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Benvenuti a Furbettopoli


Paura che torni Mani pulite. Mutazioni genetiche dei partiti, al servizio degli affari. La Lega trasformata in Guardia di Ferro della coppia Fiorani-Fazio. E i vertici Ds a tifare per Giovanni Consorte, il Furbetto rosso

di Gianni Barbacetto


Uno spettro s’aggira per l’Italia. La paura di una nuova Tangentopoli. Anzi, a essere precisi con le parole, di una nuova Mani pulite che riapra una stagione d’indagini sull’illegalità come sistema, che riprenda gli arresti in serie, che arrivi ai piani alti della politica. Le manette scattate ai polsi del banchiere Gianpiero Fiorani e dei suoi sodali e le indagini sui furbetti del quartierino hanno innescato una sindrome Mani pulite che serpeggia nei palazzi romani del potere. A leggere certi resoconti dei più attenti tra i cronisti politici, sembra di essere tornati al 1992, al totomanette, all’attesa del disastro. Tanto che il direttore del Corriere della sera si è sentito in dovere di tranquillizzare il Paese, rassicurando, nell’editoriale del 16 dicembre, che non siamo alla vigilia di una nuova Tangentopoli.

Si passerà dai furbetti ai loro padrini di partito? Le celle si apriranno anche per chi aveva dei conti molto speciali nella banca di Lodi e per chi da Roma sosteneva, tifava, tramava? Oppure la bufera passerà lasciando solo i soliti strascichi di polemiche tra i partiti? Per ora sappiamo solo che Donato Patrini, l’assistente di Fiorani, in un interrogatorio davanti ai magistrati di Milano ha spiegato: «Fiorani indicava il nome del politico, i recapiti, l’importo del finanziamento o del fido che Popolare di Lodi doveva erogare. Io compilavo i documenti, raccoglievo la firma del parlamentare, aprivo il conto ed erogavo i denari. Ero l’ufficiale di collegamento con i politici. Per due anni siamo andati avanti così». È l’evoluzione della tangente, senza quella sgradevole sensazione delle buste che passano o delle valigette che girano.

Quanto s’allargherà lo scandalo lo sapremo nelle prossime settimane. Ma comunque vada, il problema resta: non soltanto perché è curioso che una vicenda giudiziaria semini il panico in Parlamento, ma perché le vicende dei furbetti hanno reso visibile una nuova specie di Tangentopoli ancora senza nome, un inedito sistema di rapporti perversi tra affari e politica, una Partitopoli, una Furbettopoli che non può certo essere lasciata come problema da risolvere alla magistratura.

Anzi, i giudici non hanno alcuna competenza sulle omissioni, sui sostegni silenziosi, sulle complicità inconfessate, sui patti non scritti tra la finanza e i politici. Eppure sono questi ultimi che nobilitano le illegalità dei furbetti, le innalzano dal quartierino e le fanno diventare sistema. A destra come a sinistra. Le indagini giudiziarie potranno indicare le illegalità più evidenti, potranno al massimo rendere visibili le connessioni più esplicite, ma poi dovranno essere la politica e la comunità degli affari a rompere il sistema, a fare pulizia, a cambiare rotta: se vorranno.

Profezie realizzate.
Manette o no, la nuova Furbettopoli comincia a delinearsi. Uno che se ne intende, Sergio Cusani – finanziere di Tangentopoli, imputato di Mani pulite e oggi impegnato nel volontariato nonché consulente finanziario del sindacato – l’aveva profetizzata. Lo va dicendo da qualche anno: altro che 1992, i veri intrecci di potere sono quelli che oggi la finanza e le banche hanno costruito proprio sulla base della debolezza di imprese e partiti usciti sfiancati da Tangentopoli.

Intendiamoci, le antiche, gloriose tangenti continuano a esserci, anche se governate da un diverso sistema: ai vecchi partiti-dogana, con le loro regole inflessibili, i loro imprenditori di riferimento, i loro cassieri segreti, si sono sostituiti – dice Cusani – centri più informali, sistemi più flessibili. Come dimostrano le mille storie di corruzione venute alla luce negli ultimi tempi (pur senza alcun clamore mediatico), i nuovi protagonisti sono i feudatari che presidiano i valichi di passaggio della spesa pubblica, i tanti vassalli e valvassori di una nuova corruzione che, al passo con i tempi, non è più «centralista» ma «federalista».

Al di sopra di questa rete, però, resta l’iperuranio dei grandi affari, dei grandi intrecci, dei grandi poteri. Le banche, le telecomunicazioni, il gas... È questo l’ancora inesplorato mondo della nuova Partitopoli su cui le indagini Fiorani cominciano a mostrare qualche elemento.

Un altro che Tangentopoli, quella vera, l’ha conosciuta, l’ex democristiano Bruno Tabacci, oggi esponente dell’Udc e presidente della commissione Attività produttive della Camera, da tempo va ripetendo che si sta affermando una nuova degenerazione dei rapporti tra affari e politica. Tabacci la racconta così: la politica ha perso peso, la finanza ha preso il comando. Risultato: i furbetti del quartierino fanno quello che vogliono. Sulla pelle di milioni di risparmiatori raggirati e derubati. Bipop Carire, Banca 121, Cirio, Parmalat, i bond argentini... Ora la Popolare di Lodi.

«Massimo D’Alema dice che questa storia delle banche non interessa alla gente, agli elettori. Ma com’è possibile continuare a minimizzare così?», s’indigna Tabacci. «Stiamo vivendo una stagione vergognosa in cui la politica non esiste più e i furbetti da anni fanno ciò che vogliono. Dall’opa Telecom a oggi, i nomi che girano sono sempre quelli».
Già. Da subito Chicco Gnutti, Giovanni Consorte, poi Gianpiero Fiorani, Stefano Ricucci e la nuova compagnia di giro degli immobiliaristi. Tutti all’ombra del Number One, come lo chiamavano confidenzialmente, l’ex governatore di Bankitalia Antonio Fazio che voleva diventare il nuovo Cuccia, ma suonando la carica della finanza cattolica contro laici e massoni.

Oggi la magistratura è arrivata a indicare quella del banchiere di Lodi come un’associazione a delinquere. E sono scattati gli arresti. «Un epilogo inevitabile. Doveroso. Ma non mi rende allegro», commenta Tabacci. «Non si volta pagina con le inchieste della magistratura, con i rinvii a giudizio. Serve la politica. Salterà Fiorani, salterà Ricucci, salterà Consorte. Ma fin quando D’Alema dirà che queste cose non importano alla gente, non si cambia».

Già nel luglio 2005 era possibile capire l’essenziale sulle gesta della banda Fiorani e sulle distrazioni del governatore Fazio. Lo scrivevano i giornali (compreso Diario). Lo poteva capire la politica. Ma nessuno si mosse per raddrizzare la situazione, prima che fosse costretta a intervenire la magistratura.

Bruno Tabacci, implacabile, retrodata i tempi in cui era possibile intrevenire: già nel gennaio 2005. Il Parlamento era al lavoro per approvare la riforma sul risparmio, che conteneva anche il mandato a termine per il governatore e il passaggio all’Antitrust del controllo sulle concentrazioni bancarie. Nelle commissioni parlamentari le novità passarono, con il consenso determinante della Lega. «Poi venne da me Fiorani», racconta Tabacci a Diario. «Mi disse che il salvataggio che stava facendo di Credieuronord, la banca della Lega, aveva spostato gli equilibri. Io andai avanti per la mia strada, ma effettivamente, quando la riforma arrivò nell’aula della Camera, la Lega votò contro e tutto si fermò». Ma, secondo Tabacci, anche i Ds avevano intanto cambiato atteggiamento: «Fiorani era passato anche da loro, come ha confermato il capogruppo alla Camera Luciano Violante. I Ds sono rimasti incerti fino all’ultimo su come votare: avevano annunciato l’astensione, poi votarono con me, quando videro che tanto ero stato messo in minoranza e che le riforme erano bloccate».

I furbetti hanno rapporti e coperture a destra e a sinistra e padrini in tutti i partiti. Le indagini su Furbettopoli sembrano dare ragione alle intuizioni di Cusani e alle denunce di Tabacci: nel sistema, in primo piano sono gli uomini degli affari; i politici ci sono, ma al servizio dei primi. Un tempo era la politica a decidere la strategia. Sceglieva gli affari e le imprese, poi passava a riscuotere. Oggi è l’economia a mettere al suo servizio (e a volte a libro-paga) la politica.

Evidentemente Silvio Berlusconi ha fatto scuola. Ma ora il partito-azienda non è più uno solo. Così la Lega si è legata mani e piedi e si è consegnata ai disegni di Fiorani e Fazio. E, anche a sinistra: quanto hanno pesato le decisioni di Consorte sulle prese di posizione di Piero Fassino e dei Ds? Proviamo a fare una prima analisi, incrociando indagini giudiziarie e cronaca politica.

La Lega transgenica

La Lega nord di Umberto Bossi non c’è più. È finita. Lo scandalo Fiorani ne ha decretato la fine. Non nel senso dei voti e del potere: per i voti, vedremo tra qualche mese; quanto al potere, la Lega non ne ha mai avuto tanto come oggi. Però si è trasformata in qualcosa di diverso. Dov’è finito il movimento che tuonava contro Roma ladrona, che in nome del popolo del Nord e del suo lavoro criticava il sistema dei partiti e i poteri forti? Dopo pochi anni di vita «romana» (e di governo), la Lega in trasferta nella capitale è diventata l’ancella di un progetto finanziario altrui, la Guardia di Ferro del Bel Banchiere di Lodi, anzi peggio: il braccio armato del romanissimo governatore Fazio.

L’hanno convinta il sogno «politico» della banca padana, certo, ma hanno aiutato molto i soldi. Quelli con cui Fiorani, con la regia di Fazio, ha salvato la Credieuronord, per esempio, la traballante banchetta della Lega affondata dall’incompetenza e dalle illegalità con cui è stata gestita, fino a conquistarsi il record di unica banca al mondo che in soli tre anni è riuscita a perdere quasi per intero il capitale sociale. Soldi prestati senza alcuna garanzia a pochi clienti eccellenti, che li hanno dissipati. Finanziamenti alla Bingo.net di Maurizio Balocchi, il tesoriere della Lega, finiti in un buco senza fondo.

Poi è arrivato Fiorani a salvare l’onore padano. Ma non a restituire i soldini dei tanti leghisti che ci avevano messo l’anima e i loro risparmi. Curioso: la piccola banca della Lega ha fatto, in piccolo, quello che tante potenti banche italiane hanno fatto, in grande, nei crac Cirio e Parmalat: salvare la faccia ai numeri uno e lasciare nella melma i piccoli risparmiatori. Come la signora Estella Gabello, il socio Adriano Rossi, la socia Corinna Zanon e infiniti altri leghisti che nel gorgo Credieuronord hanno perso, in un colpo solo, due cose uniche nella vita: il loro piccolo capitale e il grande amore per la Lega di Bossi. Da questa brutta storia il partito padano esce geneticamente mutato. Il suo popolo ha perso l’innocenza, per sempre. E basta leggere i verbali dell’ultima assemblea dei soci Credieuronord per convincersene. In più, non aiuta sapere che il ministro Roberto Calderoli aveva avuto dal Fiorani un bel fido di 13 mila euro, uno di quegli specialissimi fidi lodigiani che sembrano tanto un regalo. Certo, secondo quanto è emerso finora, il Calderoli non ne ha mai approfittato e fino a oggi ha lasciato dormire i soldini nel generoso conto della Popolare di Lodi.

Ma resta il fatto – ed è perfino più grave di un eventuale uso personale – che il partito ha subìto proprio una mutazione genetica: la Lega ha perso la sua autonomia di giudizio e di comportamento, ha dimenticato quanto era stata dura con Fiorani e Fazio in occasione dei crac Cirio e Parmalat, ha dimenticato i tanti piccoli risparmiatori del Nord imbrogliati non solo – diceva allora la Lega – da Sergio Cragnotti e Calisto Tanzi, ma anche dai banchieri che hanno scaricato sui risparmiatori la loro esposizione nei confronti di Cirio e Parmalat.
Tra quei banchieri c’era anche Fiorani, ma la nuova Lega se l’è dimenticato. La nuova Lega è la Lega di governo che ha preso il posto di quella Lega di lotta che oggi non c’è più. I nuovi politici padani hanno modulato gran parte delle scelte degli ultimi mesi sulle esigenze degli ex nemici Fiorani e Fazio. Da loro si sono fatti imporre l’agenda. Fino a farsi diventare sopportabile persino il Ricucci Stefano, che più romano non si può: ma, si sa, gli amici dei miei amici sono anche miei amici...

Negli altri partiti del centrodestra, i furbetti si erano garantiti, grazie ai conti molto speciali, il sostegno di alcuni uomini. Sono già emersi i nomi di Ivo Tarolli dell’Udc, di Luigi Grillo e Romano Comincioli di Forza Italia, di Aldo Brancher, ufficiale di collegamento tra Forza Italia e la Lega e «reclutatore» di Fiorani... «Lobbismo puro», spiega in un interrogatorio Fiorani a proposito di Grillo.

Ma anche qui: al di là della valutazione morale sui soldi accettati dagli uomini dei partiti, la novità è costituita dal fatto che la politica è ridotta a mero apparato di sostegno, pubbliche relazioni e lobbismo, dei progetti di qualcun altro. Con Silvio Berlusconi che, nell’ombra, sta a vedere come vanno a finire le scalate e se si riesce a destabilizzare il Corriere...

Il furbetto rosso

Quanto ai Ds, è paradossale, ma s’intravvede qualcosa di simile, di speculare a quella che appare come la mutazione genetica della Lega. Saltando in tutt’altro contesto, cambiando schieramento, storia, ideologia, cultura politica, sembra purtuttavia di notare l’irresistibile attrazione che scelte fatte altrove (in via Stalingrado a Bologna) esercitano sul Botteghino. Una parte del vertice Ds – il presidente Massimo D’Alema, il segretario Piero Fassino, l’ex ministro Pierluigi Bersani, oltre a esponenti di rilievo come, tra gli altri, il senatore Nicola Latorre e il tesoriere Ugo Sposetti – hanno passato molto tempo degli ultimi mesi a difendere, spiegare, sostenere, giustificare le decisioni di Giovanni Consorte.

Ed è mai possibile che l’intero vertice di un partito politico abbia come prima preoccupazione quella che si rilasci in fretta l’autorizzazione a un’opa? Nel bel mezzo della bufera mediatica seguita alla notizia che anche Consorte è indagato, Pierluigi Bersani, Gavino Angius, Vannino Chiti sono andati avanti per giorni a insistere: ma quando ci dite se quest’opa si può fare o no?

Una volta, ai tempi del vecchio Pci, era il partito a decidere: la linea politica, ma anche i comportamenti negli affari e finanche la moralità degli iscritti. Ora soprattutto Fassino sembra invece affaticato alla rincorsa di una materia che pare non padroneggiare del tutto. Ha passato l’estate 2005 a difendere il partito dagli attacchi: in realtà a difendere Consorte e le sue scelte finanziarie. Ha dovuto moltiplicare le interviste e gli interventi anche perché doveva via via rettificare, precisare, spiegare, correggere se stesso. Con il mal di pancia crescente di settori del partito e di elettori del centrosinistra che non capivano perché tante parole ed energie fossero spese dal segretario per affermare che un misterioso odontotecnico con tanti soldi e strani giri immobiliari ha la stessa dignità imprenditoriale di chi rischia il suo capitale per creare ricchezza e posti di lavoro.

Certo, Stefano Ricucci è alleato di Giovanni Consorte e Consorte è forse il più grande finanziatore del partito. Le iniziative dei Ds e i festival dell’Unità sono sponsorizzati da Unipol. Ma basta questo per far diventare buona ogni sua scelta? E questo al netto della correttezza e a prescindere da eventuali reati commessi. Nel partito, nel sindacato, nel movimento cooperativo, molti dirigenti e militanti non capivano e continuano a non capire perché, visto che il movimento cooperativo ha dei soldini, li deve mettere proprio in una banca.

E non per pregiudizio anticapitalistico, per ingenua e antimoderna paura della finanza, quasi si trattasse di uno strumento del demonio. Non è affatto in discussione la legittimità di fare finanza, di farla anche a sinistra, né tantomeno il diritto per Unipol di comprare una banca. No. Le domande che sono maturate dentro il mondo dei Ds – anche se faticano a trovare espressione pubblica per paura di danneggiare il partito in una fase ormai già pre-elettorale – sono di tutt’altra natura. Non riguardano la legittimità della finanza in generale, ma da una parte la specificità dell’operazione in corso e la sua opportunità strategica e industriale, dall’altra l’eventuale illegalità dei metodi usati. Ecco le domande.

La prima: perché il movimento cooperativo, in un momento di declino e di grave crisi industriale del Paese, punta tutto su un investimento finanziario?
La seconda: perché rischiare così tanto in un investimento (Bnl) che, come hanno sostenuto i «cugini» del Montepaschi già nella primavera scorsa, potrebbe non dare i risultati sperati e anzi appesantire di debiti l’intero movimento cooperativo?
La terza: ma siamo sicuri che la scalata di Consorte a Bnl non sia stata fatta violando le regole, in una concertata partita doppia con l’assalto ad Antonveneta di Fiorani e sotto la benevola ala protettiva di Fazio?
La quarta: come mai Consorte e il suo vice, Ivano Sacchetti, hanno ricevuto affidamenti milionari dalla Popolare di Lodi e hanno realizzato strane plusvalenze da operazioni sui derivati?
Per rispondere a queste domande, conviene cominciare ad ascoltare il ragionamento di uno che non solo si sente Ds fin nel midollo, ma che si dice anche innamorato del movimento cooperativo: Carlo Ghezzi, ieri sindacalista e oggi presidente della Fondazione Di Vittorio della Cgil.

1. Perché proprio una banca?
«L’Italia è il Paese di Silvio Berlusconi, imprenditore anomalo, rentier senza mercati. I suoi settori d’intervento sono la televisione, l’edilizia, le assicurazioni... Mercati protetti, fuori dalla vera competitività internazionale». La prende larga, Ghezzi. «Dunque è normale che il governo di Berlusconi attui una politica favorevole alla rendita. Così aggrava sempre più la crisi dell’Italia, che esce via via dai settori produttivi e dalla competizione internazionale. Invece, per cercare d’invertire questa tendenza, la politica dovrebbe interessarsi di dove va la nostra economia e dovrebbe favorire lo sviluppo delle forze produttive. Il programma del centrosinistra va in questa direzione. Cambia la direzione di marcia. Ma allora, in quest’Italia in declino, è un errore strategico per il mondo cooperativo puntare sulla finanza, invece di progettare un piano di sviluppo per il Paese. È una sciocchezza dire che tutti i settori sono uguali, che tutti gli operatori economici sono uguali, purché rispettino le regole. Chi produce e crea ricchezza per tutti non è uguale a chi vive sulla rendita. E un governo di centrosinistra dovrà premiare chi produce e crea ricchezza per il Paese e non, come ora, chi si arricchisce con la speculazione senza rischi di competizione».

Ghezzi prosegue il suo ragionamento: «È poi un errore tattico quello di puntare – in odio al capitalismo italiano, straccione, assistito, furbacchione – su personaggi che sono il peggio della finanza italiana. Regalando ad altri i rapporti con il capitalismo dei cosiddetti salotti buoni». Più in generale, continua poi Ghezzi, «una riflessione vera dovrà essere fatta, in questo contesto, anche dentro il mondo dell’economia cooperativa. È un mondo che va meglio del resto dell’economia italiana. E allora, io sono convinto che sia giusto che cresca. Che faccia finanza. Che si doti anche di una banca. Ma come crescere? Con gli stessi trucchi, le stesse furbizie, le stesse scatole cinesi del capitalismo familiare italiano? Mettendosi nelle mani di un Cuccia di sinistra che blinda, rastrella, s’indebita? Dicendo che i vecchi salotti del capitalismo fanno schifo e poi facendo noi le stesse cose?». Tutto questo, naturalmente, al netto di eventuali irregolarità. «Do per scontato», conclude Ghezzi, «che se ci sono illegalità e reati, allora il discorso cambia».

«Ma anche a prescindere da eventuali reati, per cominciare dobbiamo almeno farla finita con il cesarismo di manager che diventano padri padroni della loro cooperativa o della loro impresa, manager che non rispondono a niente e a nessuno. Dobbiamo inventarci una nuova governance e un nuovo rapporto tra soci e manager».

Le cooperative, che sulla carta sono le strutture produttive più democratiche del mondo, si sono trasformate nella realtà in entità monarchiche dove il carisma del manager pesa più di ogni altra cosa. L’architettura societaria di Unipol è un castello dei destini incrociati di cui, alla fine, solo il presidente riesce ad avere l’effettivo controllo. Consorte, certamente, ha il merito di aver salvato la compagnia dal fallimento, di averla risollevata e lanciata nell’empireo della finanza italiana. Tutto il mondo cooperativo (e tutti i Ds) gli devono molto. Ma basta questo a mandar giù ogni sua scelta?

2. Un’operazione antieconomica? Sono stati i Ds di Siena, che controllano la Fondazione che a sua volta controlla il Montepaschi, a dire che il re è nudo: l’operazione Bnl non conviene. È troppo costosa e rischia di appesantire di debiti il compratore. Certo, i senesi parlavano della loro convenienza a entrare nell’operazione. Ma, sotto, il ragionamento è questo: quella di Consorte è più un’operazione di potere che un business. Lancia Consorte al centro della finanza italiana, ma all’italiana: con una banca non proprio florida da ristrutturare e con debiti da pagare per anni. Ne vale la pena? Fa davvero bene al mondo cooperativo? Appena la scalata Bnl si profilò all’orizzonte, il presidente di Unicoop Firenze Turiddo Campaini sentenziò: «Non mi piace, è un’operazione inutile e rischiosa».

Ma a questo punto le domande sull’opportunità dell’operazione Consorte lasciano posto alle domande sulle eventuali illegalità.

3. Una scalata contro le regole? L’ordinanza del giudice preliminare Clementina Forleo parla chiaro: Fiorani e la sua «associazione a delinquere» «si erano da anni impadroniti del controllo della banca... gestendo il loro complessivo operato in pieno arbitrio». Per fare questo, aggiunge, «erano occorsi l’appoggio di importanti finanzieri italiani», «quali Consorte Giovanni e Sacchetti Ivano, rispettivamente presidente e amministratore delegato di Unipol». Basta rileggere i resoconti delle telefonate intercettate ai protagonisti delle scalate estive per rendersi conto che qualcosa non quadra. I rapporti Consorte-Fiorani sono strettissimi. Le due scalate, su Antonveneta e su Bnl, sembrano una cosa sola. Un unico, grande concertone. «Gianni, io mi sento sangue del tuo sangue... Tu sai che io sono sempre pronto e disponibile e lavoro anche un po’ sott’acqua, come tu hai capito bene», dice Fiorani a Consorte il 19 luglio 2005.

I giochi erano cominciati molti mesi prima, nel dicembre 2004. Consorte e Sacchetti avevano ottenuto un prestito da 4 milioni di euro ciascuno, senza garanzie, il 28 dicembre, tra Natale e Capodanno. Subito dopo parte il rastrellamento sotterraneo e incrociato delle azioni Antonveneta e Bnl. Unipol compra il 3,5 per cento di Antonveneta, mentre Lodi mette insieme l’1,4 di Bnl. Ben prima che le due scalate fossero dichiarate al mercato: miracoli della preveggenza. Le azioni Bnl – proprio come quelle Antonveneta – sono rastrellate dagli «amici» ben prima delle autorizzazioni. E Consorte fa parte del gruppo dei rastrellatori di Antonveneta, ricorda l’odinanza di custodia cautelare del giudice Forleo, che aggiunge: «Si trattava di persona particolarmente fidata, tant’è che ci si era rivolti a lui anche per la vicenda Earchimede...». Cioè la più importante delle operazioni fittizie messe in piedi da Fiorani per far apparire a posto i coefficienti patrimoniali della banca, che invece a posto non erano affatto.

Non solo. Fiorani, come dimostra la telefonata con bacio in fronte a Fazio della notte del 12 luglio, ha una linea diretta con l’arbitro che in realtà è il capo della tifoseria. Ma anche Unipol, pur con meno smancerie, ha la sua linea diretta con la Banca d’Italia. Lo stesso 12 luglio il vice di Consorte, Ivano Sacchetti, riferisce al capo che ha parlato con Francesco Frasca, il capo della Vigilanza di Bankitalia, per dirgli che è tutto a posto, «che nessuna banca ha dei problemi». Poche ore dopo, Consorte in persona chiama direttamente Frasca. Sono le 18.21: «Gianni gli dice che ha bisogno di lui», annota il brogliaccio della guardia di finanza. Alle 19.01 è Frasca a chiamare Consorte per dirgli che «il governatore voleva incontrarlo per capire bene tutta la struttura». Il giorno seguente, altri contatti per fissare il primo incontro, che sarebbe avvenuto alle 19 del 13 luglio.

Rastrellamento delle azioni condotto in modo sotterraneo e fuori dalle regole. Complicità nella falsificazione dei coefficienti patrimoniali della Popolare di Lodi. Rapporto privilegiato con Bankitalia. In che cosa, allora, la «scalata buona» (Bnl) si differenzia dalla «scalata cattiva» (Antonveneta)? Anzi, Consorte aveva anche l’asso nella manica: una «talpa» dentro il palazzo di giustizia, un giudice che (almeno a quanto dice Consorte, intercettato, ai compagni di scalata) avrebbe pensato lui ai giudici di Roma...

4. Operazioni personali? Non occorre essere geni della finanza per capire subito che i conti molto speciali di Consorte e Sacchetti (come quelli di tanti altri clienti molto speciali di Fiorani) erano regali mascherati, tangenti postmoderne. Che brutte le buste piene di soldi, le valigette 24 ore, le banconote impacchettate nella carta di giornale (come ai tempi di Mario Chiesa...). Sorpassati anche i conti all’estero e le società offshore (una volta si chiamavano Levissima, o Gabbietta, o All Iberian...). Ora i soldi arrivano con operazioni sui derivati. Agli amici si apre un conto a Lodi. Lo si riempie con un bell’affidamento senza garanzie. Lo si rimpingua con soldi provenienti da complesse operazioni finanziarie fatte dalla banca (sui derivati, appunto) senza che il cliente muova neanche un dito. I derivati sono strumenti delicati, fanno guadagnare, ma anche perdere (Raul Gardini, per dirne uno che ci sapeva fare, ci si è rovinato). Ma niente paura: i clienti speciali vincono sempre.

Consorte e Sacchetti ricevono 4 milioni di euro a testa, così, esattamente un anno fa. Soldini impiegati per vendite di opzioni put, di cui si occupano Akros e Barclays, su incarico della Popolare di Lodi. Ma nessun rischio, nessuna preoccupazione: i clienti stanno tranquilli a casa loro, e alla fine Fiorani fa arrivare sui due conti gemelli un guadagno di circa 1,7 milioni di euro a testa. Consorte affida il malloppo a Teti finanziaria, gestita da un prestanome. Sacchetti ripara il suo presso la Im immobiliare. Operazioni finanziarie personali e perfettamente lecite, sostengono i due in una nota diffusa il 14 dicembre dal loro legale Filippo Sgubbi. Non sembra pensarla così il giudice preliminare, che scrive di «clienti privilegiati», di «anomali affidamenti», di «operazioni parallele e sovrapponibili»... Appare davvero strano che i guadagni siano stati realizzati con vendite di opzioni put a prezzi molto più alti di quelli di mercato e con prelievo dei premi molto prima della scadenza dell’operazione. Insomma: c’era qualcuno che garantiva il guadagno, comunque fosse andata a finire l’avventura delle opzioni.

E comunque Consorte solo sette giorni prima, il 7 dicembre 2005, al Sole 24 ore aveva dichiarato tutt’altro: «Quelle sul mio conto sono operazioni di trading azionario che risalgono al 2001 e 2002... Noi con la Lodi, sia come azienda che come persone, non abbiamo fatto mai nessuna operazione. Neanche una». Ma quali sono, allora, le operazioni di trading azionario fatte nel 2001 e 2002? E perché ha negato i giochi sui derivati del 2005? Fatti i conti in tasca al numero uno di Unipol, si può calcolare che abbia portato a casa 14 milioni di euro, in quattro anni di operazioni sui titoli realizzate nella banca di Fiorani. Nel 2002 aveva raggiunto, senza garanzie, un fido di 7 milioni di euro: quanto l’utile mensile della Popolare di Lodi.

Le carte poi raccontano di altri giochi di sponda. Come quello che potremmo chiamare «operazione Quarto Oggiaro»: un favore fatto all’amico Fiorani, un giochetto senza perdite né guadagni. Nel marzo 2003 un prestanome di Fiorani, Eraldo Galetti, amministratore della società Liberty, ottiene dalla Popolare di Lodi, senza garanzia alcuna, un fido di 2,4 milioni di euro. Lo usa il 1 aprile per finanziare Liberty, che acquista la villa di Fiorani a Cap Martin. Ma così provoca uno scoperto di conto. Ripianato il 29 aprile con un assegno di 2,9 milioni di euro proveniente da Unipol, agenzia di Quarto Oggiaro. Che cos’era successo? Fiorani aveva telefonato a Consorte, chiedendogli di concedere al suo prestanome un affidamento di 2,9 milioni. Consorte aveva subito eseguito: ironia della sorte, aveva scelto, per facilitare l’acquisto della villa di Fiorani in Costa Azzurra, l’agenzia Unipol di uno dei più noti e meno attrezzati quartieri periferici milanesi.

Qualche giorno dopo, dicono le carte, il braccio destro di Fiorani, Gianfranco Boni, compiva la magia: faceva transitare sul conto di Galetti cinque operazioni di compravendita titoli, che fruttavano un capital gain, al netto, di 2,915 milioni. Da lì, bonifico verso il conto Unipol, per rientrare dell’affidamento concesso da Consorte. Con tanti ringraziamenti da Lodi.

Appare ben più discutibile, anche se ancora sotto giudizio, l’operazione realizzata da Consorte nel 2002 sulle obbligazioni Unipol: un episodio sul quale è in corso a Milano un processo per insider trading, in cui sono imputati, insieme a Consorte, il suo vice Ivano Sacchetti e il finanziere bresciano Emilio Gnutti. Un caso mai visto nella storia della finanza italiana: nessuna azienda vorrebbe mai rimborsare le obbligazioni emesse, la compagnia assicurativa bolognese invece aveva deciso di rimborsarle tre anni prima della scadenza naturale. Perché questa scelta apparentemente inspiegabile?

Consorte risponde: volevamo ridurre l’indebitamento, è stata la compagnia stessa a ricomprare, per risparmiare. «Ma l’unica spiegazione possibile è che si voleva favorire qualcuno, che sapeva del rimborso imminente», ribatte Beppe Scienza, autore del volume Il risparmio tradito. «Sono andato a spulciare le compravendite di quei titoli e ho scoperto movimenti interessanti. I due titoli in questione erano poco trattati, con volumi giornalieri bassissimi. Il 28 febbraio 2002 viene annunciato il rimborso, a 100 lire al titolo. Nelle settimane precedenti, le transazioni s’impennano. Passano di mano volumi per milioni di euro di uno dei due titoli (il 24 gennaio 2002 addirittura 20 milioni). L’altro titolo aveva ancora meno mercato, ma il 28 gennaio ne passano di mano 9,8 milioni. Curioso che in quelle settimane siano spuntati come funghi misteriosi investitori che hanno comprato milioni di euro di queste obbligazioni che prima non voleva nessuno. Chi comprava quei titoli, a prezzi inferiori alle 100 lire, doveva sapere in anticipo dell’imminente rimborso a 100 lire. Così chi ha comprato ha realizzato buone plusvalenze, mentre a perderci sono stati i risparmiatori che avevano comprato le obbligazioni e i soci dell’Unipol, che hanno perso 14 milioni di euro».

Se in quell’operazione del 2002 c’è stato insider trading, lo deciderà il tribunale. Certo è che, dal 2002 a oggi, Consorte si è sempre più integrato nel gruppo dei furbetti, con Gnutti e la sua corte bresciana prima, poi con Fiorani e i suoi amici lodigiani e poi ancora con i mattonari romani alla Ricucci. Di quel gruppo pronto a nuovi arrembaggi, per rinverdire i fasti dell’opa Telecom del 1999, è diventato la sponda a sinistra: il «furbetto rosso». •


La Coop sei tu. Quanto costa la scalata Bnl al movimento cooperativo

Quanto è costata al movimento cooperativo la scalata a Bnl? I conti non sono facili. Ma, usando i documenti ufficiali, una stima, per difetto, si può fare.
Innanzitutto bisogna calcolare i costi della prima crescita fin sotto la soglia del 15 per cento, chiesto da Unipol e autorizzato da Bankitalia nel luglio 2005 in soli 15 giorni (mentre i baschi del Banco di Bilbao hanno dovuto aspettare due mesi per poter salire dal 15 al 30 per cento).

Unipol entro il 18 luglio 2005 compra 305,5 milioni di azioni Bnl sborsando 852,8 milioni di euro (prezzo medio per azione 2,79 euro). Contemporaneamente, anche Aurora, controllata Unipol, compra 146,3 milioni di azioni Bnl, pagando 387,7 milioni (prezzo medio 2,65). Totale di Unipol e Aurora, per arrivare al 14,92 per cento di Bnl: 451,8 milioni di azioni, con una spesa di 1,240 miliardi di euro (prezzo medio per azione 2,75 euro).

A questo punto arriva il capolavoro di Consorte. Unipol ufficialmente non compra più neppure un’azione, ma in tempi da record stringe una serie di patti con soggetti diversi (cooperative, banche e finanziarie italiane, banche straniere) che comprano Bnl e le mettono a disposizione della cordata capitanata da Consorte. Questi soggetti sono la Hopa di Chicco Gnutti, la Carige di Vito Bonsignore, la Popolare italiana di Fiorani, la Popolare di Vicenza, la Sias di Marcellino Gavio, Alvaro Pascotto, Nomura.

Le cooperative che entrano nel gioco sono quattro: Talea, Estense, Adriatica, Novacoop. Ciascuna acquista un 1 per cento di Bnl (pari a 30,250 milioni di azioni), con un esborso di 81,6 milioni. Le quattro coop dunque pagano un totale di 326,7 milioni di euro.

Poi però Unipol, per affrontare la scalata, deve fare un aumento di capitale di 2,6 miliardi di euro. Quanto ha pesato sulle finanze delle cooperative? Si può cercare di calcolarlo individuando l’impegno nell’aumento di capitale sostenuto da Holmo (la finanziaria che raggruppa 46 coop). Poiché Holmo deve mantenere il 52 per cento di Finsoe che controlla poco più del 50 per cento di Unipol, si può calcolare che Holmo (e cioè le coop) abbia dovuto sborsare almeno 460 milioni di euro.

A questa cifra bisogna plausibilmente aggiungere le quote inoptate del Montepaschi, che si è sfilato dall’affare (circa 230 milioni).
Dunque, sommando il costo delle azioni Bnl comprate da Unipol, più le azioni comprate dalle quattro coop, più la quota coop e Mps dell’aumento di capitale, il costo totale sostenuto dalle cooperative dovrebbe essere almeno di 2,257 miliardi di euro. A questi andrebbero aggiunte altre voci minori (aumento di capitale Unipol Banca, acquisto azioni privilegiate non optate eccetera...).

Con un rischio minusvalenze: le azioni comprate a 2,70, a opa finita (se andrà in porto), scenderanno a 2,10, con una perdita di 60 centesimi per azione: 1,8 miliardi di minusvalenze che i nuovi criteri contabili Ias obbligano a mettere nel bilancio 2005.


Diario, 23 dicembre 2005



Luglio 2005: le dimissioni di Fazio e Consorte

Scenario impossibile. Come sarebbe andata se chi poteva intervenire lo avesse fatto, prima dei magistrati? (E già quest'estate si poteva capire tutto...)

Hanno avuto tutti molto tempo per capire, per reagire, per intervenire. Ma non lo hanno fatto. Oggi è chiaro: Gianpiero Fiorani il banchiere della Bassa è in galera, la sua banda è ufficialmente un’associazione a delinquere; una mafia che rubava ai clienti piccoli – e anche ai clienti morti – per dare agli amici e compagni di avventure criminal-finanziarie; una consorteria che trattava con un occhio di riguardo alcuni politici (Luigi Grillo e Aldo Brancher, Forza Italia; Ivo Tarolli e Vito Bonsignore, Udc; Roberto Calderoli, Lega...), che incassava solidarietà anche a sinistra (Giovanni Consorte e i suoi sostenitori...) e riempiva di regali il Number One, come lo chiamavano tra di loro, cioè il governatore di Bankitalia Antonio Fazio.

Hanno avuto tutti molto tempo per capire, per reagire, per intervenire. Lo hanno avuto le istituzioni finanziarie, quelle di controllo che non hanno controllato e le grandi banche che, per spuntare generose commissioni, facevano finta di non vedere. Lo ha avuto la politica, che era impegnata in altre faccende (depenalizzare il falso in bilancio e addirittura la bancarotta, attaccare l’indipendenza della magistratura, aggiustare i processi di qualche imputato eccellente, accarezzare il pelo alla rude razza padana e alla furba razza romana, sdoganare i furbetti del quartierino, che mica c’hanno la rogna...).

Ha avuto tempo, la politica, per capire. Dall’estate 2005, poi, la trama del grande colpo tentato dai furbetti era emersa, era stata raccontata su tutti i giornali. A quel punto, i particolari raccapriccianti ancora non si conoscevano, ma l’essenziale sì. Si sarebbe potuto intervenire, seppure già un po’ in ritardo, e cercare di risanare l’ambiente.

Immaginiamo uno scenario, una specie di sogno possibile, in un Paese normale: il Parlamento, convocato d’urgenza, approva un’efficace riforma del risparmio e della Banca d’Italia; il governatore è subito sostituito da una personalità che restituisce prestigio e credibilità all’istituzione; le scalate avviate con metodi truffaldini sono bloccate dalle autorità di controllo per ritornare alla trasparenza e alla correttezza; Fiorani e amici escono rapidamente di scena, sostituiti da nuovi amministratori non collusi; le grandi banche internazionali plaudono il rinnovamento, dopo essersi rifiutate di entrare in operazioni che puzzavano di illegalità lontano un miglio; la maggioranza di governo dimostra con i fatti di non avere alcun collegamento sotterraneo con gli scalatori di banche e del Corriere della sera; l’opposizione di centrosinistra dichiara solennemente che le regole valgono per tutti e si rifiuta di parteggiare per qualunque consorteria.

A proposito: per motivi d’opportunità, Giovanni Consorte si dimette dalla presidenza di Unipol, che avvia una profonda riorganizzazione per ritornare a una governance più trasparente, meno «monarchica», più nelle mani delle cooperative che la controllano. I vertici Ds convocano una grande assemblea sulla trasparenza negli affari e sui rapporti tra industria e finanza, produzione e speculazione. Insomma, a fine luglio 2005, l’intrigo dei furbetti è già sgonfiato.

È un mondo di Alice? Un impossibile scenario di fiaba, pensabile soltanto da inguaribili ingenui? Forse. Certo che quel che è avvenuto nella realtà non gli somiglia neppur lontanamente. Anzi, è esattamente l’opposto.

Antonio Fazio è ancora al suo posto. Silvio Berlusconi non ha dissipato i dubbi sul suo ruolo quantomeno attendista, se non collusivo, nell’assalto al Corriere. Una pattuglia di politici e parlamentari della Repubblica erano a libro paga di Fiorani (seppur con il metodo postmoderno dei conti privilegiati e delle operazioni sui derivati). Una parte del centrosinistra ha fatto a gara per sostenere Consorte, ha fatto contorcimenti da kamasutra per cercare di dividere la scalata buona dalla scalata cattiva e non ha nascosto la sua simpatia per i nuovi arrivati sulla scena dell’esangue e traballante capitalismo italiano, gente che ha pari dignità con quegli smorfiosi dei salotti buoni (e comunanza d’affari con il campione della finanza rossa, Giovanni Consorte).

Vi piacciono tanto gli animal spirit della nuova finanza? Eccoveli. Prendeteveli tutti. Se vi piace la forza creativa e la spregiudicatezza dei nuovi arrivati, prendetevi anche l’insider trading, le spartizioni 40 a me 60 a te, i furti dai conti correnti e dal caveau, i fondi accumulati all’estero per una serena vecchiaia...

Non dite, adesso, che voi la riforma sul risparmio la volevate fare, che siete per la correttezza, che non sapevate... Sapevate tutto, come sapevate delle tangenti che tenevano in piedi la Prima Repubblica. Hanno dovuto muoversi i magistrati, anche questa volta, per bloccare l’illegalità che era diventata sistema. Non chiamatela nuova Tangentopoli, ma certo è un sistema integrato politica-affari.

Anzi. Forse non siete intervenuti non perché non sapevate, ma proprio perché sapevate. Perché le consorterie creano solidarietà trasversali, esigono silenzi, impongono complicità.

Con questo clima, come andremo alle elezioni? Come potrà il centrosinistra indicare ai cittadini un’alternativa di correttezza e trasparenza al berlusconismo del partito-azienda e dei conflitti d’interesse?

Diario, 16 dicembre 2005



Benvenuti a Furbettopoli.

Dopo il caso Consorte.
E se l'incauto Fassino lasciasse
(con il silenzioso D'Alema)
il vertice del partito?


C'è una triste aria di crepuscolo, nella vicenda dei Ds assediati per i furbetti rossi che avevano in casa. Certo, si può continuare a ripetere che è in corso un attacco politico strumentale: da parte di Berlusconi (e da che pulpito vien la predica sui rapporti tra politica e affari!); da parte del centrodestra; da parte dei "concorrenti" del centrosinistra che vogliono, come ha detto Vannino Chiti, «spolpare l'osso» (elettorale) dei democratici di sinistra. Sarà anche vero, ma restano, purtroppo, i fatti. Questa volta l'"attacco strumentale" non è a base di prediche contro il comunismo sovietico o Pol Pot. I fatti degli ultimi mesi sono sotto gli occhi di tutti. Riassumiamoli. Il più rappresentativo e potente dei manager dell'area ds è accusato di associazione a delinquere e un'altra quantità di reati da far invidia ai manager di Berlusconi. Nell'attesa dei processi, ha già ammesso di aver ricevuto decine di milioni di euro in strane "consulenze"; di non averle dichiarate al fisco; di aver avuto conti cifrati all'estero; di aver fatto rientrare soldi illegali in Italia grazie allo scudo fiscale; di aver sanato i reati fiscali con il condono tombale. Queste ammissioni sono più che sufficienti per esprimere un giudizio netto e definitivo sull'ingegner Giovanni Consorte. Le spiegazioni che ha aggiunto (i 50 milioni sono "consulenze", il conto all'estero era per aiutare un amico malato...) sono dello stesso livello di quelle dell'avvocato Cesare Previti. Ma il peggio è che per sostenere Consorte e le sue operazioni finanziarie si sono impegnati fino allo spasimo i vertici del suo partito: il presidente Massimo D'Alema, il segretario Piero Fassino, il tesoriere Ugo Sposetti, il responsabile economico Pierluigi Bersani... Se mettiamo in fila tutti gli interventi, le dichiarazioni, le interviste di questi e altri notabili ds dal maggio 2005 a oggi, in difesa non solo di Consorte e della sua opa, ma anche di Ricucci e della "pari dignità" degli immobiliaristi, otteniamo un libro nero dei ds che oggi va a pesare come un macigno sulla credibilità del partito. Anche senza aggiungere le imbarazzanti telefonate private tra Fassino e Consorte (a cui si dovranno aggiungere quelle di Consorte con Nicola Latorre e D'Alema). Non lo sapevamo, non conoscevamo la doppia vita di Consorte: questa la giustificazione. «Quando lei va aprendere il caffé con una persona e non sa che quella persona ha commesso degli illeciti, sbaglia a prendere il caffé? Noi non sapevamo né potevamo sospettare che Consorte commettesse illeciti, sempre che le accuse siano fondate»: così Luciano Violante sul Corriere del 5 gennaio 2006. L'argomentazione è quella che i dc siciliani usavano per difendersi dalle accuse di contiguità con personaggi mafiosi, ma questa è solo la forma retorica. La sostanza è che la politica deve accettare di essere responsabile, anche a prescindere dal piano penale. Se ci sono corresponsabilità penali (cioè passaggi di soldini tra Consorte ed esponenti ds, a proposito di una "consulenza" che assomiglia tanto a una "provvista" di quelle che giravano ai bei tempi di Tangentopoli) lo sapremo, forse, nelle prossime settimane. Ma già adesso, per favore, la politica si assuma le sue responsabilità: un segretario di partito ­ che poteva restarsene zitto e tranquillo, in attesa di vedere come andava a finire una operazione finanziaria opinabile, forse buona, forse cattiva, con sostenitori ma anche detrattori dentro il suo stesso partito ­ ha invece buttato nella vicenda il peso del partito, oltre che la sua onorabilità. Ha schierato il partito dietro Giovanni Consorte (mentre i suoi interlocutori, in segreto, dicevano: ma al buon segretario non raccontiamoglieli, i particolari...). Non è sufficiente tutto ciò per dire che Fassino ha commesso un imperdonabile errore politico? D'Alema, dopo tante difese dei furbetti, ha dichiarato al Corriere, il 3 settembre, che le cooperative di Consorte sono una «riserva di etica protestante». Non è sufficiente per dire che D'Alema ha commesso un imperdonabile errore politico? Lasciamo stare, per carità, le responsabilità penali, di cui si occupano i magistrati. Ma i vertici ds hanno il senso delle responsabilità politiche? Sentono le voci di tanti loro iscritti, militanti, simpatizzanti, elettori demoralizzati e delusi per il coinvolgimento anche dei "loro" nelle imprese dei furbetti bianchi e rossi? Perché non hanno ascoltato le voci di chi, già dalla primavera scorsa, dentro la loro area politica, aveva lanciato l'allarme e chiedeva almeno più prudenza? Non si rendono conto che, limitandosi a denunciare gli "attacchi strumentali", rischiano di trascinare nel crollo, come Sansone, non solo i Ds, ma tutto il centrosinistra? La linea dei Ds è: difendiamo le cooperative, che sono una grande ricchezza economica e anche ideale di questo Paese. Vero, ma proprio per questo sono ancora più gravi le responsabilità di Consorte e della consorteria che lo ha sostenuto al vertice del partito. I più spregiudicati si spingono a dire che per battere Berlusconi bisogna sporcarsi le mani con la finanza. Difese che ricordano quelle di Craxi (e di parte del Pds) ai tempi di Mani pulite: dobbiamo mettere le mani nel fango per battere la Dc. Non era vero allora, dato che le tangenti erano spartite insieme con la Dc (a Milano c'era il cassiere unico che provvedeva a dividere le mazzette tra i partiti, di destra e di sinistra). E non è vero oggi: ma che strano modo di combattere Berlusconi, alleandosi con lui come ha fatto Consorte in quella Bicamerale degli affari che si chiama Hopa e in quella bella congrega bipartisan di furbetti del quartierino. A questo punto, per salvare un partito che resta sano, per proteggere le speranze e gli ideali di milioni di persone, non sarebbe meglio che l'incauto Fassino e il silenzioso D'Alema si facessero da parte, prima che sia troppo tardi? (gb, 5 gennaio 2006)



Manualetto per intervistatori distratti.
Le domande che nessuno ha fatto
a Berlusconi, Tremonti, Fassino, D'Alema

(gb) Le vicende di Furbettopoli continuano a tenere le prime pagine. E alla tv non mancano gli spazi dove sono affrontati i temi delle scalate bancarie e delle conseguenti polemiche politiche. Eppure i tg, i programmi giornalistici e gli innumerevoli talk show non sempre riescono a centrare il problema. A volte la distrazione o, chissà, la polemica politica strumentale fanno perdere per strada le questioni che potrebbero far capire qualcosa di più delle vicende dei Furbetti. Ecco un prontuario di domande per conduttori distratti. Per riuscire a destreggiarsi in Furbettopoli senza perdere la bussola.

A Silvio Berlusconi.

"Ma scusi, lei era socio di Consorte. Non si era accorto di nulla?". Fininvest e Mediaset mantengono per anni, a partire dal 2002, una partcipazione in Hopa, la "bicamerale della finanza" fondata da Chicco Gnutti in cui siedono, insieme, i "rossi" di Unipol e di Montepaschi e gli uomini di Berlusconi, oltre a Stefano Ricucci e ai rappresentanti della Popolare di Lodi. E Ubaldo Livolsi, banchiere di fiducia di Berlusconi, per tre anni ha avuto in mano un grosso pacchetto di azioni Hopa grazie a complessi contratti finanziari e senza sborsare un euro.
Solo a gennaio 2006 Berlusconi ha annunciato l’uscita di Fininvest e Mediaset da Hopa: non solo perché questa, dopo il fallimento delle scalate, è ormai finanziariamente traballante, ma perché si è reso conto che era davvero ridicolo attaccare, appunto, un socio con cui aveva fatto bisboccia per anni.
Quanto al "collateralismo", Berlusconi deve spiegare ancora tutto dei suoi rapporti con i Furbetti del quartierino, dei suoi incontri e accordi con Emilio Gnutti, con Gianpiero Fiorani, con Stefano Ricucci. E deve spiegare ancora il "tifo" fatto per la destabilizzazione del Corriere e il contributo concreto a quella destabilizzazione, attraverso i buoni uffici di un Ubaldo Livolsi che aveva appositamente indossato i panni di advisor dello scalatore Ricucci.
Certo, Consorte il Furbetto rosso aveva cominciato a trescare con la compagnia della "rude razza padana" già ai tempi della scalata Telecom. Ma spieghi allora, Berlusconi, il suo ruolo anche nella seconda fase di quella scalata, quando Roberto Colaninno fu "tradito" da Gnutti e Consorte, che vendettero a Marco Tronchetti Provera: Colaninno voleva costruire una grande rete televisiva da integrare con la compagnia telefonica e oggi dice che in Italia "chi tocca la tv muore". E del resto, dopo che Colaninno fu estromesso da Telecom, il nuovo padrone Tronchetti Provera non fu convinto a strangolare La7 nella culla?
Ma torniamo al presente: non è imbarazzante che il presidente del Consiglio, i suoi familiari e cinque membri del suo governo abbiano ricevuto da Fiorani finanziamenti per almeno 68 milioni di euro? Non saranno “consulenze”, come i 60 milioni di Giovanni Consorte e Ivano Sacchetti, ma sono sempre soldi che sarebbe meglio spiegare: quasi 65 milioni arrivati direttamente a Silvio Berlusconi e famiglia, sotto forma di finanziamenti a Forza Italia, alla società Medusa, al Milan, al Foglio di Giuliano Ferrara (4,5 milioni di euro) e al fratello Paolo (30 milioni per pagare la supermulta record con cui è uscito dal processo per la discarica di Cerro); oltre 2 milioni di euro a Pietro Lunardi e alle sue società di famiglia (Rocksoil, Stone, Inteco, TreEsse...); una cifra non ancora precisata, ma attorno ai 400 mila euro, al sottosegretario per le Riforme Aldo Brancher, di Forza Italia, e alla sua compagna; poi 200 mila a "zio Romi", come Stefano Ricucci chiamava il senatore Romano Comincioli; 200 mila al coordinatore di Forza Italia in Lombardia Paolo Romani; e 250 a Luigi Grillo, senatore forzista e capo della lobby fazista; poi ancora 300 mila euro a Ivo Tarolli, fazista targato Udc; e, per finire, 13 mila euro al ministro leghista Roberto Calderoli.
Ultima domanda: come mai oggi Unipol per Berlusconi è come il demonio, ma quando ha deciso di assicurare i suoi dipendenti Mediaset, pur avendo in casa Mediolanum, ha scelto proprio polizze Unipol?

A Giulio Tremonti.
Non si può non riconoscere il ruolo giocato dal ministro dell’Economia nell’opposizione al governatore di Bankitalia Antonio Fazio, gran protettore dei Furbetti. Tremonti è stato il grande nemico di Fazio dopo i crac Cirio e Parmalat. Ma proprio per questo, come non chiedergli come spiega il fatto di essere stato tirato per i capelli nel sostegno della scalata Bnl?
È Giovanni Consorte a tirarlo in ballo, in una telefonata del 21 luglio 2005, quando ormai è sicuro di avere la Bnl in tasca. Il numero uno di Unipol chiama Claudio Zulli, commercialista associato allo studio Tremonti, a cui ha chiesto una consulenza. Tremonti, dice Zulli, è a conoscenza dell’operazione e "si è mosso e ha seguito questa vicenda con molta ammirazione", anzi, ha addirittura "fatto il tifo". Consorte gli è grato: "Tu sai che il governo ci ha dato una mano e sai come ragiono io, la riconoscenza va data al punto giusto". Nell’appunto della guardia di finanza, lungo due pagine, si legge tra l’altro che "Consorte dice che la settimana successiva andrà a Milano e gli chiede di mettersi d’accordo per incontrare il professor Tremonti per ringraziarlo e spiegargli due o tre cosette". Consorte poi chiede a Zulli "che cosa il professore avesse detto della loro operazione". Il commercialista risponde che il professore "gli ha tirato la giacca dicendo: prendiamo qualcosa". Giura che Tremonti "è contento".
Consorte dice che si sentiranno il giorno dopo per fissare l’appuntamento, ma precisa di volerlo incontrare "come professore, non come ministro". E poi aggiunge: "Gli devo spiegare un po’ di roba perché mi deve dare una mano, ma su cose importanti". Zulli chiede a Consorte che, a operazione conclusa, "il professore dia l’imprimatur e poi lui stesso si potrebbe occupare della parte operativa". Consorte acconsente e dice: "Tu sai che il governo ci ha dato una mano e sai come ragiono io, la riconoscenza va data al punto giusto"... Il commercialista "dice che il professore si è mosso e ha seguito questa vicenda con molta ammirazione. Consorte risponde che il professore faceva il tifo per loro e Zulli conferma". Poi aggiunge: "Se comunque avevano suonato il campanello anche gli spagnoli, li aveva maltrattati".
Consorte concorda: "Bisogna che sia chiaro, gli spagnoli avevano deciso di vuotarla, la banca. Il buon Tremonti è uno che capisce, non è mica cretino...". A questo punto il presidente di Unipol dice di voler raccontare a Tremonti come è nata l’operazione. I due scherzano: "Tremonti capisce tutto". E poi Zulli dice: "l’importante è che ci siano i ricavi". Consorte risponde che con loro i ricavi ci sono: "È con Gnutti che dovrò intervenire pesantemente". Zulli afferma che anche su "quell’altra roba è stato fatto un gran lavoro": "probabilmente si riferiscono ad Antonveneta", conclude il brogliaccio.
Dunque: il governo (Berlusconi) ha dato una mano alle scalate e a Unipol, dice Consorte, e Tremonti (anche lui!) "ha fatto il tifo": e "tu sai come ragiono io, la riconoscenza va data al punto giusto". Qual è il "punto giusto"?

A Piero Fassino.
Il segretario dei Ds si lancia, tra la primavera e l’estate 2005, in una incomprensibile serie di interviste e interventi in cui difende la scalata di Consorte a Bnl e si sbilancia in ragionamenti avventati sulla "pari dignità" tra chi fa soldi scambiando immobili e chi produce valore per il paese. Perché avventurarsi su questi terreni poco conosciuti dal segretario dei Ds? Perché buttare il peso del partito in una vicenda aperta e piena d’incognite?
Una parte importante, dentro la stessa area Ds, ha subito espresso dubbi e contrarietà alle operazioni in corso: uomini di partito con esperienza nelle faccende finanziarie come Franco Bassanini e Giuliano Amato; politici provenienti dalla storia delle cooperative come Lanfranco Turci; leader coop come Turiddo Campaini e Silvano Ambrosetti; sindacalisti come Guglielmo Epifani e Domenico Moccia. Un no deciso lo hanno detto anche quelli del Monte dei Paschi di Siena, che di esperienza nelle banche ne hanno (dal 1472!). Perché Fassino, pur messo in guardia, non ha mai avuto un dubbio e si è messo in mezzo in una vicenda che mostra oltretutto di non conoscere "nei dettagli"? Perché non è stato più prudente?
Quando poi Consorte, a cose (quasi) fatte, gli ha spiegato di aver messo insieme il 51 per cento di Bnl prima dell’opa, perché non gli ha ribattuto: ma non è contro le regole concertare una maggioranza sottobanco, prima di lanciare una regolare offerta pubblica d’acquisto, uguale per tutti gli azionisti, grandi e piccoli?

A Massimo D’Alema.
Perché sostenere a spada tratta la scalata di Consorte e soci, discutibile e discussa e criticata anche dentro l’area Ds? Perché spendere tante parole, tra la primavera e l’estate 2005, per sostenere le imprese di uomini come Fiorani e Gnutti? Perché poi sostenere addirittura i nuovi immobiliaristi della “razza mattona”, gente come Stefano Ricucci, Danilo Coppola, Giuseppe Statuto, dai capitali ignoti e dalle origini incerte?
Ma le scalate del 2005 hanno la loro radice in quella del 1999: la madre di tutte le opa, l’assalto a Telecom della “rude razza padana” con la quale, per D’Alema, fu subito colpo di fulmine. È lì che ha origine la "consulenza" di Consorte, qualunque cosa sia.
Per questo è ancor più importante capire oggi che cosa successe allora. Quando Colaninno andò dal presidente del Consiglio Massimo D’Alema, accompagnato da Pierluigi Bersani, ad annunciargli la scalata Telecom? Fu prima del Natale 1998, come scrisse Enrico Cisnetto in un libro che non spiacque a D’Alema, tanto che alla sua uscita lo presentò alla stampa insieme all’autore (Il gioco dell’opa, Sperling & Kupfer, 2000)? O fu due giorni prima del lancio dell’opa, come racconta oggi Colaninno nel suo libro (Primo tempo, Rizzoli, 2006)? L’alternativa è cruciale: perché è nel periodo tra il Natale 1998 e il febbraio 1999 che deve aver operato, se ha operato, chi, entrato a Palazzo Chigi, doveva “togliersi le pezze al culo”. Certo è che il primo giorno utile dopo le feste, il 7 gennaio 1999, Gianni Consorte entrò nella partita, acquistò una quota poi lievitata fino al 6 per cento della società lussemburghese Bell e si accomodò così al tavolo degli scalatori di Telecom, a fianco della “rude razza padana”.
Il 10 aprile successivo andò in scena l’ultimo tentativo di fermare gli scalatori, con l’assemblea straordinaria di Telecom a Torino. Il tentativo fallì, perché l’assemblea non raggiunse il quorum del 30 per cento del capitale. D’Alema ripete che il suo governo fu neutrale. Ma importante, se non determinante, fu l’assenza di un azionista pesante come il ministero del Tesoro. Mario Draghi, allora direttore generale del Tesoro, fu obbligato a non partecipare dal presidente del Consiglio. Pretese un ordine scritto, una lettera d’indirizzo, che D’Alema inviò. E che poi sparì.
Dov’è finita quella lettera? E dov’è finita la neutralità del governo D’Alema?

(Micromega, 21 febbraio 2006)

 

 
 
 

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