei suoi alleati, sarà chiaro da quale Bicamerale sotterranea della finanza sarà nata la spartizione delle spoglie degli ex salotti buoni del capitalismo italiano in declino... Ma questa, a fine luglio 2005, era solo un’ipotesi, fantascienza, delirio complottista. Nel giro di qualche settimana, quell’ipotesi si è trasformata in una possibilità concreta.

I fatti/2. Concerto rosso


Tra i protagonisti della composita compagnia di scalatori, schierati a geometria variabile su diversi fronti, esiste una solidarietà di fondo. I contatti tra Fiorani, Gnutti, Ricucci e Consorte sono fittissimi. Insieme decidono tutte le loro mosse. Si parlano e prendono decisioni solo dopo essersi consultati. Fra i quattro del poker d’assi sembra esserci una comunicazione costante e un continuo scambio d’informazioni.

Esiste, allora, una scalata “cattiva” (quella di Fiorani su Antonveneta) e una scalata “buona” (quella di Consorte su Bnl), come hanno ripetutamente affermato Fassino («La vicenda Bnl è molto diversa dalla scalata Antonveneta») e D’Alema («Non possiamo omologare le storie, in Antonveneta c’è la magistratura che indaga, staremo a vedere»)?

Certo, Fiorani è inarrivabile, nei pasticci che ha creato dentro i conti della sua banca, nei prestiti agli “amici”, nei fondi creati ai Caraibi, nell’aumento di capitale, nelle finte cessioni messe in scena per ricostruire il patrimonio... Ma che le due scalate siano radicalmente diverse è difficile da dimostrare. Non ne sono convinti gli investigatori: scrive infatti il giudice preliminare Clementina Forleo, nella sua ordinanza su Antonveneta, che «dalle intercettazioni emerge l’esistenza di accordi riservati in ordine a entrambe le scalate bancarie». Ma non ci credono neppure i diretti protagonisti, che nelle telefonate del 23 luglio, temendo le indagini in corso, discutono addirittura se anticipare i magistrati e dichiarare essi stessi l’allargamento del “concerto” anche a Unipol: discutono cioè se ammettere formalmente che l’alleanza sotterranea Fiorani-Gnutti-Ricucci (e compagnia scalante) è allargata anche a Consorte.

È la giornata più delicata per il manager “rosso”. Ecco com’è raccontata nel brogliaccio della guardia di finanza:

Ore 19.02, Fiorani per Gnutti. Fiorani gli dice che sta mettendo a punto un ricorso al Tar e parla di estendere il patto a Ricucci, ma allo stesso prezzo. «L’unica cosa che cambierebbe è che il patto parasociale è di quattro soci e non più di tre, dichiarando che prima non c’era e che questo patto è nuovo». A quel punto Fiorani propone di «estendere il patto anche a Unipol».

Ore 19.25. Gnutti dice a un certo Manuele che «ieri sera pareva che volessero concertare anche Unipol». Manuele commenta che «è tutta politica, è una partita che stanno giocando a colpi bassi».

Il “concerto” non sarà dichiarato dagli scalatori, né richiesto dai magistrati di Milano Eugenio Fusco e Giulia Perrotti, coordinati da Francesco Greco (che indagano su Antonveneta, non su Bnl, su cui lavora la procura di Roma). Ma che i rapporti tra i quattro siano costanti e intensi è fuor di discussione.

Nella settimana tra lunedì 18 e venerdì 22 aprile (la settimana in cui, secondo la Consob, si mostra l’evidenza del “concerto” per Antonveneta), avvengono imponenti movimenti d’azioni Bnl. Passa di mano il 10 per cento della banca romana, per un valore di 700 milioni di euro. Ricucci, Coppola, Statuto portano pacchi di titoli Bnl alle banche (soprattutto alla Popolare di Lodi, ma anche a Meliorbanca, al Sanpaolo, al Banco di Sardegna controllato dalla Popolare dell’Emilia). In cambio ottengono nuove aperture di credito, che usano per rastrellare azioni Antonveneta. Mario Gerevini, sul Corriere della sera del 19 maggio, scrive che è in atto una «partita doppia» tra cordata Bnl e cordata Antonveneta. Un doppio “concerto”, con connessioni pianificate tra le due scalate, che coinvolge anche Consorte.

Un appunto della guardia di finanza, il 3 luglio riferisce che Caltagirone (chiamato nelle telefonate «l’ingegnere») secondo Fiorani vuole troppo. Il banchiere di Lodi dice, a questo proposito, che bisogna aiutare invece Consorte:

«Fiorani dice che l’ingegnere, rivendicando il fatto di controllare loro tre e anche Lonati, vuole la presidenza per almeno nove anni, e il diritto di veto: non vuole nessuno che gli giri intorno, vuole mettere i suoi uomini. Fiorani riferisce che sotto questo profilo fa fatica a dare torto a Gianni (Consorte)». Gnutti risponde che «se c’è bisogno di aiutare Gianni non c’è nessun problema». La conclusione di Fiorani è che prima bisogna chiudere la vicenda Antonveneta, «dopo di che salderanno Bnl».

Il 5 luglio Consorte parla con un certo Pierluigi (Bersani?) e a proposito dei rapporti con gli immobiliaristi del “contropatto” gli dice: «Si sta mettendo bene e quindi domani tornerò a Bologna perché bisogna convocare un po’ di cooperative» (povere cooperative, ridotte a massa di manovra per i progetti di Consorte). Pierluigi gli chiede se usciranno tutti da Bnl. Consorte risponde che sì, uscirà anche Caltagirone, perché tra loro, banche, Hopa e coop hanno il 52 per cento.

Il patto segreto tra gli scalatori delle due banche, Antonveneta e Bnl, prevede che tutti i “concertisti” abbiano la possibilità di guadagnare da entrambe le operazioni. Poi non esclude che, alla fine, alcuni degli alleati possano lanciarsi in altri affari: l’assalto a Rcs, grandi manovre su Capitalia, un’opa sulla Fiat... Giovanni Consorte ne parla il 6 luglio con il tesoriere Ds Ugo Sposetti. E a lui chiede di avere notizie per sapere se davvero nel progetto di opa sulla Fiat «c’è di mezzo anche Berlusconi». Il brogliaccio annota:

«Consorte dice che ha chiuso l’operazione con quelle persone (i sette che hanno il 27,5 per cento di Bnl) e spiega che domani sarà a Roma per definire le ultime cose e chiudere definitivamente». Poi riferisce a Sposetti dei contatti con i suoi interlocutori politici. «Dice che più tardi chiamerà Fassino per informarlo della vicenda. Spiega che Isvap e Bankitalia gli hanno dato l’autorizzazione. Dice che anche con Berlusconi non ci sono problemi, dato che uscendo l’ingegnere (verosimilmente Caltagirone) diventa un’operazione totalmente della sinistra (Unipol, Popolari e cooperative)». Poi si parla di una possibile nuova scalata. «Consorte chiede a Sposetti di fare una cosa per lui e cioè di verificare la notizia secondo la quale sembra che stiano preparando una opa sulla Fiat, e che nell’opa c’è di mezzo anche Berlusconi. Sposetti sostiene che la cosa è molto possibile». A questo punto «Consorte raccomanda di usare la massima discrezione perché il conflitto di interessi è enorme».

I contatti tra Consorte, Fiorani e Gnutti restano intensi. Si delinea l’esistenza di un «progettone» comune, si palesa la presenza di prestanome e s’intuisce la speranza di uno scambio tra i due fronti («Più piaceri ora fanno di qua e più Gnutti potrà chiedere di là»):

7 luglio, ore 19.29. Un certo Ettore (Lonati?) dice a Gnutti «che hanno finito e si ritroveranno lunedì a Roma a vedere di concludere. Ettore dice che Unipol deve riunire i suoi per vedere di fare accettare quello che hanno proposto. Aggiunge che non perderanno una cifra e che più piaceri ora fanno di qua e più Gnutti potrà chiedere di là».
10 luglio. Un certo Ugo dice che «Fazio ha dovuto prendere le distanze da Fiorani e dai vari Geronzi e ora si trova con persone per bene che siamo noi di Unipol. Se non ci fossimo stati noi, Fazio sarebbe stato perso».

12 luglio. Caltagirone chiama Consorte e gli chiede di «confermare i tre nomi romani». Consorte gli risponde che «il terzo nome non può dirlo perché è il prestanome di una banca».

13 luglio, ore 20.06. Consorte comunica a Gnutti che per Bnl «è tutto fatto». Gnutti gli risponde che anche loro per Antonveneta «hanno chiuso con i giapponesi, con tutti, col governatore» e aggiunge che «ora stanno chiudendo gli accordi insieme a Caltagirone e domenica faranno tutto».

15 luglio, ore 9.02. Cirla, dirigente di Interbanca (gruppo Antonveneta), chiede a Gnutti «se ci sono novità». Gnutti dice che prenderanno il 5 per cento di Bnl e lo faranno per Gianni (Consorte) perché «nel progettone finale giustificheranno industrialmente l’operazione».

Il 15 luglio alle 15.11 c’è una importante conference call sulla scalata di Unipol a Bnl. Una riunione telefonica a cui partecipano Fiorani, Gnutti, Ricucci e altri, in cui si accenna a un «documento segreto» che Gnutti farà girare e poi conserverà in copia unica. Così l’assemblea via cavo è ricostruita dalla guardia di finanza:

«Gnutti dice che gli amici di Unipol vogliono lanciare l’opa volontaria su Bnl... e che è stato chiesto anche a loro di entrare nel patto parasociale previo acquisto del 4,99 per cento del capitale sociale di Bnl. Dice che prevede una call a trenta giorni a loro favore nel caso in cui l’opa non raggiunga il 51 per cento». E poi spiega che «la firma della costituzione del patto parasociale li coobbliga con loro nel lancio dell’opa, e che tutto quello che verrà dall’opa se lo pagheranno loro». Poi Gnutti parla di un documento che dovrà rimanere segreto: «Gnutti dice che farà circolare un documento che ribadirà questo discorso e che manterrà solo lui come unico esemplare».

L’impegno su più fronti del gruppo continua. Il 17 luglio, alle 20.48, Stefano (Ricucci) chiama Gianni (Consorte) per chiedergli un posto nel consiglio d’amministrazione della futura Bnl:

«Consorte dice che ormai sono in dirittura d’arrivo. Stefano fa le sue richieste riguardo al suo posto in consiglio. Gianni risponde che il suo posto in consiglio sarà disponibile alla sola condizione che Bilbao non faccia blocco, perché in quel caso ci sarebbe spazio solo per otto consiglieri che dovrebbero essere tutti di Unipol. Stefano convalida, dicendo che in quel caso lui sarà disposto a dimettersi per lasciare il posto ai consiglieri Unipol».

Il 19 luglio, altre telefonate tra Consorte e Fiorani. Il primo si rivolge al banchiere di Lodi perfino per chiedere qualche buon nome per la presidenza della banca, dopo che sarà conquistata:

Consorte chiede a Fiorani di «pensare a due-tre possibili presidenti di prestigio, che loro possono avvicinare». Fiorani dice che Montani è venuto fuori da Leoni che avrà avuto l’imbeccata dal governatore. Fiorani fa il nome di Paolillo. Consorte dice che va bene. Poi gli dice che la settimana prossima mangeranno insieme «così mi dici tutti i tuoi pensieri».
Che la partita in corso sia una, pur divisa su più fronti, è confermato anche da Luigi Gargiulo, il ragioniere di fiducia di Ricucci. Il 19 luglio, Gargiulo conferma infatti che:

«Alla fine venderanno anche Antonveneta e poi punteranno tutto su Rcs e che gli serve anche il titolo Capitalia».

Il 22 luglio è Fiorani ad annunciare a Gnutti che «Bilbao ha rinunciato» a Bnl perché «Unipol ha fatto prima di loro». Fiorani parla di Gianni Consorte e dice di fare «un incontro la settimana prossima»:
«Gnutti dice che gli fanno dei problemi. Consorte risponde che gli spagnoli si sono ritirati. Consorte dice che Spinelli e gli altri hanno detto che gli danno tutti i soldi che vuole per fare Bnl».
Il “concerto” destra-sinistra appare dunque evidente. Dall’inizio alla fine della battaglia.

I fatti/3. Telefono rosso


A leggerli, i testi delle intercettazioni, si capisce subito il fastidio di alcuni politici, anche di sinistra: è il fastidio degli intercettati. Sono infatti rimaste registrate anche alcune loro telefonate. Non per scelta degli investigatori, che avevano legittimamente sotto controllo alcuni banchieri e finanzieri. Ma questi telefonavano anche a parlamentari e uomini politici; e poi tra di loro commentavano e riferivano quelle telefonate. Così, malgrado gli omissis di legge subito apposti dai magistrati, sappiamo che a parlare di affari con gli scalatori sono in molti, dal senatore Luigi Grillo di Forza Italia al deputato Udc Ivo Tarolli, dal presidente Ds Massimo D’Alema al segretario del partito Piero Fassino, dall’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga al sottosegretario alla Difesa Salvatore Cicu, dal senatore della Quercia ed ex segretario di D’Alema Nicola Latorre al senatore e tesoriere Ds Ugo Sposetti, dal senatore di Forza Italia Romano Comincioli, compagno di scuola e poi prestanome di Silvio Berlusconi, al presidente della Regione Lazio Piero Marrazzo, fino a Gianni Letta, che del governo Berlusconi è l’eminenza grigia... Coinvolto direttamente nella vicenda anche il ministro Giulio Tremonti, a cui Consorte ha chiesto una consulenza attraverso il commercialista Claudio Zulli, socio di studio del ri-ministro dell’Economia.

Molte intercettazioni non le leggeremo mai: perché sono processualmente inutilizzabili, e anzi da distruggere, tutte quelle trascrizioni in cui a parlare sono i deputati o i senatori. Eppure, anche a fermarsi a quel che si può legittimamente conoscere, il quadro è desolante.

In questa storia di soldi, politica, informazione e potere, la notte tra l’11 e il 12 luglio 2005 è cruciale: è la notte in cui Fazio annuncia il suo sì a Fiorani, ricambiato con un bacio in fronte. Quella sera Gnutti è a cena con Berlusconi. Subito dopo l’annuncio, il quartetto delle scalate si scambia la notizia e festeggia.
Berlusconi viene subito messo al corrente della decisione del governatore e, almeno secondo quanto dice Fiorani, si mostra «commosso della cosa».

Che la regia delle tre scalate sia unica, quella notte appare evidente: Gnutti riferisce a Fiorani di aver detto a Berlusconi «che andremo avanti con Rcs e che ci deve dare una mano», altrimenti «la sinistra prende tutto»; e Fiorani gli risponde che però, «in questo momento», «la sinistra ci ha appoggiato più di quanto abbia fatto il governatore...».
Poi Gnutti riceve una chiamata da Ricucci. E infine chiama Ivano: con tutta probabilità si tratta di Ivano Sacchetti, il numero due di Unipol. Fiorani, Gnutti, Ricucci, Sacchetti (dunque Consorte): nel giorno del tripudio il poker d’assi festeggia al gran completo.

Consorte in persona chiama anche Fassino. E poche ore dopo contatta un certo Pierluigi (Bersani?). Gli annuncia che «per domani lo ha chiamato il governatore». Poi gli riferisce «che Letta ha chiamato Caltagirone e si è adirato perché voleva che lui ci fosse, perché l’operazione non sembrasse di sinistra». Consorte dice «che Gnutti ne ha parlato con Berlusconi». L’aria di Bicamerale degli affari è ormai chiarissima.
Ecco il dialogo del 12 luglio, ore 10.03, tra Ivano Sacchetti (il numero due di Unipol) e Chicco Gnutti:

Ivano: «Ho letto sui giornali che vai a un pranzo con Berlusconi».
Gnutti: «Ci sono già stato ieri sera».
Ivano: «Avresti dovuto parlargli di...».
Gnutti: «...L’ho fatto! ...quindi a Berlusconi ho detto che con buona probabilità andrò in appoggio anche di là perché mi pare corretto e giusto e Berlusconi ha detto che faccio bene... Io ho detto a Berlusconi che a noi interessa molto appoggiare Gianpiero perché dall’altra parte stiamo facendo quell’altra... Per cui, per una questione di equilibrio, si fa una per uno. Berlusconi mi ha detto che faccio bene».

Lo scambio è chiarissimo: «Per una questione d’equilibrio, si fa una per uno». Una a te, una a me; una a destra, una a sinistra. Antonveneta a Fiorani, Bnl a Consorte. Dunque destra e sinistra, in questa storia, non sono alternative, ma complementari. E Berlusconi, almeno secondo quanto riferisce Gnutti, è informato in diretta di quel che sta accadendo. E approva.

Anche Consorte, come Fiorani, parla direttamente con la Banca d’Italia (mentre per i suoi concorrenti, i baschi del Banco di Bilbao, i contatti sono chiusi). Il suo interlocutore è, oltre che il governatore, Francesco Frasca, il capo della Vigilanza. A lui riferisce, alle 18.21 del 12 luglio, le operazioni in corso. E gli chiede aiuto: «Gianni gli dice che ha bisogno di lui», riporta il brogliaccio. Alle 19.01 Frasca lo richiama: «Dice che il governatore voleva incontrarlo per capire bene tutta la struttura... Frasca gli farà sapere dell’incontro con il governatore...». I contatti proseguono nei giorni seguenti.

Il capo della Vigilanza tira poi un sospiro di sollievo – con Fiorani e tutta la compagnia scalante – quando il 20 luglio il Tar del Lazio dà ragione agli scalatori: «La procura di Roma prima andava su un’autostrada a sei corsie, ora ha davanti una strada di montagna». Ma Frasca, inverità, pare preoccupato delle indagini di Milano, non di quelle di Roma.

Il 21 luglio, alla vigilia della vittoria in Bnl, Consorte è già subissato da sms di congratulazioni. Ed entra in scena anche il ministro Giulio Tremonti. Consorte chiama Claudio Zulli, commercialista associato al suo studio. Tremonti, dice Zulli, è a conoscenza dell’operazione e «si è mosso e ha seguito questa vicenda con molta ammirazione», anzi, ha addirittura «fatto il tifo». Consorte gli è grato: «Tu sai che il governo ci ha dato una mano e sai come ragiono io, la riconoscenza va data al punto giusto». Dunque: il governo (Berlusconi) ha dato una mano alle scalate e a Unipol, dice Consorte. E ora arriverà la «riconoscenza». Qual è il «punto giusto»?

I fatti/4. La Bicamerale degli affari


Il movimento cooperativo è un grande fenomeno imprenditoriale, con 400 mila occupati, 7 milioni di soci, 45,7 miliardi di euro di giro d’affari. Non sono le cooperative ad essere oggetto di odio «razzista». E nemmeno Unipol, che è una grande compagnia assicurativa nata e cresciuta in quel mondo. Ciò che viene criticato è semmai l’attivismo di Giovanni Consorte, la sua spregiudicatezza, le sue alleanze. È impressionante vedere la ragnatela di intrecci azionari che lega tra loro i quattro protagonisti delle scalate d’estate, il poker d’assi Fiorani-Gnutti-Ricucci-Consorte.

Giovanni Consorte, cinquantasettenne ingegnere di Chieti, è entrato in Unipol quando questa era “l’assicurazione dei comunisti” e l’ha portata a veleggiare nel mare aperto del mercato. L’ha “laicizzata”, l’ha fatta crescere, l’ha collocata nel gruppo di vertice delle assicurazioni italiane. Stringendo alleanze prima impensabili.

Ha legami diretti (e incrociati) sia con Fiorani, sia con Gnutti. Con il banchiere di Lodi, Consorte è stato socio nell’assalto ad Antonveneta, di cui Unipol è giunta a controllare il 3,7 per cento. Poi, attraverso Aurora Assicurazioni, ha una partecipazione del 5,7 per cento in Reti Bancarie, una subholding della Popolare di Lodi. Viceversa, la Popolare di Lodi possiede il 2 per cento di Unipol.

Vittorio Malagutti sull’Espresso ha raccontato anche il miracoloso fido di 4 milioni di euro della Popolare di Lodi a Consorte: chiesto il 27 dicembre, tra Natale e Capodanno, è stato concesso in ventiquattr’ore, senza bisogno d’alcuna garanzia. Proprio nelle settimane seguenti, altri 38 “amici” di Fiorani hanno ottenuto finanziamenti per 1,1 miliardi di euro poi utilizzati per comprare azioni Antonveneta. E proprio in quelle settimane sono partite, sotto traccia, le scalate incrociate: Unipol ha rastrellato il 3,7 per cento di Antonveneta, mentre Lodi ha messo insieme l’1,4 di Bnl. Ben prima che le due scalate fossero dichiarate al mercato: miracoli della preveggenza.

Con il finanziere bresciano Chicco Gnutti i legami di Consorte sono più antichi e ancora più stretti. Unipol possiede infatti il 7,1 della sua finanziaria Hopa. D’altra parte, Hopa e Fingruppo (altra finanziaria di Gnutti) insieme avevano il 15 di Unipol Merchant. E Hopa aveva anche il 20 per cento di Finsoe, la società che controlla Unipol. Ma questi due legami sono stati prima annacquati, poi azzerati. Hopa è completamente uscita da Unipol il 1 aprile 2005. Gnutti aveva anche il 21 per cento di Finec, la finanziaria che controllava, a cascata, Ariete, che controllava Holmo che controllava Finsoe che controllava Unipol. Un’architettura societaria così arzigogolata e autoreferenziale, piena di scatole cinesi e partecipazioni incrociate, da far invidia perfino alla vecchia «costruzione gotico-castrense» delle 23 holding berlusconiane. Alla faccia della trasparenza che ci si aspetterebbe dal movimento cooperativo.

Solo nella primavera 2005 Consorte aveva fatto ordine in casa (in previsione della scalata Bnl?), semplificando la catena di controllo ed eliminando i controlli incrociati. Finec, per esempio, si era fusa in Ariete ed erano stati allentati i rapporti con le società di Gnutti. Allentati, ma non annullati. Hopa, per esempio, ha mantenuto un 5 per cento in Finsoe.

Se c’è una Bicamerale della finanza, questa si chiama Hopa. È proprio in questa holding controllata e presieduta da Gnutti che siedono insieme i protagonisti della “finanza rossa” e gli amici e consiglieri di Berlusconi. Vicepresidente di Hopa è Giovanni Consorte, tra i consiglieri ci sono Stefano Bellaveglia (il dalemiano vicepresidente di Montepaschi), ma anche Gianpiero Fiorani, Stefano Ricucci e Ubaldo Livolsi (il finanziere di Berlusconi operativo nella scalata al Corriere tentata da Ricucci).

Nel collegio sindacale di Hopa, infine, c’è Achille Frattini, professionista di fiducia di Berlusconi, che l’ha messo in una moltitudine di collegi sindacali. È, tra l’altro, presidente del collegio sindacale di Mediaset e anche di quello di Idra, la società che custodisce le proprietà immobiliari del Cavaliere, prima fra tutte Villa Certosa. Insomma: Hopa, la plancia di comando delle scalate tenuta appositamente fuori dai movimenti dei “concertisti”, è il salotto della Nuova Bicamerale.

Cerniere, punti d’incontro tra i due fronti, però, ce ne sono anche altri. Claudio Sposito, ex amministratore delegato di Fininvest, è indicato nelle telefonate intercettate come colui che finanzierà l’avventura di Consorte acquistando, attraverso il suo fondo Clessidra (il più grande fondo di private equity italiano) un buon pacchetto di Aurora Assicurazioni, controllata da Unipol.

Federico Imbert, l’uomo di Jp Morgan in Italia, nell’aprile 2005 ha realizzato per Berlusconi l’imponente collocamento del 17 per cento di Mediaset. Ma è anche nel pool di banche che assistono Consorte nell’operazione Bnl e Jp Morgan possiede il 2 per cento di Finsoe, la cassaforte che controlla Unipol. Il 25 maggio Imbert è stato ricevuto a Palazzo Chigi, secondo quanto annunciato da un comunicato della presidenza del Consiglio che non spiega però i motivi della visita.

E poi c’è Earchimede. E qui la faccenda si fa delicata. La società è una subholding di Hopa ed è presieduta da Gnutti. Ma è partecipata da Lodi (11,92 per cento) e tra i soci ha altri “concertisti” bresciani, come i fratelli Lonati (7 per cento). E poi Unipol: Consorte, attraverso Unipol Merchant e Aurora Assicurazioni, controlla il 14 per cento del capitale, dunque è l’azionista più importante dopo Gnutti.

Ha una strana storia, Earchimede. Nasce come incubator per il web, per tutto il 2002 non fa granché, fatturato minimo, perdite consistenti. Poi diventa holding di partecipazioni e nel 2004 comincia a fare utili. Ma sempre con piccoli affari, mentre il capitale è diventato imponente: 212 milioni. Inspiegabile un tale immobilizzo di denaro. «A meno che si fosse in attesa del grande affare», scrive il Sole 24 ore il 28 luglio. E il grande affare arriva nell’estate 2005, quando a Earchimede finisce una delle più grandi tra le cessioni fatte da Fiorani per far quadrare, almeno apparentemente, i suoi conti patrimoniali: le arrivano le quote di Efibanca e Bpl Ducato.

In una telefonata del 29 giugno, ore 15.10, Fiorani parla dell’operazione con Consorte. I due fanno riferimento a un consiglio d’amministrazione della società Earchimede, durante il quale dovranno deliberare «un acquisto di partecipazioni nostre che sono Ducato».

Fiorani: «Ecco un’altra cosa! Oggi c’è un consiglio Earchimede e tu hai un tuo consigliere dentro e anche un sindaco».
Consorte: «Sì!».
Fiorani: «Loro deliberano, diciamo temporaneamente con la T maiuscola, dell’acquisto di partecipazioni nostre che sono Ducato».
Consorte: «Aspetta un secondo che non sento... deliberano?».
Fiorani: «Sì! Deliberano l’acquisto di due partecipazioni quota minimale di Ducato e di... e di aspetta... Efibanca».
Consorte: «Sì!».
Fiorani: «E vengono deliberate con lo scopo di fare un’operazione diciamo così di...».
Consorte: «Ho già capito!».
Fiorani: «Hai già capito! Tutto lì! Dopodiché è un’operazione che però renderà a Earchimede 2.500.000 di fees».
Consorte: «Mmmmmmmmmmm».
Fiorani: «Che è l’ammontare che serve a Earchimede per avere il bilancio in utile dopo le svalutazioni che deve fare che ha potuto fare purtroppo il fondo là di quel di Capomolla & Company».
Consorte: «Sì!».
Fiorani: «Quindi allora sono garantiti e un utile guadagnano te lo dico perché se tu hai dentro uno in consiglio di amministrazione e hai un sindaco tuo».
Consorte: «Sì!».
Fiorani: «Se gli mandi un accenno che è tutto ok».

Poco dopo, alle 17.24, Fiorani contatta Gnutti, che lo aveva cercato perché voleva un affidamento di 30 milioni per comprare azioni Eni. Ma prima Fiorani gli dice che la questione Earchimede «la sta mettendo a posto Giovanni». Concerto rosso. Roba da “furbetti del quartierino”.

I fatti/5. No anche dentro i Ds


Chi critica la “scalata rossa” (e i suoi sostenitori dentro la politica) lo fa perché pregiudizialmente ostile ai “riformisti”? Perché affetto da “girotondismo rancido”? Perché fa gli interessi di una parte del capitalismo italiano (l’asse Della Valle-Montezemolo)? O perché ha interessi di partito e, dentro il centrosinistra, vuole sottrarre voti ai Ds?

Alcuni partiti dell’Unione, dalla Margherita all’Udeur, hanno preso a pretesto le scalate per aumentare il loro peso nell’alleanza e rosicchiare voti al primo partito della sinistra: «Per spolpare l’osso dei Ds», dice Vannino Chiti alla Stampa il 7 agosto. È così?
Può darsi che ci siano anche queste componenti nelle intenzioni di chi, nell’estate 2005, ha voluto riaprire la “questione morale”. Ma la storia dell’osso da spolpare non spiega una cosa: il vasto disagio provocato da queste vicende dentro i Ds e il loro mondo. Molti non lo esprimono all’esterno, per timore di indebolire il partito alla vigilia di un cruciale scontro elettorale. Ma il disagio c’è, profondo e diffuso.

Nettamente contrari agli scalatori sono Franco Bassanini, Giuliano Amato, Roberto Barbieri, Enrico Morando, tutti perplessi sul ruolo giocato da Unipol in questa partita. Un no chiaro a Consorte e ai suoi piani è arrivato dall’altro grande polo della “finanza rossa”, il Monte dei Paschi, e da tutti i Ds di Siena. Cauto e insoddisfatto si è mostrato Lanfranco Turci, in passato presidente di Lega coop e oggi senatore Ds, che è andato significativamente nella città tascana sede del Montepaschi e capitale dei diessini “dissidenti” per un affollato dibattito su «Siena, città della finanza». Fredda nei confronti dell’operazione Unipol-Bnl è una parte dello stesso mondo cooperativo, da Turiddu Campaini di Unicoop Toscana alle coop dell’Umbria, fino a Silvano Ambrosetti della Coop Lombardia.

Contrario il mondo sindacale della Cgil. A partire dal numero uno Guglielmo Epifani, che il 19 luglio ha dichiarato: «Per quello che riguarda la Cgil, non eravamo né siamo convinti che questa sia la soluzione migliore per Bnl. Unipol si caricherà di troppi debiti per un’azienda, la Bnl, che è in difficoltà da anni, che avrebbe bisogno di una grande banca internazionale per essere rilanciata. Questa era l’opinione della Cgil, e questa resta l’opinione della Cgil. Poi Unipol agisce secondo quanto ritiene utile pe sé».

Carlo Ghezzi, ultimo consigliere d’amministrazione Unipol espresso dalla Cgil, ricorda come il sindacato decise di uscire dalla compagnia bolognese: «Era il 1999, l’Unipol finì per partecipare alla scalata Telecom. Fu allora che, con il segretario generale Sergio Cofferati, prendemmo la decisione: uscire dal consiglio d’amministrazione. Questa scelta, vista ora, appare lungimirante. In queste scalate vedo solo un gran movimento di capitali che puntano alla rendita. Legittimo, per carità. Ma dalla sinistra mi aspetterei attenzione ai progetti innovativi per rilanciare l’economia reale».

Netta l’opposizione dei sindacati bancari. Il segretario dell’Emilia-Romagna della Fisac (i bancari della Cgil), Giorgio Romagnoli, definisce quella di Unipol «una cattiva soluzione, non certo un esempio di trasparenza. Un’operazione pericolosissima, azzardata, sbagliata». Domenico Moccia, che della Fisac-Cgil è il segretario generale, è durissimo quando afferma che Consorte sta mettendo a rischio il patrimonio materiale e morale delle cooperative e che «la sinistra non può accettare il modello Pretty Woman, film in cui il finanziere interpretato da Richard Gere vuole distruggere un’impresa, strangolandola finanziariamente, per poi realizzare un’operazione puramente speculativa».

C’è insomma tutto un universo, non nemico o concorrente, ma interno alla sinistra e alla Quercia, che non applaude neanche un po’ il boss dell’Unipol Giovanni Consorte, le sue scelte e le sue cattive compagnie. Anzi. Dentro questo mondo ci sono motivazioni e toni diversi, ma tutti, con belle maniere, accenti differenti e modi gentili, mostrano un’unica preoccupazione: che la partita giocata da Consorte coinvolga tutto il partito. E magari finisca per trascinarlo nel fango.

Micromega, 5/2005, ottobre 2005

 

 
 
 

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