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Il
nuovo miracolo italiano
Trasformare il latte in niente.
Nel Paese che ha depenalizzato il falso in bilancio per risolvere
i guai giudiziari di Berlusconi, scoppia uno dei pi˜ gravi
scandali della finanza globale. Ecco che cosa Ë successo nel
caso Parmalat. Ecco chi non ha voluto vedere
di Luca Andrei
Di Calisto Tanzi si sapeva
che la Parmalat era sua. E basta. Mai una volta, per dire,
che un paparazzo lo avesse immortalato in posa plastica al
timone di un superyacht. E il cavalier Calisto non era neppure
il tipo che amava collezionare opere darte o ville in
Sardegna. Una squadra di pallone, quella sì, ce laveva,
il Parma calcio. Allo stadio, però, si faceva vedere
raramente e in tribuna donore non sfoggiava mai quellaria
tronfia di altri suoi colleghi presidenti. Il signor Tanzi
era mister Parmalat. E viceversa. Il grande pubblico, quello
che nulla sa di alchimie di bilancio e battaglie finanziarie,
vedeva quel signore dalla faccia triste incorniciata da pochi
capelli bianchi e pensava: «Lui si che ha lavorato sodo.
Venuto su dal niente e adesso possiede un impero». Certo,
si sapeva della vecchia amicizia di Tanzi con lex segretario
della Democrazia cristiana, Ciriaco De Mita. Si conoscevano
le sue frequentazioni con le gerarchie ecclesiastiche. Si
parlava della sua vicinanza agli ambienti dellOpus Dei.
E anche, giusto per arrivare ai politici dei tempi nostri,
dei suoi legami con il ministro Pietro Lunardi. Nellimmaginario
collettivo, però, il fondatore della Parmalat restava
il prototipo delluomo che si è fatto da solo.
Una specie di Silvio Berlusconi, ma senza la boria, la prosopopea,
i modi da piazzista del presidente del Consiglio.
Nella sua città, poi, il re del latte era un mito,
un intoccabile. La Gazzetta di Parma, un giornale che si picca
di dare ai suoi lettori «uninformazione a 360
gradi», ci ha messo molte settimane prima di concedere
lonore della prima pagina alla crisi dellazienda
più importante, con Barilla, della zona. E, intanto,
titoli su titoli per lo sport locale o gli incidenti stradali.
Daltronde bisogna capirli, i parmigiani. Calisto era
un gran benefattore. Se cera da restaurare un monumento,
da finanziare una mostra, da sostenere un ente morale, lui
era lì, portafoglio alla mano. Ed erano miliardi di
vecchie lire, mica unelemosina. Tutto casa, chiesa e
azienda, il signor Tanzi. Una moglie, Anita Chiesi, Titti
per gli intimi, che viene da una famiglia di industriali farmaceutici.
E due figli dalla faccia pulita e simpatica. Stefano che guidava
il Parma calcio. E Francesca che si occupava delle attività
turistiche comprate dal papà. Marchi importanti: Sestante,
Comitour, Going, giusto per citare i più conosciuti.
Pallone e viaggi. «Due giocattolini», scherzava
la gente. Vai a pensare che i due rampolli dallaria
gentile stavano seduti anche loro su montagne di debiti e
di perdite. Del resto, adesso, tutti dicono che non vedevano,
non sapevano, non si immaginavano. E a scusarsi, con le mani
aperte e gli occhi sgranati, non sono soltanto i buoni padri
di famiglia di Parma e dintorni, quelli che ogni domenica
incontravano Calisto alla messa della domenica in cattedrale.
No, no, a giurare che non si erano accorti di nulla, che proprio
non avevano notato nessun indizio della catastrofe imminente,
si fanno avanti anche i banchieri, i manager, gli amministratori,
i revisori, gli avvocati. Tutta gente che per anni e anni
ha fatto affari con la Superparmalat, la multinazionale con
il turbo, vanto e orgoglio del made in Italy.
Prendiamo le banche: nomi altisonanti della finanza anglosassone
come Morgan Stanley, Citigroup, Bank of America. Tanzi bussava
e loro aprivano la porta. Serve un prestito? Volete piazzare
obbligazioni per centinaia di milioni di euro sui mercati
internazionali? Cercate una sponda per montare unoperazione
in strumenti derivati? «Niente paura, siamo qui per
questo», rispondevano i banchieri. Sempre così,
fin dalla metà degli anni Novanta. E nessuno ha mai
capito nulla. Vien da dire che si fidavano sulla parola, che
compravano a scatola chiusa. Eppure, ogni azienda che chiede
un fido di solito viene passata al setaccio. Conti, contratti,
bilanci: per la Parmalat sempre tutto in regola. Anzi, meglio,
il latte grondava profitti.
TONNA IL DURO. A trattare con le banche andava raramente
il cavalier Calisto in persona. Tutti i poteri, in questo
campo, erano nelle mani di Fausto Tonna, un ragioniere entrato
in azienda 30 anni fa, poco più che ventenne. «Vietato
lingresso agli ambulanti e ai rompicoglioni»,
recitava una targa sulla porta del suo ufficio. Tipo tosto,
il Tonna. Lui, i banchieri, li prendeva letteralmente a pesci
in faccia. «Loperazione è questa, prendere
o lasciare. Se rinunciate vi sostituisco in cinque minuti».
Era questo il copione classico messo in scena dal cassiere
capo della Parmalat. E i manager degli istituti di credito,
pur di non perdere le ricchissime commissioni legate a un
prestito obbligazionario, abbassavano il capo. Affare fatto.
Così, con la fattiva collaborazione della banche, Tanzi,
Tonna e compagni hanno potuto letteralmente invadere il mercato
con i bond targati Parmalat. In totale 7 miliardi di euro,
che fanno quasi 14 miliardi di vecchie lire. Li hanno comprati
tutti. I fondi dinvestimento e le compagnie dassicurazione,
i grandi speculatori internazionali e le vecchine della porta
accanto. Con lunica, sostanziale differenza, che i professionisti
della Borsa, fiutata la truffa, hanno mollato la presa con
settimane, a volte mesi danticipo. Il parco buoi, invece,
cioè i comuni risparmiatori, sono rimasti con il cerino
in mano e le obbligazioni in portafoglio a veder crollare
il castello di carte messo in piedi dal cavalier Calisto.
Daltronde, come non fidarsi. I bilanci del colosso di
Parma avevano il marchio doc. Amministratori, collegio sindacale
e revisori garantivano: tutto a posto. Eppure, a ben guardare,
quei conti forse meritavano un po più di attenzione.
La società aveva le casse piene di liquidità,
eppure continuava a indebitarsi. Fatte le debite proporzioni
è come se il signor Rossi, con un conto in banca da
500 mila euro, progettasse di comprarsi una casa che ne costa
200 mila. Elementare Watson: il signor Rossi pagherà
in contanti. E invece no: il signor Rossi chiede un mutuo
di 200 mila euro e tiene i suoi soldi in banca dove gli rendono
poco o niente. Per anni la Parmalat si è comportata
esattamente così. Spendeva, faceva debiti e teneva
le casse gonfie di denaro contante. Qualche banchiere, ogni
tanto, si faceva coraggio e chiedeva rispettosamente spiegazioni
a Tonna. Il quale, a muso duro, rispondeva: «Sono fatti
nostri». Discorso chiuso. È capitato anche che
gli analisti finanziari, nel corso delle periodiche presentazioni
pubbliche della società, abbiano fatto notare che i
conti non erano proprio il massimo della trasparenza, che
forse era opportuno fornire maggiori informazioni agli investitori.
Risposta di Tonna: «I bilanci sono in regola».
Come no? Tre giorni prima di Natale, interrogato per 12 ore
filate dai magistrati di Milano, lex potente, lex
arrogante, lex Io-so-tutto Tonna ha anche spiegato come
facevano a far quadrare i conti. Semplice, semplicissimo:
si inventavano le poste attive. Nel senso che fabbricavano
titoli ed estratti conto. Anche con lo scanner. Roba che neanche
i pataccari dei bassifondi napoletani.
Logico allora che la Sec, lente di controllo sulla Borsa
americana, abbia definito il crac Parmalat «una delle
frodi più sfacciate della storia della finanza».
Sfacciata? Può darsi. I revisori di bilancio, però,
contabili occhiuti che non perdono occasione per rivendicare
la loro professionalità, per anni e anni non hanno
mai mancato di dare luce verde a questi conti taroccati. Caso
lampante di negligenza, o cè dellaltro?
Dalle indagini della magistratura è emerso un sospetto
ancora più grave. I manager della Grant Thornton, la
società di revisione che esaminava quasi la metà
del gruppo Parmalat, non solo avrebbero chiuso tutti e due
gli occhi di fronte alle irregolarità di bilancio,
ma avrebbero anche fornito una sorta di consulenza sul modo
di aggiustare meglio i conti. Insomma, le guardie che danno
una mano ai ladri. Questa, almeno, è la versione dei
fatti fornita ai magistrati da alcuni dei collaboratori di
Tonna. Nessuno sospettava, nessuno domandava, nessuno controllava.
Adesso il fidato cassiere di Tanzi è finito in carcere,
insieme al suo principale e ad altri tre contabili dellazienda.
Con lui anche due revisori della Grant Thronton.
1989, IL PRIMO CRAC. 2001, LA CESSIONE BUFFA. Fine
ingloriosa di quella che sembrava un success story, per dirla
allinglese, con pochi precedenti nellindustria
agroalimentare. Un campanello dallarme, per la verità,
era già suonato una quindicina danni fa. A forza
di crescere il cavalier Calisto aveva perso il conto dei debiti,
che stavano per portarlo dritto dritto al fallimento. Per
di più, lui che si intendeva solo di latte, aveva avuto
la bella pensata di mettersi a produrre anche le merendine,
i biscotti, i succhi di frutta, i sughi. Risultato: un mare
di perdite. Senza contare che per compiacere il suo sponsor
politico Ciriaco de Mita si era avventurato anche nel settore
televisivo, creando Odeon tv, con una qualche ambizione di
fare concorrenza alla Fininvest di Berlusconi. Progetti folli,
che finirono per mettere in pericolo la sopravvivenza del
gruppo.
Niente paura. In soccorso di Tanzi si attivò la finanza
cattolica. Dapprima scese in campo Giuseppe Gennari, un uomo
daffari del tipo mordi e fuggi, svelto e abile in Borsa.
Fu varata una complicata operazione che doveva portare allalleanza
tra la Finanziaria Centro-Nord di Gennari con la Parmalat.
Tutto bene, ma ancora non bastava. Serviva molto più
denaro. Un aumento di capitale da 600 miliardi di lire. Fu
allora che scese in campo Gianmario Roveraro, patron della
banca daffari Akros, un finanziere bianco latte che
non ha mai fatto mistero del suo impegno nellOpus Dei.
Roveraro nel 1990 pilotò la quotazione in Borsa della
Parmalat, che coincise con luscita di scena di Gennari.
Nel frattempo le banche avevano aperto il portafoglio. Tanzi,
che rischiava il fallimento, fu salvato da un prestito pronta
cassa di 120 miliardi di lire. E a gestire loperazione
fu il Monte dei Paschi di Siena, gigante del credito allora
guidato dal democristiano Carlo Zini.
Fu così che, dimenticati gli affanni e i debiti, il
cavalier Calisto riuscì a ripartire alla grande. Anno
dopo anno, acquisizione dopo acquisizione, la Parmalat si
è trasformata da media azienda agroalimentare in un
colosso internazionale. Era sbarcata in Sudamerica. In Brasile
e Venezuela i marchi del cavalier Calisto sono conosciutissimi.
Poi negli Stati Uniti, in Canada, in Messico. Nellemisfero
opposto il gruppo emiliano aveva piantato le insegne in Sudafrica
e in Australia. In Italia Tanzi era diventato così
forte da sfiorare il predominio assoluto di mercato. Tanto
che lAntitrust era intervenuta per imporgli la vendita
di alcuni marchi. Anche qui non tutto è filato liscio.
Per comprare le aziende cedute su ordine dellAntitrust
sono spuntati degli investitori americani. Un paio di loro
con nomi molto italiani: Anthony Buffa, Lou Caiola e, infine,
Steven White. Dal 2001 fino a pochi mesi fa questi tre signori
si sono passati il testimone, subentrando luno allaltro
nel controllo di marchi molto conosciuti come Giglio, Matese,
Sole, Carnini. Peccato che nessuno di loro avesse una esperienza
consolidata nel settore lattiero caseario. Erano dei semplici
investitori finanziari, peraltro del tutto sconosciuti anche
negli Stati Uniti. Logico allora che adesso ci sia chi sospetta
che Buffa e compagni siano dei semplici prestanome del signor
Calisto, che proprio non voleva saperne di staccare il piede
dallacceleratore.
Una corsa a perdifiato, la sua. Nel 1990 Parmalat fatturava
569 milioni di euro. Cinque anni dopo era arrivata a 2,2 miliardi.
Nel 2000 lazienda di Parma celebrava trionfalmente quota
7 miliardi di euro, per la precisione 7,3. Ancora lanno
scorso, nonostante le difficoltà dovute alla crisi
del mercato sudamericano, il giro daffari si è
attestato a quota 7,5 miliardi di euro. Bravi, bravissimi.
Peccato che buona parte delle società comprate in giro
per il mondo perdesse soldi a rotta di collo. E per tappare
i buchi Tonna faceva ricorso alla finanza creativa. Cioè
alla sistematica falsificazione dei bilanci. Ogni anno, allassemblea
dei soci, si stappava champagne per festeggiare i nuovi importanti
traguardi raggiunti. I revisori approvavano. I giornali applaudivano.
E Tanzi festeggiava. Fino alle ultime, concitate puntate:
la vicenda dello strano fondo Epicurum, la comparsa del misterioso
finanziere Luigi Antonio Manieri che per salvare il gruppo
promette miliardi forse inesistenti, la fuga di Tanzi a Fatima
e in altri più terrestri paradisi, infine il crollo
e la cella.
LA SQUADRA. Al fianco di Tanzi, schierato compatto,
cera il resto del consiglio di amministrazione. Una
truppa assai composita. Cera la famiglia: il figlio
Stefano, il fratello Giovanni, la nipote Paola Visconti. I
manager della finanza: oltre a Tonna, anche Alberto Ferraris
e Luciano Del Soldato. Lex mago del marketing Domenico
Barili, sconfitto proprio da Tonna in unaspra lotta
di potere interna al gruppo. E fin qui erano tutti uomini
legati a doppio filo al grande capo. Difficile aspettarsi
da loro controlli incisivi. In quel consiglio, però,
cerano anche personalità estranee alla gestione
operativa dellazienda. Almeno sulla carta. Per esempio
Paolo Sciumé, uno dei più conosciuti avvocati
daffari milanesi, cattolico tutto dun pezzo, proprio
come Tanzi. Una poltrona era andata anche a Luciano Silingardi,
commercialista, banchiere, presidente della Fondazione Cassa
di Parma, un professionista che frequentava il signor Calisto
almeno da una quarantina danni. Si erano conosciuti
sui banchi del liceo. Poi mister Parmalat era diventato cliente
dellamico commercialista, che nel suo studio curava
contabilità e fisco delle finanziarie di Tanzi e famiglia.
Pochi giorni prima che scoppiasse lo scandalo, quando già
i venti di bufera soffiavano forti, Silingardi ha abbandonato
la barca: dimissioni irrevocabili. Adesso insieme a tutti
gli altri amministratori, anche il potente banchiere di Parma
dovrà rispondere di fronte ai magistrati di tanti anni
di mancati controlli.
E allora, a questo punto, è importante sapere che lo
stesso Silingardi è legato a filo doppio anche alluomo
che quelle indagini è chiamato a dirigerle: il procuratore
capo di Parma, Giovanni Panebianco. È una brutta storia
di raccomandazioni e di favori. Di un imprenditore amico del
magistrato che ottiene dalla Cassa di Parma guidata da Silingardi
fidi per miliardi di lire senza fornire garanzie. «Sono
fatti estranei alla vicenda Parmalat», ha chiuso il
discorso il procuratore. Difficile dire, però, che
le sue parole abbiano riportato la serenità negli ambienti
giudiziari.
Del resto anche a Roma stanno facendo del loro meglio per
inquinare un clima già pieno di veleni. Al ministro
dellEconomia Giulio Tremonti non deve essere sembrato
vero di poter cavalcare anche lo scandalo Parmalat nella sua
crociata contro il governatore della Banca dItalia,
Antonio Fazio. Non è solo una questione personale,
anche se i due personaggi si detestano cordialmente. In ballo
ci sono gli assetti di potere nella finanza e nelleconomia
italiana. Il centrodestra, Forza Italia e Lega in testa, mal
sopporta le Authority indipendenti. E allora, dagli a Fazio,
con il solito contorno di fughe di notizie sui giornali. In
sostanza, secondo Tremonti, Bankitalia è colpevole
di omessa vigilanza sul gruppo di Tanzi.
LA POLITICA E GLI (OMESSI) CONTROLLI. Poco importa
che la competenza su bilanci e atti societari delle società
quotate in Borsa è attribuita dalla legge alla Consob,
che si è mossa soltanto a partire dalla scorsa estate.
E ancora alla commissione presieduta da Lamberto Cardia (e
fino alla primavera scorsa da Luigi Spaventa) spetterebbe
il controllo sulle attività di revisione. È
vero, il campanello dallarme per Fazio sarebbe dovuto
suonare per lenorme quantità di bond collocati
dalla multinazionale di Parma. Ma quelle obbligazioni, si
difendono alla Banca dItalia, erano formalmente emesse
da finanziarie di Parmalat costituite allestero e inoltre
erano riservate agli investitori istituzionali. Toccava alla
Consob, ancora una volta, controllare che non venisse svolta
unattività di collocamento pubblico espressamente
vietata per quel tipo di bond.
Tremonti però non ci sente. «Noi avevamo avvisato
per tempo la Banca dItalia delle difficoltà di
Parmalat», non si stancano di ripetere i solerti portavoce
del ministero dellEconomia. Di questo passo, tra accuse,
sospetti e veleni vari, ci resta una sola certezza: serve
una riforma urgente del sistema dei controlli sulle società.
Il caso Cirio e, adesso, il colossale crac della Parmalat
hanno dimostrato che gli sceriffi dei mercati finanziari,
in primo luogo la Consob, vanno dotati di armi molto più
efficienti. E soprattutto vanno incrementate le pene, anche
pecuniarie, per chi non rispetta le regole. Gli amministratori
della banca Bipop, al centro tra il 2001 e il 2002 di un caso
eclatante di cattiva gestione, hanno subito unammenda,
su proposta di Banca dItalia, pari a 20 mila euro. Ridicola.
Negli Stati Uniti, dopo il dissesto Enron, è stata
varata in gran fretta una nuova legge che punisce in modo
severissimo gli amministratori infedeli, i manager truffatori,
i revisori complici. In Italia invece lunica riforma
recente di una qualche importanza in campo societario ha
di fatto depenalizzato il falso in bilancio, accorciando
i termini di prescrizione e privando i pubblici ministeri
di importanti mezzi dindagine come le intercettazioni
telefoniche. E chi ha varato questo lungimirante provvedimento
legislativo? Il governo di centrodestra, quello di Berlusconi
(a cui serviva per azzerare i suoi processi) e di Tremonti,
lo stesso ministro che adesso si straccia le vesti invocando
maggiori controlli.
Diario, 9 gennaio 2004
Il
Lattaio, il Giudice e il Mammasantissima
PARMA/1. Gennaio 2004.
Il triangolo di potere nella cittý della Parmalat. Il banchiere
Luciano Silingardi, il procuratore Giovanni Panebianco, l'imprenditore
Antonino Rizzone
di Gianni Barbacetto
«Chiamare dottor Tanzi oggi alle ore 15». È
un appunto manoscritto su carta intestata del dottor Giovanni
Panebianco, procuratore della Repubblica di Parma. Il capo
della procura e il padrone della Parmalat si conoscevano:
e come potrebbe essere altrimenti, in una piccola città
come Parma? Più strano è il luogo dove quellappunto
è stato trovato: nella cassaforte di un imprenditore
di nome Antonino Rizzone. Un imprenditore speciale: amico
e socio di mafiosi siciliani. Chissà se qualcuno si
ricorderà di quel biglietto, oggi che a Parma è
scoppiato il più grande dei suoi scandali, con Calisto
Tanzi in galera, la Parmalat in fallimento e anche il procuratore
Panebianco sotto inchiesta. Quellappunto è stato
sequestrato dalla polizia a Montecatini Terme, il 9 ottobre
2001, insieme a tanto altro materiale: ritagli del Giornale
di Sicilia e del Corriere della sera, documenti della Cassa
di risparmio di Parma e Piacenza, carte bollate che attestano
prestiti milionari, atti di compravendita immobiliare, planimetrie...
E tanti biglietti che riguardano magistrati.
Tra questi, un appunto su cui è scritto: «Panebianco...»;
poi un paio di telegrammi inviati da Rizzone a Giuseppe Gennaro,
alla procura di Catania; un altro telegramma di congratulazioni
inviato il 16 marzo 2001 a Tindari Baglione, della procura
di Pistoia; un biglietto di saluto inviato a Rizzone in data
11 agosto 1994 e intestato «Proc. generale della Repubblica
di Messina»; un biglietto con scritto a mano «Dr.
Gambino Proc. Rep. Patti, Messina»; un telegramma inviato
da Rizzone al giudice Carlo Bellito, della Corte dappello
di Messina; copia della domanda di trasferimento da Nicosia
ad altra sede del giudice Massimo Maione; il documento di
nomina a magistrato di Cassazione del sostituto procuratore
di Parma Francesco Brancaccio, con lettera di trasmissione
alla Corte dappello di Bologna firmata da Panebianco;
un foglio con scritto, a mano, «Dr. Mario Persiani,
Cassazione Roma»; una lettera del presidente del Tribunale
di Parma Lanfranco Mossini. Nella cassaforte dellimprenditore
molto speciale cerano anche sei fotografie, tra cui
quella di Panebianco. Cerano molti biglietti con numeri
di telefono, tra cui uno di «Pane».
Uno strano archivio, per un siciliano che ha fatto fortuna
a Montecatini. Ma chi è davvero Antonino Rizzone? Non
è un imprenditore qualsiasi. Siciliano, nasce nel 1939
a Nicosia, in provincia di Enna. Nei primi anni Settanta a
Nicosia gestisce una bottega di alimentari, poi tenta di impiantare
un bar. Ma nel 1975 cambia vita: si trasferisce dalla Sicilia
a Montecatini Terme e diventa rapidamente un imprenditore
di successo. Soldi non ne ha (è figlio dagricoltori
e a Nicosia non aveva trovato neppure i capitali per pagare
la ristutturazione del bar), grandi studi non ne ha fatti
(ha solo la licenza elementare), eppure deve avere delle doti
nascoste, perché appena arivato in Toscana compra un
alberghetto dal nome che gli ricorda casa («Pensione
Trinacria») e avvia una folgorante carriera. Comincia
a comprare, insieme ad alcuni soci, immobili commerciali e
terreni. Certo, i suoi soci hanno nomi che per chi conosce
le cose siciliane vogliono dire Cosa nostra: Paolo Francesco
Alamia, Rocco Remo Morgana, i fratelli Berna Nasca...
Il gruppo di spezza negli anni Novanta: per disaccordi sugli
affari, ma anche per luscita di scena di Morgana, arrestato
per traffico di droga. Eppure lascesa di Rizzone non
sinterrompe, anzi: si lega al gruppo Giambra, altra
combriccola di personaggi in odore di mafia, definita in unaula
di giustizia «associazione per delinquere» specializzata
in bancarotte e truffe alle banche. Il metodo del gruppo è
collaudato: fabbrica falsi documenti a proposito di inesistenti
progetti despansione immobiliari, li avvalora con ottime
sponsorizzazioni da parte di persone importanti dentro e fuori
le banche e infine li presenta alla Cassa di risparmio di
Parma e Piacenza, che scuce un mucchio di soldi. La «persona
importante» che sponsorizza Rizzone è davvero
molto in vista: è Giovanni Panebianco, nato a Catania
nel 1932, procuratore della Repubblica prima a Nicosia, poi
a Massa, infine a Parma. Panebianco è ben inserito
nella buona società parmense. Conosce tutta la gente
che conta. Ma è soprattutto buon amico del commercialista
di Tanzi, Luciano Silingardi, in quegli anni presidente della
Cassa di risparmio di Parma e Piacenza. È una raccomandazione
del magistrato a convincere il banchiere, in mancanza di altre
garanzie, a concedere fidi miliardari allamico Rizzone.
L AMICO DEGLI AMICI DI COSA NOSTRA. A metà
degli anni Novanta, Rizzone è proprietario, nella sola
Montecatini, della Pensione Trinacria, dellHotel Florio,
di un paio dappartamenti, di un negozio di calzature,
di una discoteca. È gestore dellAlbergo Londra.
E in precedenza era stato titolare della Pensione Savoia,
dellAlbergo Touring, nonché nientemeno che dellAmaro
Montecatini... I carabinieri di Pistoia, Montecatini, Pisa
e Mistretta, però, non sono affatto convinti delle
sue capacità imprenditoriali e lo segnalano come persona
«legata a cosche mafiose» e «vicina ai corleonesi»:
proprio per le sue amicizie e alleanze daffari con Alamia,
che fu uomo di Vito Ciancimino, con Antonino Berna Nasca,
più volte implicato in indagini di mafia, con Rocco
Morgana, pluripregiudicato siciliano, con Sebastiano Augello,
appartenente alla cosca catanese di Nitto Santapaola.
Non basta. Dopo le stragi di mafia del 1993, gli affari dei
siciliani in Toscana sono passati al setaccio dalla Direzione
investigativa antimafia di Firenze che indaga sullattentato
di via dei Georgofili. Ebbene, Rizzone è uno dei personaggi
che sono messi sotto controllo. Con esiti non entusiasmanti
per il suo buon nome: «È organico ai corleonesi»,
scrive in una relazione il commissariato di polizia di Montecatini.
E per i corleonesi ha svolto funzioni dambasciatore,
avviando rapporti con il clan camorristico dei Galasso, con
i quali ha messo a punto la compravendita del Kursaal di Montecatini.
Ma Rizzone ha ottimi contatti con alcuni magistrati e vanta
buoni rapporti anche con la politica.
La Direzione investigativa antimafia, comunque, nelle sue
indagini per strage di Firenze redige una scheda relativa
a Rizzone e non può fare a meno di rilevare «la
frequentazione tra questi e il dottor Giovanni Panebianco,
procuratore della Repubblica di Parma e in procuratore presso
la procura di Massa». Parma e Massa: proprio le zone
in cui «Rizzone ha effettuato investimenti immobiliari,
con società a lui riferibili, che avevano attirato,
per modalità dacquisizione o per cointeresse
con personaggi legati alla criminalità organizzata,
lattenzione investigativa di più forze di polizia».
«I rapporti tra Rizzone Antonino e il dottor Panebianco»,
scrive la polizia in un rapporto, «sono senzaltro
di stretta amicizia personale». Dunque, lineffabile
dottor Panebianco è amico di un uomo che appartiene
a quellambiente che tra il 1992 e il 1993 ha realizzato
le stragi in cui sono morti, tra gli altri, due suoi colleghi
magistrati di nome Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Panebianco
è amico, sponsor, presentatore e sostenitore di Antonino
Rizzone, di cui «evidenzia la buone qualità»
di fronte ad amici potenti. Come Luciano Silingardi, appunto,
il commercialista di Tanzi, per tanti anni grande manovratore
della Cassa di risparmio di Parma e Piacenza.
IL TRIANGOLO DEI POTERI. È
un vero triangolo degli affari quello tra il Banchiere, il
Magistrato e lImprenditore. Panebianco raccomanda caldamente
Rizzone presso Silingardi, Silingardi finanzia generosamente
Rizzone. Le sue società (la Top, la Albatros, lImmobiliare
Colombo) ricevono dalla Cariparma un fiume di miliardi. Per
operazioni inesistenti, o fallimentari. E Panebianco, che
cosa riceve da Rizzone, in cambio delle sue preziosissime
«raccomandazioni»?
Sono stati individuati soldi che girano tra il procuratore
e limprenditore. E complicati affari immobiliari in
Sicilia, storie di terreni, di agrumeti. I giudici di Firenze
hanno trovato almeno una traccia visibile: 80 milioni di lire
che passano da Rizzone a Panebianco. E vorrebbero capire perché:
il sostituto procuratore fiorentino Pietro Suchan è
convinto che si tratti del prezzo di una corruzione in atti
giudiziari (come quella, tanto per intenderci, che è
costata al giudice di Roma Renato Squillante una doppia condanna
in primo grado). Per il resto, gran parte dei comportamenti
del procuratore Panebianco, del bamchiere Silingardi, dellimprenditore
Rizzone, benché moralmente censurabili e inammissibili
(soprattutto per un alto magistrato), sfuggiranno alla giustizia:
è passato troppo tempo dai fatti e la prescrizione
azzererà tutto (a meno che il giudice delle indagini
preliminari non aggravi le contestazioni).
A leggere le spiegazioni di Panebianco, interrogato da Suchan,
vengono i brividi. Ma sì, ammette lineffabile
procuratore, conoscevo Rizzone. Visite, incontri, perfino
un capodanno insieme, a Montecatini: «Mi ha invitato
a fare il capodanno là, che lui organizzava, e io sono
andato con la famiglia». Ma Rizzone è un amico,
una persona per bene, un galantuomo. Ha fatto i soldi grazie
a uneredità ricevuta da una coppia di coniugi,
due nobili palermitani senza figli che gli volevano bene.
Una persona così a modo che sono in rapporti con lui
e qui partono i primi siluri anche magistrati
di rilievo: come Giuseppe Gennaro, sostituto procuratore a
Catania ed ex presidente dellAssociazione nazionale
magistrati; come Giovanni Tinebra, ex procuratore di Caltanissetta
e oggi direttore delle carceri italiane, essendo al vertice
del Dap, il Dipartimento amministrazione penitenziaria. «Premetto:
il Rizzone è molto amico del dottor Tinebra... In unaltra
occasione è venuto Tinebra, quandera procuratore
di Caltanissetta, con la scorta... E alloggiava da lui...
Sincontrano periodicamente, sincontrano spesso
a Roma, almeno a detta del Rizzone. Poi una volta è
venuto nellalbergo di Montecatini e io sono stato là
per incontrarlo». Anzi: è proprio Tinebra a presentare
Rizzone a Panebianco: «Il dottor Tinebra, che era mio
unico sostituto a Nicosia, con cui ancora intrattengo rapporti
di amicizia... mi presentò casualmente questo Rizzone
Antonino». Erano i primi anni Ottanta, Panebianco era
procuratore di Nicosia, Tinebra il suo giovane sostituto.
Poi, altri siluri. Panebianco, durante il suo interrogatorio,
si rivolge direttamente a Suchan: «Mi scusi, mi aiuti
lei... che questo Rizzone è amico di tanti magistrati
di Firenze, lo sa lei?». Poi fa un piccolo elenco di
giudici: Carlo Bellitto, Tindari Baglione, Massimo Maione.
E Mario Persiano, della Cassazione... Per il resto, Panebianco
dimostra di non avere neppure lidea di come si dovrebbe
comportare un magistrato. Falcone non frequentava i salotti
palermitani per non trovarsi in cattiva compagnia, Panebianco
incontra tranquillamente la buona società parmense.
Con il costruttore Paolo Pizzarotti, già imputato di
Mani pulite, ha avuto complicati rapporti economici che gli
sono costati uninchiesta, poi finita con unarchiviazione.
Ai vertici della Parmalat telefonava per ottenere qualche
piccolo favore: «Pietro Tanzi, il cugino di Calisto...
Sì, lo conosco, mi rivolgo spesso a lui per avere qualche
biglietto dello stadio, quando cè la partita...
Ricorro sempre a lui per avere i biglietti allo stadio quando
ci sono amici...». Ecco dunque spiegato il biglietto
trovato nella cassaforte di Rizzone: il Tanzi citato è
Pietro, non Calisto, giura Panebianco. È ora chiaro
come la procura di Parma vegliasse sulla correttezza della
Parmalat e con quali credenziali morali oggi la indaghi.
Ma che ci faceva il biglietto di Panebianco nella cassaforte
di Rizzone? Mistero. E perché il procuratore doveva
telefonare a Tanzi? Lo spiega Rizzone: «Io Calisto Tanzi
lho conosciuto indipendentemente dallintervento
del dottor Panebianco... Panebianco intendeva farmi conoscere
il cugino di Tanzi, Pietro Tanzi, in relazione allintermediazione
per la compravendita di un castello vicino a Parma».
Su questo punto Panebianco, nel suo interrogatorio, balbetta:
i panni del mediatore daffari per lacquisto di
castelli padani sembrano troppo stretti perfino a lui.
Forse Rizzone in quella cassaforte aveva la sua assicurazione
per la vita: difendetemi, voi toghe, altrimenti vi trascino
tutti con me. Nella stessa busta dellappunto su Tanzi,
i poliziotti trovano un biglietto da visita: di Francesco
Giuffredi, della Parmalat. «Non lo conosco», giura
Panebianco. In unaltra busta trovano la raccomandazione
di Panebianco per il suo sostituto, luomo forte della
procura di Parma, Franco Brancaccio, per altre vicende sotto
inchiesta ad Ancona. E qui la spiegazione del procuratore
ha dellincredibile: «Il dottor Brancaccio mi aveva
espresso il desiderio... no, lintenzione, di trasferirsi
a Roma, in un incarico speciale: forse una commissione antimafia,
una commissione parlamentare... E allora io parlai al telefono
con Gianni Tinebra». Chissà perché a Tinebra:
che potere ha di influire sulle carriere dei colleghi? Comunque
sia, Panebianco decide di fare una copia «del rapporto
per illustrare la figura del Brancaccio» per mandarla
a Tinebra. Ma invece di spedirgliela per posta, o via fax,
la consegna a Rizzone. Dice a Brancaccio: «Sai, Franco,
la possiamo dare a Rizzone che sincontra periodicamente
con Tinebra...». Rizzone, interrogato separatamente,
canta unaltra canzone: «Dovevamo andare insieme
a Roma, poi Panebianco se lè dimenticata da me...».
Suchan insiste con Rizzone: «Ma poteva lei caldeggiare
questa nomina? Conosce qualcuno al Consiglio superiore della
magistratura?». Rizzone minimizza: «No, a questi
livelli non ci sono...».
ZANICHELLI AVEVA RAGIONE. E la lettera del presidente
del tribunale di Parma, Lanfranco Mossini, che cosa ci faceva
nella cassaforte di Rizzone? «Non so spiegare come mai
si trovasse a casa mia», risponde sobriamente limprenditore.
Ma poi cè Silingardi, il Gran Banchiere: «Lui
è molto... devoto, diciamo devoto alla magistratura»,
dichiara Panebianco nel suo interrogatorio a Suchan. Perché
«vittima» di un pugno di persone (Gian Luca Zanichelli,
Luigi Derlindati, Luigi Grossi) che in assoluta solitudine,
per anni, hanno denunciato le ingiustizie che ritenevano di
aver subito dal Gran Banchiere. Denuncie naturalmente sempre
prontamente respinte dalla magistratura parmense. Ricambiata
dalla «devozione» di Silingardi.
Quanto ai rapporti con lImprenditore, il Magistrato
taglia corto: «Io ho solo garantito che il Rizzone Antonino
è persona onesta, è solvibile, solvibile, corretta
eccetera...» (Panebianco meriterebbe una candidatura
alla Consob, o allAntimafia, chissà). Poi, un
altro siluro: «Ma guardi, non so se sono stato io a
presentare Rizzone a Silingardi o Rizzone a presentare Silingardi
a me... tanta era la cordialità dei rapporti tra il
Rizzone e Silingardi». Collusione ambientale: era davvero
irresistibile, a Parma. Tanto che un dipendente della Cariparma,
tal Dalla Valle, per fare carriera si rivolge al procuratore,
che conferma: «Sì, mi chiese di intercedere con
il presidente Silingardi per una promozione a funzionario».
Normale.
Questa è Parma, la sua classe dirigente, il suo clima.
Questa è la procura che indaga sul crac più
grave della sua storia.
Diario, 9 gennaio 2004
Toghe sporche alla parmigiana
PARMA/2. Novembre 2003.
Chiesto il rinvio a giudizio per il procuratore e per il suo amico banchiere
Parma, come una imperturbabile Twin Peaks, continua la sua
vita. Del comitato daffari che la occupa, e delle sue
toghe sporche, non sa nulla, o forse non vuol sapere. Diario
ne ha scritto sul numero del 10 maggio 2002 (e quellinchiesta
è ancora disponibile sul suo sito www.diario.it). Ha
raccontato di intrighi e gruppi di potere, scandali sotterranei
e giochi finanziari pericolosi, maldicenze e ricatti incrociati.
Il tutto, tra sotterranee solidarietà massoniche e
nel silenzio di uninformazione narcotizzata. Ora stanno
arrivando al traguardo due indagini svolte altrove, a Firenze,
ad Ancona. E un magistrato ha chiesto il rinvio a giudizio
di un intoccabile, il procuratore della Repubblica di Parma
Giovanni Panebianco.
È accusato di una lunga serie di comportamenti inaccettabili
per un magistrato. Aveva convinto un altro intoccabile della
città, il banchiere Luciano Silingardi ieri
presidente della Cariparma e oggi presidente della Fondazione
Cariparma a concedere fidi miliardari ad aziende controllate
da Antonino Rizzone, un imprenditore siciliano amico e conterraneo
del procuratore.
Oggi quelle aziende beneficate dal tocco magico del procuratore
sono state acquisite (almeno apparentemente) dal gruppo Giambra,
definito in unaula di giustizia "associazione per
delinquere" specializzata in bancarotte e truffe alle
banche. Sono anche stati individuati soldi che girano tra
il procuratore e limprenditore. E complicati affari
immobiliari in Sicilia.
Non solo: durante le indagini svolte dalla sezione criminalità
organizzata della polizia di Firenze, sono emerse "molteplici
notizie sulle frequentazioni in Toscana di personaggi siciliani
tra i quali spicca tale Berna Nasca Antonino". Lo sfondo
è cupo.
Il Triangolo (il Procuratore, il Banchiere, lImprenditore)
ha messo a segno, secondo laccusa, innoque "raccomandazioni"
ma anche qualche più sostanziosa "appropriazione
indebita di fondi bancari". E nel 1998 da questo gioco
pericoloso è spuntata una coppia di spioni che, su
mandato di Silingardi, ha cominciato a pedinare, intercettare,
fotografare mezza Parma, ex dipendenti della banca, clienti,
politici, imprenditori, giornalisti (tra questi, lallora
inviato del Corriere della sera Maurizio Chierici, oggi commentatore
dellUnità). Ad Ancona, per altri fatti, è
indagato anche il sostituto procuratore di Parma Francesco
Brancaccio.
Sembrava una storia di provincia, nella Parma abituata a scandali
grassi, con protagoniste donne coma Tamara Baroni o Katarina
Miroslava. O a Dinasty allitaliana, come la storia delleredità
di Pietro Barilla. Oppure a gialli misteriosi, come la scomparsa
nel nulla della famiglia Carretta. Oggi, mentre i poteri locali
(i Tanzi della Parmalat, i Barilla, i Pizzarotti, i Bormioli)
lottano contro la decadenza, un giudice di Firenze sarà
chiamato a decidere la sorte del Triangolo e dei suoi affari.
Gran parte dei comportamenti del procuratore Panebianco, del
bamchiere Silingardi, dellimprenditore Rizzone, benché
censurabili e inammissibili (soprattutto per un alto magistrato),
sfuggiranno alla giustizia. Secondo il pubblico ministero
di Firenze Pietro Suchan, quei comportamenti, laddove sono
reato, sono ormai coperti dalla prescrizione. Resistono allerosione
del tempo (a meno che il giudice delle indagini preliminari
non allarghi le contestazioni) soltanto alcuni fatti, il più
grave dei quali è il versamento di 80 milioni di lire
(almeno) passati da Rizzone allamico Panebianco, in
cambio dei fidi miliardari Cariparma ottenuti grazie alla
parolina detta dal procuratore allorecchio di Silingardi.
Lipotesi di reato più grave è corruzione
in atti giudiziari (come quella che a Milano ha fatto condannare
il giudice Squillante): toghe sporche alla parmigiana.
Diario, 28 novembre 2003
Grossa grana (padana)
PARMA/3. Maggio 2003
L'inchiesta di Diario su una città ricca che cova grandi
scandali
A Parma si può arrivare come si arriva in una cittadina
di provincia ricca e tranquilla, dove si vive bene e si mangia
meglio. E si può partire con limpressione di
essere stati invece dentro un romanzo di Chandler, o di Ellroy,
con intrighi e gruppi di potere a impunità garantita.
Scandali sotterranei, giochi finanziari pericolosi, maldicenze,
ricatti incrociati. Il tutto, nel silenzio di uninformazione
narcotizzata. Cè il Banchiere che apre o chiude
a piacere il rubinetto dei soldi. Il Giudice che non vede,
non sente, non parla. Lo Spione che mette sotto controllo
illegale mezza città. LIndustriale che fa più
pubblicità che soldi, e che riceve a casa la visita
del Grande Politico. Il Giornalista che non scrive una riga
del verminaio che vede muoversi attorno. Insomma, un bel comitato
daffari che domina incontrastato e inossidabile sulla
placida cittadina. I giudici di tre o quattro città
dItalia hanno cominciato a mettere il naso nelle intricate
vicende parmensi e sono finiti sotto inchiesta perfino due
magistrati, il procuratore della Repubblica di Parma Giovanni
Panebianco (indagato per corruzione a Firenze) e il sostituto
Francesco Brancaccio (indagato ad Ancona). In attesa di un
romanziere che sappia raccontare questa nostrana Twin Peaks
del potere, ecco alcune storie da Parma, che si avvia pacifica
e soddisfatta verso le elezioni amministrative.
IL BANCHIERE E I SUOI NEMICI. Un tempo, qui, gli scandali
erano più grassi. Cera sempre di mezzo una donna,
da Tamara Baroni a Katarina Miroslava. Cera aria di
Beautiful, come nella storia delleredità di Pietro
Barilla. Cerano vicende destinate a lasciare aperti
dubbi e misteri, come la scomparsa nel nulla della famiglia
Carretta. Cerano e ci sono ancora tanti
soldi, nella cittadina dei Tanzi, dei Barilla, dei Pizzarotti,
dei Bormioli e dei mille padroncini. Ma oggi la formula sembra
cambiata: meno sesso, più potere.
Luciano Silingardi del potere è la sublimazione, poiché
occupa il luogo in cui gli affari diventano denaro e il denaro
si trasforma in potere: a lungo presidente della Cassa di
risparmio di Parma e Piacenza (Cariparma), oggi presiede la
Fondazione Cariparma. Nel suo piccolo, è un precursore:
era in una situazione di conflitto dinteressi quando
non era ancora di moda. Era infatti il banchiere da cui dipendevano
i finanziamenti di Calisto Tanzi (il signor Parmalat), ma
contemporaneamente era anche suo consulente e commercialista.
Ora Cariparma è stata comprata da Banca Intesa Bci.
Ma le storie del passato continuano a disturbare i sonni di
Silingardi. La più imbarazzante è quella dei
rapporti con Giancarlo Braccini, agli arresti dal marzo 2001,
con laccusa di aver spiato mezza città.
Tutto è cominciato nel 1996, quando un funzionario
di Cariparma, Gianluca Zanichelli, responsabile dellufficio
fidi dellarea emiliana, si insospettisce per i prestiti
che la banca aveva generosamente concesso a due società,
la Top (amministrata da uno sconosciuto signore di Enna) e
la Immobiliare Colombo (garantita da una ottuagenaria signora
emiliana). Le due società fanno perdere alla banca
alcuni miliardi: «I finanziamenti», racconta Zanichelli,
«erano stati concessi su favorevole riferimento
del procuratore Panebianco». Dopo le prime scoperte
a Parma, Zanichelli viene mandato alla sede di Roma di Cariparma.
Ma anche nella capitale scopre fidi facili e mutui su case
mai costruite. «Qui è un disastro, mandate unispezione»,
comunica alla sede centrale. Lispezione non arriva e
Zanichelli, invece di lavare i panni sporchi in casa, accetta
di raccontare tutto quel che ha visto alla polizia di Roma.
Intanto è richiamato a Parma dove, dopo qualche tempo,
gli assegnano una scrivania vuota e lo pagano per non lavorare.
Silingardi, in verità, la racconta diversamente: «Zanichelli
fu emarginato perché concesse fidi per tre miliardi
e mezzo a un imprenditore che poi fallì, provocando
forti perdite alla banca».
Comunque sia, dopo lemarginazione Zanichelli inizia
una sua personale guerra contro la banca, che va ad aggiungersi
a quella di altri parmigiani in lotta contro Silingardi, ciascuno
con i suoi personali motivi: lex industriale Luigi Derlindati,
lex cassiere Luigi Grossi, il giornalista Vittorio Martello...
Nel 1998, tutti questi e molti altri ancora (tra cui politici
come il leghista Pierluigi Petrini e lulivista Albino
Ganapini, oltre allinviato del Corriere Maurizio Chierici)
si trovano spiati, pedinati, intercettati, fotografati da
una coppia di spioni: Saverio Torino e Giancarlo Braccini.
Il primo lavora per Cariparma, ufficialmente assoldato per
garantire la sicurezza di Silingardi. Il secondo non compare
a libro paga, ma è luomo forte della coppia:
Torino gli gira una bella fetta dei compensi (pagati dalla
banca sotto la voce «bonifiche ambientali»); non
solo, Silingardi gli fa concedere dalla banca affidamenti
per oltre 300 milioni. È un personaggio in città,
Braccini: si veste da 007, occhiali scuri, sigaro in bocca,
è un informatore della polizia, spregiudicato ma ben
introdotto con il questore e il capo della squadra mobile.
È un appassionato di misteri: dalla scomparsa dei Caretta
al mostro di Loch Ness (dice di possederne una fotografia,
che va ad esibire al Maurizio Costanzo Show).
Alla coppia, Silingardi conferisce un mandato preciso nei
confronti dei suoi nemici, espresso con una sola parola: «Distruggeteli».
Ma dopo aver compiuto tanti «lavori sporchi» ed
essere stati scoperti, Braccini e Torino vengono scaricati
dalla banca. Chiedono a Silingardi soldi, tanti soldi. Un
po (un centinaio di milioni) ne ottengono, ma non si
accontentano: minacciano, chiedono alcuni miliardi. Silingardi
resiste. E Braccini, proprio con lo pseudonimo 007, comincia
a firmare una serie di articoli su un improvvisato settimanale,
il Giornale di Parma: esagerazioni e bugie mescolate con impronunciabili
verità, veleni, messaggi trasversali, ricatti. Contro
la banca di Silingardi, accusato di aver gestito il passaggio
a Banca Intesa, nel 1998, arricchendo gli «amici»
e danneggiando i piccoli azionisti. Ma anche contro la giunta
comunale di centrodestra del sindaco Elvio Ubaldi, che non
ha assegnato appalti al costruttore Armando DallAsta,
guarda caso finanziatore del settimanale.
Nel marzo 2001 il gioco si interrompe: Braccini è arrestato,
DallAsta finisce in manette, il Giornale chiude. Viene
messa sotto indagine anche una giornalista di Parma, Rossella
Canadé, colpevole di aver raccontato sullEspresso
la storia degli spioni. Ed è indagato anche Zanichelli:
per aver passato a Braccini documenti della banca (tra questi,
gli estratti conto dei magistrati Panebianco e Brancaccio
e quelli dellallora prefetto di Parma, Giuseppe Mazzitello).
Zanichelli glieli aveva forniti credendo di ricevere aiuto
per incastrare i vertici di Cariparma, che continua a ritenere
scorretti. Braccini, maestro del doppio gioco, li utilizzava
invece per dimostrare proprio a quei vertici la propria efficienza
e la necessità di continuare il suo «lavoro»,
illegale ma ben pagato. Renzo Cesari, condirettore generale
di Cariparma, ammette davanti ai magistrati: Braccini avanzava
«singolari pretese», minacciava che la documentazione
raccolta avrebbe potuto «prendere strade diverse»,
la banca temeva che gli estratti conto del prefetto Mazzitello
potessero essere utilizzati «in maniera molto sconveniente
per la banca».
GIUSTIZIA ALLA PARMIGIANA. Ora lattenzione è
puntata sugli uomini delle istituzioni. Il procuratore Panebianco
ha ricevuto un avviso di garanzia inviato dalla Procura di
Firenze e ha avuto addirittura labitazione perquisita
nella notte. Il sostituto procuratore Brancaccio è
invece indagato ad Ancona. Eppure nessuno ha osato scrivere
queste notizie, tanto meno la Gazzetta di Parma, il quotidiano
dellUnione industriali che ha il monopolio dellinformazione
locale e mai oserebbe pubblicare una sola parola che non sia
di lode per i potenti della città, banchieri, giudici
e imprenditori. Sotto la lente degli investigatori i rapporti
tra i magistrati di Parma e i vertici della banca, gli intrecci
tra affari e giustizia. È vero quanto sostiene Zanichelli,
e cioè che la banca ha concesso ad aziende fidi (in
perdita) su raccomandazione di Panebianco? È vero che
Brancaccio ha ottenuto dalla banca uno scoperto di conto corrente
di 300 milioni? Difficile distinguere, a Parma, tra veleni,
vendette e verità. Sono mille, qui, le storie di soldi
e affari e potere. Certo è che la Banca dItalia,
dopo unispezione durata otto mesi, a cavallo tra il
1997 e il 1998, ha accertato che Cariparma concedeva fidi
facili, «superando i limiti prudenziali» e determinando
«diffuse irregolarità». Tra le società
citate a questo proposito nella relazione finale di Bankitalia
vi sono la Top, lImmobiliare Colombo, la Parmacotto.
Marco Rosi, il signor Parmacotto, grande investitore in pubblicità
sulle reti di Berlusconi, oggi è presidente dellUnione
industriali di Parma. Più del fatturato, fa pesare
limmagine che ha saputo costruire e gli ottimi rapporti
che ha stretto (con Marcello DellUtri, ex numero uno
di Publitalia; con Giancarlo Elia Valori, parmigiano dadozione;
con Silvio Berlusconi, che nel novembre scorso ha ricevuto
nella sua casa di Parma). In passato, un professionista di
Roma aveva sporto una denuncia alla polizia perché
sosteneva due funzionari di Cariparma gli avevano
chiesto di emettere fatture false nei confronti di società
di Parma, tra cui la Parmacotto, per permettere la formazione
di fondi neri. Ma la vicenda si è poi chiusa con il
pagamento al professionista da parte della banca di una transazione
miliardaria.
Sono finiti i tempi in cui la destra, allopposizione,
faceva le pulci ai potenti locali. Ancora nel 1997 Francesco
Storace, allora deputato di An, aveva rivolto uninterrogazione
parlamentare sui rapporti tra il costruttore Paolo Pizzarotti,
indagato per Tangentopoli, e i magistrati di Parma, in cui
segnalava «strane frequentazioni di magistrati inquirenti
e giudicanti» e sosteneva che «il pubblico ministero
dei processi in corso è abituale frequentatore della
casa del dottor Pizzarotti». Oggi una cappa di silenzio
si è chiusa sul potere di Parma. Restano soltanto i
ricatti e i veleni di qualche personaggio spregiudicato e
le voci controcorrente di qualche disperato, come lex
cassiere Luigi Grossi, licenziato dalla banca, che ogni tanto
sale sul Duomo di Milano per gridare la sua rabbia contro
il comitato daffari.
Diario, maggio
2003
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