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Sistema Calabria
La vera storia delle indagini di Luigi De Magistris
A partire dal 2004 la Calabria appare ripetutamente al centro di inchieste che incrociano criminalità organizzata e politica, corruzione e aggressivi comitati d'affari bipartisan. Il culmine delle polemiche arriva nell'autunno del 2007, quando la procura della Repubblica di Catanzaro iscrive nel registro degli indagati prima il presidente del Consiglio Romano Prodi, poi il ministro della Giustizia Clemente Mastella. Seguono polemiche, ispezioni ministeriali, duri scontri, finché l'indagine viene strappata al pm che la conduce, Luigi De Magistris.
Poseidone, il dio del mare (sporco)
Giovane magistrato napoletano in servizio alla procura di Catanzaro, De Magistris aveva iniziato nell'estate 2004 una lunga indagine destinata a diventare clamorosa. Di turno estivo in procura, gli erano arrivati sulla scrivania alcuni esposti e alcune proteste di turisti che si lamentavano dei mari calabresi. Nella regione si sono spesi in dieci anni oltre 800 milioni di euro per i depuratori, e addirittura dal 1997 c'è un commissario straordinario per l'emergenza ambientale. Eppure le acque continuano a essere sporche e pericolose per la salute di chi si tuffa dalle coste calabresi, tanto che il presidente della Regione, Agazio Loiero, ha dovuto perfino scusarsi pubblicamente con i turisti, peraltro diminuiti non poco negli ultimi anni.
All'inizio del 2005 anche la Corte dei conti, sezione di Catanzaro, evidenzia irregolarità nella gestione dei fondi impiegati per i depuratori. Appalti allegri, lavori mai finiti, collaudi mai fatti. De Magistris avvia la sua inchiesta, che viene chiamata Poseidone, come il dio greco dei mari. Quello che scopre è un sistema complesso in cui la politica si fa impresa per gestire i soldi pubblici stanziati dall'Unione europea o erogati dalla Regione e dallo Stato.
Gli investigatori mettono sotto osservazione una grossa impresa del nord cara a Pino Galati, Udc, in quel momento sottosegretario alle Attività produttive nel governo Berlusconi: la Pianimpianti di Milano che, assieme ad altri colossi del riciclaggio rifiuti, ha vinto un appalto da 220 milioni di euro. Il vicepresidente è l'ex parlamentare parmigiano Franco Bonferroni, un ex sottosegretario democristiano amico di Pier Ferdinando Casini e di Romano Prodi, che nel 1993 vide la sua carriera politica stroncata da una brutta storia di tangenti. A quell'epoca lui e l'attuale segretario dell'Udc, Lorenzo Cesa, ammisero, nell'ambito della stessa inchiesta, di aver incassato mazzette, ma dopo una condanna in primo grado, riuscirono a uscire puliti dal processo grazie a un cavillo procedurale.
Bonferroni, il cui nome figurava in un elenco di massoni agli atti della commissione P2 (ma lui ha sempre smentito l'affiliazione), nella Pianimpianti è comunque solo il numero due. Numero uno è invece un giovane di Lamezia Terme, Roberto Mercuri, che parla spesso con Galati al telefono. Mercuri è al centro di una rete di relazioni di cui fanno parte anche l'ex magistrato Giuseppe Chiaravalloti, di Forza Italia, fino all'aprile 2005 presidente della Regione Calabria, e Annunziato Scordo, commercialista di Chiaravalloti e marito di Giovanna Raffaelli, la potente segretaria di Chiaravalloti. In competizione con questo gruppo politico-imprenditoriale vicino a Forza Italia e all'Udc opera, secondo De Magistris, una seconda cordata, targata An, di cui fa parte Giovambattista Papello, già consigliere d'amministrazione dell'Anas e già responsabile unico per l'emergenza ambientale in Calabria, uomo molto vicino a Maurizio Gasparri e a Ugo Martinat, fino al 2006 viceministro del governo Berlusconi.
Davanti a De Magistris un testimone, titolare di un'impresa specializzata nella costruzione di depuratori, accusa:
Non mi hanno mai invitato alle gare e ho lavorato solo in subappalto perché sono fuori dal giro. Tutto ruota intorno ai rapporti tra imprenditori e politici. Quando si trattava di effettuare i conti con le società che mi affidavano i lavori mi facevano capire che avevano delle "altre spese" ammontanti a circa il 4 per cento.
"Altre spese": ovvero presunte tangenti che secondo il testimone erano destinate agli uomini di partito che sponsorizzano le varie aziende. Antonio Naso, un altro imprenditore escluso dalla torta calabrese, parla di un sistema che prevedeva mazzette oscillanti tra il 3 e il 7 per cento, mascherate con fatture inesistenti, in parte destinate alle segreterie nazionali dei partiti. Naso dice:
Le cordate sono due: quella facente capo all'allora ministro Gasparri di An, che aveva come referente Papello, e quella che aveva come riferimento Fabio Schettini (già responsabile dei club di Forza Italia a Roma, nda ), legato all'allora ministro Frattini di Forza Italia. Mio cugino ha lavorato nel cosentino per un capannone della società di Schettini e Papello e mi ha riferito che non volevano pagarlo promettendogli in cambio commesse nel settore delle acque.
Lunedì 16 maggio 2005, De Magistris fa perquisire dai carabinieri case e uffici di una dozzina di personaggi eccellenti, tra cui l'ex presidente Chiaravalloti, l'ex assessore regionale all'Ambiente Antonio Basile e l'ex direttore generale all'Ambiente, prefetto Giuseppe Mazzitello. Per le perquisizioni, il magistrato aspetta che sia passato il periodo elettorale, per non rischiare di condizionarne l'esito: le elezioni regionali si sono tenute in aprile, con la vittoria del centrosinistra guidato da Agazio Loiero, che prende il posto di Chiaravalloti alla guida della Regione. Le perquisizioni, però, non portano alla scoperta di nuovi elementi utili alle indagini. Gli investigatori cominciano così a pensare che gli indagati siano stati informati da una "talpa".
Solo uno dei perquisiti è colto davvero di sorpresa: Giovanbattista Papello che in quel momento è in viaggio negli Stati Uniti. Nella sua sua abitazione romana i carabinieri scoprono oggetti di valore, i documenti di trasporto di una partita di diamanti e libretti d'assegni di molti conti italiani ed esteri, uno dei quali intestato al partito Alleanza nazionale; poi un grembiulino massonico e un biglietto da visita (con numeri di telefono riservati aggiunti a mano) del generale della Guardia di finanza Walter Cretella Lombardo, comandante del Secondo reparto, ossia il servizio segreto interno delle Fiamme gialle; infine alcuni dossier, con trascrizioni intercettazioni telefoniche (illegali o inventate?) di conversazioni avvenute nel novembre 2004 tra il presidente dell'Anas Vincenzo Pozzi e il segretario dei Ds Piero Fassino.
Il giorno dopo la perquisizione, martedì 17 maggio 2005, a Milano un uomo si presenta nella sede di via Verdi della Banca popolare di Brescia. Chiede di accedere a una cassetta di sicurezza. La svuota. Stranamente, quella mattina la telecamera della banca non funziona. Ma le indagini appureranno che quell'uomo è Cesare Mercuri, fratello dell'amministratore delegato della Pianimpianti. Viene fermato la sera stessa alla frontiera, mentre, in treno, sta tentando di raggiungere il Lussemburgo. I militari della Guardia di Finanza di Domodossola trovano nel suo borsone, sotto camicie e magliette, una montagna di biglietti da 500 euro, per un totale di 3 milioni e 354 mila euro. Sono i soldi che erano stati depositati il 6 maggio nella cassetta di sicurezza della banca di via Verdi da Roberto Mercuri ed erano poi stati prelevati quel 17 maggio dal fratello Cesare.
A questo punto si aprono due gialli. Il primo: come mai le perquisizioni ordinate da De Magistris nei confronti del gruppo che faceva riferimento ad An sono state inutili (con l'eccezione di Papello)? C'è davvero una "talpa" e, se c'è, chi è? Il secondo: come mai la Guardia di finanza, in un controllo presentato come casuale, è andata a colpo sicuro a sequestrare i soldi di Mercuri, del gruppo che faceva riferimento a Udc-Forza Italia?
Intanto De Magistris batte la pista dei soldi. E quando trova traccia di un versamento di 100 mila euro arrivato sui conti di Fabio Schettini, in quel momento segretario del commissario europeo Franco Frattini (Forza Italia), va a controllare chi lo ha effettuato. Con sorpresa scopre che a disporre il bonifico è stato Gianfranco Pittelli, un avvocato e senatore di Forza Italia, in passato vicino alla massoneria, che assiste quasi tutti gli indagati. Anche per Pittelli scatta l'avviso di garanzia, ma a quel punto interviene il procuratore della Repubblica di Catanzaro Mariano Lombardi, che accusa De Magistris di gravi violazioni procedurali e il 29 marzo 2007 gli sottrae l'indagine Poseidone.
Il procuratore, mentre annuncia di aver tolto l'inchiesta a De Magistris, è però costretto a dichiarare che se ne spoglia egli stesso per i suoi rapporti con Pittelli. Lombardi infatti non è solo amico dell'avvocato-senatore, ma il suo figliastro è addirittura socio di Pittelli in un'immobiliare, la Roma 9 srl.
Una talpa in procura?
La situazione è esplosiva. Da una parte c'è De Magistris. Dall'altra ci sono tutti gli altri: gli imprenditori indagati, i politici, gli avvocati che, forti di una serie di sentenze del Tribunale del riesame di Catanzaro a loro favorevoli, lo accusano di stare sollevando un enorme e inutile polverone. Secondo loro se i giudici del Riesame tante volte hanno cassato il suo lavoro, annullando i decreti di perquisizione, vuol dire che De Magistris si sta muovendo al di fuori della legge. In realtà le cose non sono così semplici. Anche perché la Cassazione ha a sua volta bocciato un paio di volte i provvedimenti del Riesame, con parole durissime: «Il giudice del Riesame ha violato la legge processuale» e ha fatto addirittura da «ostacolo all'acquisizione di atti, documenti o altri elementi di prova». Lo spiega a Carlo Vulpio, sul Correre della Sera , Piercamillo Davigo, l'ex dottor sottile del pool milanese di Mani Pulite, nel frattempo diventato giudice della Corte di Cassazione, dove si è occupato della perquisizione contro l'ex presidente della Regione, Chiaravalloti:
Piercamillo Davigo, ex pm del pool Mani pulite e oggi giudice della Suprema Corte, è stato relatore in Cassazione proprio su questo provvedimento, bocciato per due volte dal Tribunale del riesame di Catanzaro e per due volte accolto dalla Cassazione, con una sentenza molto dura nei confronti dello stesso Riesame.
«Non conosco il secondo provvedimento della Cassazione -- dice Davigo --, ma ricordo bene il primo. E francamente mi sorprende che la questione sia tornata in Cassazione per la seconda volta dopo un annullamento piuttosto netto della decisione del Riesame da parte della Suprema corte».
Perché la sorprende?
«Beh, due bocciature del Riesame sono due bocciature. Accade raramente. Soprattutto se, com'è successo in quel caso, con il primo annullamento gli atti sono stati rinviati al Riesame. Il giudice del rinvio non deve fare gli stessi errori che hanno portato al primo annullamento».
Cosa diceva il Riesame di Catanzaro sul provvedimento del pm de Magistris?
«Lo tacciava di genericità. Io invece ricordo che quel provvedimento non era per nulla generico. Anzi, poneva due questioni molto interessanti. La prima, sui limiti della specificità delle cose sequestrate. La seconda, sul sequestro d'iniziativa della polizia giudiziaria».
Diciamolo con un esempio.
«Se con la perquisizione si cercano armi e invece si trova droga, non si può ricorrere al Riesame perché, appunto, si è trovata la droga e non le armi. Non solo. Se la "polvere" rinvenuta non è droga, il Riesame non può nemmeno spingersi a fare l'analisi chimica per stabilire se è droga o no».
Insomma, il Riesame non può entrare nel merito, com'è accaduto per quel provvedimento del pm di Catanzaro?
«Certo che no. Il Riesame non può fare il processo al processo. È giurisprudenza costante della Cassazione».
L'impressione è che contro De Magistris si sia compattato un fronte politico-giudiziario vastissimo. Il pm è andato infatti a toccare interessi consistenti, spesso sfiorando anche importanti magistrati calabresi o i loro famigliari. Un troncone dell'indagine, come vedremo, riguarda per esempio una serie di assunzioni su raccomandazione da parte di imprenditori che, secondo l'accusa, ricevono fondi pubblici grazie ai loro agganci politici. Uno di questi è Antonio Saladino, un ex veterinario legato alla Compagnia delle Opere, diventato con gli anni ricchissimo. Una delle sue società di lavoro interinale riceve commesse milionarie dalla Regione, occupa 500 persone e ne distacca ben 146 nelle segreterie di partito e negli assessorati. Secondo un testimone, però, tra chi ha segnalato a Saladino le persone da assumere non ci sarebbero solo politici di tutti gli schieramenti, ma anche anche il procuratore aggiunto di Catanzaro Salvatore Murone, mentre il presidente del Tribunale del riesame, Adalgisa Rinaldo, avrebbe un figlio e una nuora che hanno lavorato in società riconducibili all'ex veterinario.
Da questo punto di vista De Magistris appare dunque accerchiato. E la sensazione è avvalorata anche dal contenuto delle intercettazioni di Chiaravalloti, diventato nel frattempo vicepresidente dell'Ufficio del Garante per la privacy. Chiaravalloti al telefono non fa mai il nome di De Magistris. Lo chiama "lui", "il poverino", "il pagliaccio". È sempre ben informato sulle mosse del magistrato e sulle scadenze giudiziarie: «Oggi scade per lui il termine per chiedere la proroga...». A volte si lascia andare: «Questa gliela facciamo pagare». Oppure: «Lo dobbiamo ammazzare. No, gli facciamo cause civili per risarcimento danni e ne affidiamo la gestione alla camorra napoletana... Quello che voglio non sono i soldi!». La segretaria, temendo di essere intercettata, cerca di frenare l'ex presidente: «Ma non dirlo neanche per scherzo, per carità di Dio! Mettiti nei panni di chi è costretto ad ascoltarci...». E Chiaravalloti: «Poverino, è bene che sappia queste cose, la cosa bella è che abbiamo detto tutto alla luce del sole... Saprà con chi ha a che fare, mi auguro che qualcuno ascolti e glielo vada a riferire... C'è quel principio, quella sorta di principio di Archimede: ad ogni azione corrisponde una reazione... Siamo così tanti ad avere subito l'azione che, quando esploderà la reazione, sarà adeguata!».
«Questa gliela facciamo pagare: vedrai, passerà gli anni suoi a difendersi». Questa promessa è fatta da Chiaravalloti nel novembre 2005. Sarà mantenuta: il giovane magistrato finisce duramente attaccato sia dalla magistratura sia dalla politica. Si moltiplicano le interpellanze parlamentari contro di lui, cominciano le ispezioni ministeriali. Le interpellanze sono 17 in 23 mesi. Diventeranno un centinaio in un paio d'anni. La prima, nel luglio 2005 (due mesi dopo le perquisizioni eccellenti ordinate da De Magistris), è del senatore Ettore Bucciero (An), che con un testo inusuale per la sua lunghezza chiede conto dell'intera carriera del pm. Bucciero insiste con altre interrogazioni a settembre e poi a ottobre. In seguito arriva un'interrogazione firmata da ben 39 senatori (di Forza Italia, An, Udc, Lega). Poi tre senatori di An spulciano la vita privata del magistrato e chiedono conto dei rapporti di lavoro della famiglia De Magistris. A marzo 2006 il deputato Basilio Germanà (Forza Italia) chiede che al pm sia tolta l'inchiesta Poseidone. Infine un'ennesima interrogazione viene firmata da ben 48 parlamentari.
Intanto, spinte dalla pressione della politica, erano partite le ispezioni. La prima, nel 2005, è disposta dal ministro Roberto Castelli durante il governo Berlusconi. L'ultima, nel 2007, da Mastella sotto il governo Prodi. De Magistris praticamente lavora per tre anni con gli ispettori ministeriali accanto. Nell'ottobre 2007, chiamato davanti al Csm a difendersi dall'accusa di aver compiuto scorrettezze procedurali, giustifica i suoi comportamenti. Sostiene di aver sempre informato dei suoi atti il procuratore capo. Ma spiega anche di aver raccolto elementi secondo cui le "talpe" che danneggiavano le sue inchieste erano proprio dentro il palazzo di giustizia. E sulla base delle intercettazioni telefoniche e dell'esame dei tabulati del cellulare di Pittelli afferma che uno degli autori delle soffiate potrebbe essere proprio il procuratore Mariano Lombardi.
Per questo De Magistris ha inviato una serie di atti, tra cui un voluminoso rapporto del suo consulente Gioacchino Genchi, alla procura di Salerno, competente sui magistrati di Catanzaro, e davanti a loro ha ricordato di avere avvertito Lombardi il 10 maggio delle perquisizioni che intendeva ordinare contro Chiaravalloti & C, spigandogli che sarebbero scattate il 18. All'ultimo momento però aveva deciso di anticipare il blitz di due giorni. Ebbene: tra il 10 e il 18 maggio Lombardi e Pittelli, che sarà nominato difensore da buona parte degli indagati, hanno molte conversazioni telefoniche. Nessuno ne conosce il contenuto, visto che non sono state intercettate. Il 17 maggio è stata però registrata una chiacchierata tra Pittelli e suo cugino, Benedetto Arcuri, nella quale si parla dell'indagine. Pittelli dice: «O hanno tanto materiale da fare spavento, tipo intercettazioni o [...] danaro, oppure fanno una figura allucinante». Arcuri replica: «Il capo di tutti lo prevedeva che poteva esserci questo». «Chi?». «Il capo», continua Arcuri, «quello che ha parlato con te, che era venuto da te, il capo!». Parlano forse del capo della procura, Mariano Lombardi? Alla luce del contenuto di altre intercettazioni, De Magistris si è convinto che è così.
Amaro lucano
De Magistris, privato dell'indagine Poseidone, prosegue le altre inchieste che ha avviato, sulla sanità calabrese, sull'informatizzazione, sullo sperpero dei finanziamenti dell'Unione europea, oltre che su alcune cosche mafiose locali. Indaga anche fuori dai confini della regione sui comportamenti di alcuni magistrati di Potenza (per cui è competente proprio Catanzaro). È l'indagine chiamata "Toghe lucane": sulle attività, secondo l'ipotesi d'accusa, di un altro comitato d'affari, che opererebbe questa volta nella defilata Basilicata. Con la copertura, secondo l'ipotesi d'accusa, dei magistrati locali: a Potenza, il procuratore generale Vincenzo Tufano, il procuratore della Repubblica Giuseppe Galante e il pubblico ministero Felicia Genovese; a Matera, il procuratore della Repubblica Giuseppe Chieco, il presidente del Tribunale, Iside Granese, e il giudice Rosa Bia. Tutti indagati da De Magistris insieme a quello che ritiene essere il gruppo - anche questo bipartisan - che decide la sanità e gli affari in Basilicata e che va da Emilio Buccico, senatore di An e sindaco di Matera, a Filippo Bubbico, leader dei Ds lucani e sottosegretario allo Sviluppo economico del governo Prodi. Mentre si scontra con i suoi superiori di Catanzaro, De Magistris si trova così impegnato su un secondo fronte, assai simile a quello calabrese. E presto ha modo di accorgersi che i due fronti sono in qualche modo legati tra loro.
Figura centrale dell'indagine "Toghe lucane" è Felicia Genovese, un magistrato sposato a Michele Cannizzaro, medico massone iscritto alla Margherita. Il procuratore generale di Potenza è sempre stato molto rigoroso con il pm Henry John Woodcock, a cui ha chiesto spiegazioni a raffica sulle inchieste da lui avviate. Felicia Genovese ha avuto vita più facile, malgrado le stranezze che potrebbero essere riscontrate nelle sue indagini. Il marito, per esempio, è stato nominato direttore generale del più importante ospedale locale da un gruppo di politici che la pm aveva sotto inchiesta, e la sua nomina è avvenuta proprio dopo che Genovese aveva chiesto l'archiviazione (poi respinta dal gip???) delle loro posizioni. Cannizzaro riceve (per motivi professionali) uomini della 'ndragheta nella casa dove abita con la moglie pm. E viene poi accusato (senza fondamento, si appurerà) del duplice omicidio dei coniugi Gianfredi-Santarsiero, caso seguito dalla moglie, che si guarda bene dall'astenersi dalle indagini.
Con l'indagine "Toghe lucane", De Magistris finisce ancora una volta per pestare i piedi non solo ai politici, ma anche a magistrati. E anche qui la reazione non si fa attendere. Mentre cerca di far luce sul presunto comitato d'affari lucano, la procura di Matera intercetta le sue telefonate con Pasquale Zacheo, il capitano dei carabinieri che conduce le indagini a Potenza per conto di De Magistris. Il motivo dell'ascolto: una serie di querele per diffamazione intentate dal senatore Buccico (indagato da De Magistris) contro alcuni giornalisti di testate locali e nazionali. Per questo reato il codice non consente le intercettazioni, ma la procura di Matera contesta ai cronisti un'inedita associazione a delinquere finalizzata alla diffamazione. Così, utilizzando il grimaldello del reato associativo, mette sotto controllo i loro telefoni e poi fa lo stesso con il capitano Zacheo, considerato una delle loro tante fonti.
Nessuno prima d'ora aveva mai contestato un reato del genere, anche perché è difficile ipotizzare che cinque giornalisti (tra cui un inviato del Corriere della Sera e uno di Chi l'ha visto? ) complottino assieme a un ufficiale dei carabinieri per diffamare qualcuno. L'attività dei giornalisti, più che associazione a delinquere, si chiama diritto di cronaca. Ma tant'è. Buccico, del resto, è un uomo potente. È un avvocato di grido, è stato membro laico del Csm in quota Alleanza Nazionale e nella sua carriera ha stretto rapporti con decine di magistrati.
Non per niente, in suo rapporto, proprio il capitano Zacheo scrive: «Alcuni esponenti politici si stanno positivamente adoperando affinché le indagini siano assegnate al procuratore aggiunto di Catanzaro, il dottor Salvatore Murone». Poi aggiunge: «La pm Felicia Genovese, durante un colloquio nel suo ufficio, mi riferì di aver conosciuto Murone, in quanto presentatole da Buccico». Murone, quindi, conoscerebbe bene il senatore indagato. Ma c'è di più. Il «senatore Buccico, alludendo alla sua attività, quale membro laico del Csm, avrebbe confidato alla Genovese che il giudice Murone sarebbe una sua creatura».
Zacheo però non avrà il tempo di concludere la sua indagine sulle "Toghe lucane". La procura di Matera, dove Buccico è diventato sindaco, lo perquisisce insieme ai giornalisti che seguivano l'inchiesta e a fine ottobre 2007 il comando generale dell'Arma dei Carabineri ordina il suo trasferimento. De Magistris viene lasciato solo, nell'unica indagine che, come vedremo, non gli verrà sfilata.
Cesa, io c'entro
Mettendo insieme i pezzi del puzzle delle indagini di De Magistris, appare dunque chiara la trama di comitati d'affari in cui la destra spesso si mescola con la sinistra. Quello dei depuratori delle acque è solo uno dei business analizzati dal magistrato, un business che ha già bruciato oltre 800 milioni di euro. Poi ci sono gli altri sperperi. Le altre truffe. Una di queste, secondo De Magistris, riguarda Lorenzo Cesa, dal 2006 segretario dell'Udc, che risulta in affari con Schettini e Papello. Nel marzo 2006 De Magistris iscrive Cesa sul registro degli indagati, in compagnia di un folto gruppo di militari, industriali e parlamentari, tra cui il potente generale Cretella Lombardo.
Cinquantacinque anni, originario di Arcinazzo Romano, Cesa aveva mosso i primi passi nei movimenti giovanili della Democrazia cristiana dove si era legato a Pierferdinando Casini. Nel 1993, quando era ancora un semplice consigliere comunale a Roma, era stato arrestato dopo un paio di giorni di latitanza perché accusato di essere uno dei cassieri del ministro dei Lavori pubblici Gianni Prandini. In carcere aveva confessato: davvero molti imprenditori impegnati nei lavori pubblici dell'Anas gli avevano consegnato mazzette poi girate al ministro. Per questo, nel 2001, Cesa era stato condannato in primo grado a 3 anni e 3 mesi di reclusione per corruzione aggravata. L'anno seguente però la Corte d'Appello aveva annullato la sentenza per una questione procedurale (il pm del processo aveva svolto anche le funzione di gup) e il gip, dopo aver dichiarato gli atti "inutilizzabili", aveva stabilito il non luogo a procedere. In tutto questo periodo Cesa non era però rimasto con le mani in mano. Già nel 1994 aveva aderito al Ccd di Casini e Mastella e poi all'Udc e si era dato da fare anche in consistenti attività imprenditoriali, a Roma e in Calabria.
In Calabria, secondo le indagini di De Magistris, Cesa ha succhiato consistenti finanziamenti europei, con il sistema del sostegno pubblico alle imprese. Diventa socio di una azienda, la Digitaleco Optical disk, che avrebbe dovuto produrre dvd e che ha incassato dall'Europa almeno 5 miliardi di lire senza però produrre neppure un bottone. La società era gestita da Giovanbattista Papello (An) e Fabio Schettini (Forza Italia), mentre Cesa aveva una piccola partecipazione. Quando i tre la vendono, l'imprenditore che la rileva resta di stucco: la fabbrica era ancora in fase di costruzione, non aveva neppure il tetto, eppure aveva già superato il collaudo. Quanto ai macchinari, pagati con i soldi dell'Unione europea, erano ancora imballati, in un angolo. Per questo il segretario dell'Udc finirà indagato anche dall'Olaf, l'Ufficio antifrode europeo che si occuperà di lui anche in qualità di ex europarlamentare e membro della commissione di controllo sul Bilancio, proprio quella che aveva competenza sulle truffe alla Ue.
Ma Cesa è una vera e propria macchina da soldi. De Magistris se ne rende conto quando s'imbatte in una sua società di Roma, la Global Media, che fattura quasi 7 milioni di euro l'anno organizzando eventi per società pubbliche molto disponibili come Anas, Enel, Finmeccanica, Lottomatica, Alitalia. Nelle casse della Global Media entrano, dal gennaio 2001 al 31 dicembre 2006, ben 30 milioni e mezzo di euro. A sorpresa, il primo cliente, quello che ha pagato di più, è proprio il partito: l'Udc e il suo "progenitore", il Ccd, sborsano complessivamente 3 milioni e 200 mila. Segue l'Enel con 3 milioni e 160 mila euro; Lottomatica con 3 milioni e 100 mila euro. Poi c'è il gruppo Finmeccanica che ha versato 2 milioni e 700 mila euro. In quinta posizione arriva finalmente una società privata: Grey Worldwide con due milioni di euro. Poi la Sogei, la società informatica del ministero delle Finanze, con 1 milione e 900 mila euro. E poi ancora: la società calabrese Intersiel con 1 milione e 600mila euro, Wind con 1 milione e 180 mila euro, Fincantieri con 700 mila euro. Anche la Pianimpianti degli amici Mercuri e Bonferroni versa alla società di Cesa 360 mila euro.
Non sfuggono alcune considerazioni sulla natura dei clienti: l'Enel è presieduta da Piero Gnudi, vicino all'Udc. Nel consiglio Finmeccanica siede Franco Bonferroni, il vecchio democristiano, già coimputato di Cesa nel processo per le mazzette Anas. Il presidente di Lottomatica era Marco Staderini, uomo dell'Udc, mentre responsabile delle relazioni esterne era la ex moglie di Pierferdinando Casini, Roberta Lubich. Anche Sogei, Fincantieri e Wind sono società pubbliche o sottoposte all'influenza della politica e c'è da chiedersi che fine farebbe Global Media senza questi grandi clienti.
La procura di Catanzaro esamina con attenzione anche l'elenco dei fornitori. A partire dalla Fidanzia Sistemi, una società pugliese che ha incassato 1 milione e 350 mila euro da Global Media e poi ha finanziato (per un importo inferiore) la campagna elettorale di del futuro segretario dell'Udc. C'è anche una società straniera alla quale sono andati 250 mila euro, con sede a Madeira. Per questo i periti incaricati di esaminare i bilanci della Global Media sospettano che la società sia il «polmone finaziario dell'Udc». Certo è che, visto il tipo di prestazioni fornite, per lo più servizi difficilmente quantificabili, è quasi impossibile stabilire se le prestazioni siano congrue rispetto a quanto incassato per ogni singolo contratto.
E non è tutto. Perché la Global Media ha ricevuto pure finanziamenti europei (s'ipotizza una cifra attorno ai 300 mila euro) per organizzare convegni e iniziative per gli italiani all'estero. I fondi, stando agli investigatori, passavano attraverso un'agenzia Onu (la Cif Oil), erano giustificati con fatture gonfiate e la differenza tra quanto ricevuto e quanto effettivamente speso veniva poi incamerata da Cesa, che la usava per sostenere il partito. A spiegare questo meccanismo ai magistrati è nientemeno che Francesco Campanella, il giovane massone siciliano dirigente dell'Udc (e poi segretario nazionale dei giovani dell'Udeur di Mastella) che ha fornito a Bernardo Provenzano il documento d'identità che ha permesso al boss di andare a operarsi in Francia. Campanella, nel 2003, reincontra a Roma un vecchio amico, un altro massone: Giovanni Randazzo, il mandatario elettorale (in pratica il tesoriere) di Cesa nella campagna elettorale per le europee del 2004. Rispetto all'ultima volta in cui si sono visti, Randazzo è un'altra persona: Mercedes, begli abiti, casa e ufficio a Largo Chigi, vacanze a Vulcano e gommone da 20 metri. «Giovanni che hai fatto?», chiede Campanella. Il vecchio amico gli risponde, svelando il nome del suo re Mida: «Lorenzo Cesa mi ha inserito in un sacco di affari. Vuoi diventare il mio uomo in Sicilia?». Campanella accetta: «Randazzo mi disse che Cesa era la mente finanziaria dell'Udc, il factotum, colui che riempiva le casse attraverso questo sistema, che è il sistema di finanziamento dell'Udc».
Anche Campanella entra così nel "sistema". Si occupa del Pptie, cioè Programma di partnerariato territoriale per gli italiani all'estero. Il Fondo sociale europeo aveva stanziato 8 milioni di euro destinati al ministero degli Esteri per agevolare i rapporti con gli emigrati di successo. Per evitare le gare, racconta Campanella, Cesa e i suoi amici riescono a far assegnare il programma all'agenzia dell'Onu, Cif-Oil di Torino, per poi sovrafatturare il costo dei convegni e restituire una quota alla struttura politica di Cesa. Tutto infatti, spiega Campanella ai pm, ruota attorno a una serie di società che prendono appalti nel settore del marketing al fine di generare il nero da girare a Cesa e al suo partito. Il perno del meccanismo, secondo Campanella, sarebbe un'agenzia che organizza il business: alberghi, hostess, viaggi, biglietti. Il pentito non ne ricorda il nome. Una sola cosa è certa: il convegno finale del Pptie al Grand Hotel di Roma è stato organizzato da Global Media.
Il caso Pacenza
Quella dei fondi pubblici, del resto, è una torta invitante sulla quale, specie in Calabria, si buttano in tanti. Per questo le indagini delle procure della regione si moltiplicano. E per questo, il 17 luglio del 2006, il pm di Cosenza, Giuseppe Cozzolino, chiede e ottiene l'arresto di Franco Pacenza, il capogruppo dei Ds in Regione. È l'epilogo (provvisorio) di una vicenda iniziata nel 1998, quando l'imprenditore Franco Alfonso Rizzo, nato in Germania da famiglia di Corigliano (Cosenza), presenta una richiesta di contributi alla Sviluppo Italia Calabria. Vengono così finanziate due aziende, la Printec international srl e la Sensitec srl, create per la produzione di sensori per stampanti, cartucce e altro. In tutto Rizzo e i suoi soci incassano circa 6 milioni e mezzo di euro e in cambio s'impegano a garantire investimenti, produttività e occupazione.
Dopo un po' i dipendenti di Rizzo presentano però una denucia sostenendo che in realtà le aziende non producono nulla. Rizzo finisce in manette e interrogato tira in ballo il diessino Pacenza, ex responsabile locale della Cgil. Proprio lui, racconta Rizzo, gli avrebbe assicurato nel 2000 un appoggio per le pratiche di finanziamento, in cambio dell'assunzione di "suoi" lavoratori. Non a caso, scoprono gli investigatori, nella sede dei Ds di Corigliano si svolge una strana selezione di personale, dove i soci di Printec e Sensitec accolgono i candidati con la frase «Devi ringraziare Franco Pacenza per questa occasione di lavoro...».
Rizzo sostiene che il politico calabrese gli avrebbe imposto 13 delle 29 assunzioni previste. E racconta di aver dovuto, per esempio, dare un lavoro a Maurizio De Simone, che non ne aveva alcun requisito, ma che aveva promesso di passare da An, di cui era stato candidato, ai Ds, a cui aveva portato il suo pacchetto di voti. Ma gli investigatori scoprono anche dell'altro: sempre a Corigliano, nel 2002, la Eurocal Form srl organizza con soldi pubblici corsi di formazione ai quali partecipano persone indicate da Pacenza. Gente che, a volte, si presenta senza nemmeno i requisiti previsti dal bando. Diversi dipendenti, inoltre, confermano di essere stati assunti grazie alla segnalazione del capogruppo diessino. E nei sequestri ordinati dalla magistratura, spuntano anche curricula con la scritta «Franco P.».
Per Pacenza scattano le manette per concussione. Ma il suo arresto suscita un putiferio. Il vicepresidente diessino della giunta regionale, Nicola Adamo, dichiara: «È una beffa: la Cgil, io e Pacenza siamo quelli che hanno fatto emergere il sistema truffaldino delle aziende coinvolte nell'inchiesta». Interviene anche un esponente nazionale dei Ds, il calabrese Marco Minniti, viceministro dell'Interno: «È un errore giudiziario». I parlamentari del centrosinistra calabrese giurano sull'onestà di Pacenza e organizzano perfino un sit-in in suo sostegno davanti al carcere di Cosenza. Poi vanno a trovarlo in cella: sono i senatori Franco Bruno, Pietro Fuda, Nuccio Iovene e i deputati Franco Amendola, Marilina Intrieri, Maria Grazia Laganà, Franco Laratta, Ennio Morrone e Nicodemo Oliverio. Reagisce Antonio Di Pietro: «Stupisce che ci sia stata la visita nonostante il divieto di colloqui imposto dal magistrato. Lo stesso comportamento di sfida alla giustizia ebbe, nel 1985, Bettino Craxi quando i magistrati arrestarono il primo politico di Tangentopoli, Antonio Natali».
L'indagine si conclude positivamente per Pacenza, che viene scarcerato dal Tribunale della libertà «per mancanza di gravi indizi», e poi completamente prosciolto. Resta aperto invece il giallo dei soldi spariti: i 6 milioni intascati da Rizzo e dai suoi amici in questa storia, ma anche, più in generale, i tanti miliardi erogati negli ultimi anni dall'Unione europea per la Calabria, senza che si sia creata una sola briciola di sviluppo e senza che la politica abbia mai avuto il coraggio di dire una parola chiara su questo scempio senza fine.
E i fondi finiscono in un Clic
Non si è ancora sopita l'eco del "caso Pacenza" che, il 5 settembre 2006, arriva un avviso di garanzia allo stesso Nicola Adamo, vicepresidente della Giunta regionale calabrese, già in prima fila nella difesa di Pacenza. Reati ipotizzati: associazione per delinquere, truffa, abuso d'ufficio. L'inchiesta questa volta è condotta a Catanzaro da De Magistris e riguarda l'informatizzazione, un altro business utilizzato per succhiare risorse. A giudicare dai robusti investimenti, la Calabria oggi dovrebbe essere l'area più informatizzata d'Europa. Invece, scrive De Magistris, il denaro pubblico è andato ad alimentare
un sistema di collusione criminale con distribuzione di ruoli tra imprenditori, professionisti e pubblici amministratori il cui fine, attraverso la costituzione di società o la partecipazione in società già costituite, era quello di percepire in modo illecito finanziamenti pubblici (nazionali, europei e regionali) per importi di diversi milioni di euro.
Anche in questo campo le indagini rilevano sprechi e finanziamenti «finiti in un Clic», come scrivono i giornali locali. Clic è il nome di un consorzio di aziende informatiche. Bipartisan: ne fanno parte imprese della Compagnia delle Opere e un paio di società della famiglia di Sergio Abramo (il sindaco di Catanzaro poi candidato del centrodestra alla presidenza della Regione contro Agazio Loiero); ma presidente è Enza Bruno Bossio, la moglie del leader dei Ds calabresi Adamo. Anche qui si sospettano tangenti, favori, appalti truccati. Ma il sistema prevede anche quote e partecipazioni societarie.
Tutto è estremamente trasversale. Nello scandalo compaiono come sempre uomini di destra e di sinistra. Politici che pubblicamente si combattono, ma che poi trovano il modo di fare affari insieme. Tra le scoperte di De Magistris ce n'è una che fotografa la situazione meglio di mille discorsi: è la Tesi spa, azienda costituita proprio per informatizzare (con soldi pubblici) la pubblica amministrazione. Tra i suoi amministratori si trovano nomi ricorrenti: quello di Giovanbattista Papello, di An, insieme a quello di Fabio Schettini, intimo dell'ex ministro di Forza Italia Franco Frattini; ma c'è anche quello di Giulio Grandinetti, segretario particolare Ds Adamo, nonché commercialista e socio d'affari di sua moglie Enza Bruno Bossio. Eccolo, il "sistema Calabria". Le larghe intese? Qui sono già cosa fatta. La Tesi, per far fronte all'emergenza ambientale, «percepisce dalla Regione, tra il 1998 e il 2004, 8 milioni di euro», scrivono i carabinieri in un'informativa. Altri 5 milioni le arrivano per opere di informatizzazione. Eppure 13 milioni di euro pubblici non bastano a renderla solida: sfiora il fallimento.
Cacciare il pm, Why not?
L'indagine sui fondi pubblici succhiati dalle società create dagli uomini di partito viene chiamata da De Magistris Why not, come una società di lavoro interinale (anch'essa appartenente al consorzio Clic) che fa capo ad Antonio Saladino, leader calabrese della Compagnia delle Opere. Non c'è neppure bisogno di tangenti per oliare i rapporti: i soldi pubblici, secondo De Magistris, vengono distribuiti sotto forma di consulenze e progetti che devono essere pagati dalle imprese che vogliono ottenere finanziamenti europei e regionali. Attivissimo, pieno di buone relazioni a destra e a manca, Saladino è in contatto anche con il ministro Mastella, a cui raccomanda e fa incontrare il costruttore romano Valerio Carducci. Ma ha rapporti anche con Prodi e uomini suo enturage (Sandro Gozi, membro dello staff di Prodi presso l'Unione europea, e il consulente Piero Scarpellini).
A raccontare il modo in cui opera Saladino, raggiunto da avviso di garanzia l'8 febbraio 2007, è una sua collaboratrice ai vertici della società Why not, Caterina Merante, che rompe con lui e collabora con il pm:
Utilizzando la Compagnia delle Opere, Saladino comincia a divenire una vera e propria potenza, non solo economica, ma anche politico-istituzionale. La forza di Saladino è stata quella di creare un reticolo di società capaci di operare nel mercato e di ottenere varie e numerose commesse da parte di enti pubblici, in particolare dalla Regione Calabria. Il suo potere, poi, strategicamente si rafforzava, notevolmente, attraverso le modalità con cui venivano assunte le persone: invitava i politici e i rappresentanti delle varie istituzioni a segnalare persone da assumere, strategia che si è strutturata con le società di lavoro interinale e poi con la nascita della Piazza del Lavoro a Lamezia Terme. Nelle assunzioni da lui effettuate hanno sempre trovato ampio spazio gli appartenenti a vario titolo alle più varie istituzioni, dalle forze dell'ordine alla magistratura; il tutto in modo tale da creare una rete di potere e protezione. Il sistema, per esemplificare, consisteva in questo: venivano progettate possibilità di commesse e lavori alle società riconducibili a Saladino ed egli assumeva le persone segnalate dai politici che le facevano ottenere; inseriva persone indicate da personalità delle istituzioni, anche nazionali, e otteneva, in tal modo, anche commesse in altre parti d'Italia; assumeva, poi, persone indicate da appartenenti alle forze dell'ordine e della magistratura in modo da poter contare sulla loro protezione in caso di necessità e comunque per costituire un reticolo di potere, tanto da scandalizzarsi (lo ripeteva spesso durante le scuole di comunità di Cl) se qualcuno ignorava che il "potere esiste". (...) Mi vien da pensare che il fondatore di Cl, don Giussani, si sia rivoltato nella tomba in questi anni se si vede quale centro di affari e interessi economici è divenuta la Compagnia delle Opere.
Il sistema Saladino è rigorosamente bipartisan:
La capacità "politica" del dottor Saladino è stata sempre quella di stringere legami trasversali da un punto di vista politico, sempre nell'ottica di una logica di tipo affaristico, più che imprenditoriale, nonché consolidare rapporti a livello istituzionale, in modo da penetrare a ogni livello, qualora ve ne fosse il bisogno.
Infatti l'imprenditore, secondo Merante, da una parte stringe «un rapporto privilegiato» con il Ds Adamo: tanto che, per esempio, nel primo contratto tra la Regione Calabria ed Obiettivo Lavoro (180 lavoratori interinali) «la maggioranza delle persone assunte dal Saladino sono, appunto, da lui segnalate». Dall'altra, è molto vicino all'allora presidente della Regione Chiaravalloti, di Forza Italia. Così è pronto a ogni evenienza: perché «il momento storico è particolare, è opinione diffusa che le prossime elezioni sarebbero state vinte dal centro-sinistra e in particolare da Adamo». Da queste larghe intese nasce, nel settembre 2004, il consorzio Clic, che, come abbiamo visto, vede protagonisti, a sinistra, la moglie di Adamo, Bruno Bossio, e Pietro Macrì, della Margherita, area prodiana; e a destra Abramo, l'ex sindaco di Cosenza.
Il consorzio si consolida anche perché Enza Bruno Bossio, Saladino e Chiaravalloti pensano a un modo per unire la lobby di Catanzaro con la lobby di Cosenza. Abramo non si convince facilmente ma sa che, presto, tornerà a contare Adamo, con la vittoria molto probabile alle elezioni del centro-sinistra.
Così avviene. E gli affari proseguono per tutti. Il consorzio Clic riesce a ottenere un finanziamento di 3.600.000 euro: stanziati sotto la presidenza Chiaravalloti, ma pagati dopo la vittoria di Loiero, quando Adamo diventa assessore al Bilancio e alle Attività produttive. Infatti
i soldi dati al consorzio Clic finiscono, poi, in Tesi. Le somme sono divise in due tranches: la prima viene erogata dalla giunta Chiaravalloti, la seconda dalla giunta Loiero, in particolare da Nicola Adamo. Posso dire che il consorzio Clic è stato, alla fine dei conti, inefficace, in quanto nulla è stato realizzato. (...) L'affare doveva essere questo: si trattava di canalizzare le somme, assai ingenti, provenienti dall'Unione europea, nel settore dell'informatica. La società che doveva essere favorita era Tesi, azienda di interesse della Bruno Bossio e di Adamo (...) da cui dovevano transitare senza gara tutti i lavori per la Calabria informatica.
Poi le cose si complicano perché cambia la legislazione e perché «Loiero non consente che Adamo e la Bruna Bossio gestiscano, da soli, tutto il settore dell'informatica». Ma la pioggia di soldi pubblici continua. Intanto però si incrinano i rapporti tra Saladino e Meranti, che gestisce Why not. Secondo la testimone, Saladino vuol fare soldi in fretta, non gli interessa sviluppare davvero le aziende che vara. Costringe, per esempio, Merante e altri imprenditori ad acquistare un software venduto da Macrì a 250 mila euro. «Un software che, in realtà, non ha mai funzionato» (ma l'azienda produttrice smentisce). Quando Why not sfugge di mano a Saladino perché Merante non gli obbedisce più, smette di ottenere commesse pubbliche. Saladino la sostituisce con un'altra azienda, Persone, «riconducibile al figlio dell'assessore Mario Pirillo».
I soldi pubblici continuano ad arrivare. Le assunzioni sono sempre clientelari. La Regione stanzia, per esempio, 6 milioni di euro per il progetto Ipnosi, che assume 108 persone, «tutte rigorosamente raccomandate». Queste però, spiega Meranti, «non volevano lavorare per il privato, ma solamente essere assunti dalla Regione Calabria: tanto da rifiutare un'assunzione a tempo indeterminato (come potranno testimoniare anche i sindacati)». Un altro progetto, chiamato Telcal e gestito da Bruno Bossio, offre 75 contratti di lavoro: anche questi a persone «tutte raccomandate, in particolare da politici regionali». Circa 3 milioni di euro vanno invece al progetto Tristeza «che doveva curare la malattia degli agrumi: il progetto è stato fatto aggiudicare al Saladino».
Anche la legge regionale del 2002 che stabilizza i servizi svolti in precedenza dai lavoratori interinali ha Saladino come padre:
Questa legge viene fortemente voluta dal dottor Saladino, il quale, attraverso le sue amicizie all'interno della giunta regionale, ha "proposto" una legge che gli consentiva di perseguire il suo obiettivo economico, che era quello, appunto, di stabilizzare i lavoratori interinali.
Quelli gestiti da Saladino erano intanto passati da 180 a 490, «tutte persone raccomandate, che lavoravano presso Obiettivo Lavoro». Anche l'opposizione offre il suo contributo:
La legge regionale era concordata anche con Nicola Adamo, che all'epoca era all'opposizione. Nicola Adamo, persona scaltra, addirittura presentò un'interrogazione regionale facendo apparire che lui fosse contrario alla legge, ma era solo una finzione, una messa in scena di apparente opposizione politica, in realtà era d'accordo e vi era la certezza che la legge sarebbe stata approvata. Del resto, tante erano le persone segnalate dallo stesso Adamo e, quindi, forte era il suo interesse all'approvazione della legge.
Aziende e consorzi erano fatti su misura delle decisioni politiche. Così il Consorzio Brutium viene costituito da Saladino proprio il giorno prima dell'approvazione di una legge regionale, in forza della quale vince subito una gara. C'è poi la società Need, che diventa, dice Merante, «una vera e propria "cassa" per il solo Saladino».
Il sistema è questo: il dottor Saladino faceva ottenere, attraverso la sua rete di rapporti politico-istituzionali, commesse e lavori vari a diverse società e in cambio la Need otteneva una somma con consulenze commerciali. Si tratta di una percentuale "dovuta" per le commesse che il Saladino faceva ottenere. È proprio per questi motivi che cominciano a incrinarsi i miei rapporti con Saladino, in quanto io pretendevo che le consulenze commerciali fossero effettive, che vi fossero prestazioni specialistiche, che Need poteva essere messa in grado di offrire, e non mere apparenti fatturazioni solo funzionali all'ottenimento di denaro.
Need pretende sempre più soldi, anche da Why not: 85 mila euro nel 2004, 200 mila nel 2005, 270 mila nel 2006. In più, racconta Merante, «ci viene imposto di regalare le quote di Silagum, alla quale abbiamo dato 500 mila euro in contanti più 250 mila euro di mutuo, con fideiussioni personali per 900 mila euro cadauna, altrimenti sarebbe fallita». Saladino, secondo l'imprenditrice, preme anche psicologicamente sui suoi collaboratori.
Pur di annientare le volontà delle persone che lavoravano attorno a lui, in particolare alla Need, induceva tutti a far uso di psicofarmaci; ci ha provato anche con me, ma senza riuscirci; altre persone ne hanno fatto uso pur di assecondare le volontà del "capo".
Merante racconta che Saladino fa assumere anche il figlio dell'allora ministro dell'interno Beppe Pisanu, che entra nella società Getronics. E in un 'intercettazione del 9 marzo 2006, Antonio Salis, segretario particolare del ministro Pisanu, rassicura Saladino del buon esito della sua segnalazione di un carabiniere assegnato alla Regione Emilia Romagna. Le raccomandazioni, specialmente di poliziotti, carabinieri e finanzieri, sono il suo forte. E trova sponde istituzionali disposte ad accoglierle. Saladino ha infatti ottimi rapporti con alti ufficiali delle forze dell'ordine. Tra questi, il generale Paolo Poletti, capo di Stato maggiore della Guardia di finanza, al lavoro per realizzare l'archivio informatizzato centrale sui 68 mila uomini del corpo: una commessa da 8 milioni di euro che interessava molto Antonietta Magno, imprenditrice informatica vicina a Saladino, che controlla la Iset, una società gravata di debiti. Racconta Caterina Merante:
Nel 2005-2006 il dottor Saladino ci propone di rilevare la società Iset, riconducibile alla dottoressa Antonietta Magno, che Saladino sosteneva essere in rapporti stretti con il Generale della Guardia di Finanza Paolo Poletti.
Poletti arriva in Calabria insieme ad Antonietta Magno e incontra Saladino:
L'allora colonnello Poletti si chiude in camera con Saladino. (...) La richiesta è questa: noi rileviamo Iset, destinataria di un importante finanziamento pubblico nel settore dell'informatica, con 23 milioni di euro di debiti, alla dottoressa Magno diamo 150 mila euro. Ovviamente, era un'offerta assurda e diciamo di no. Lo scenario proposto da Saladino all'allora colonnello era questo: la Guardia di Finanza passava a Saladino l'archivio documentale, lui avrebbe dovuto fargli ottenere un finanziamento regionale.
Effettivamente la Iset era diventata, nel luglio 2005, destinataria di un finanziamento da 8 milioni di euro, deciso dal Cipe su proposta del sottosegretario dell'Udc Pino Galati. Ma il 24 marzo 2006 il giudice decreta il fallimento dell'azienda. Dovrebbe essere la fine del finanziamento. Ma un decreto del Cipe firmato da Silvio Berlusconi due giorni prima del crac risolve il problema, deliberando che i soldi della Iset passino alla società che ne aveva acquistato il ramo d'azienda: la One Sud. Chi c'è dietro la One Sud? Sempre Antonietta Magno.
Galati il 26 febbraio 2006 parla al telefono - intercettato - con Saladino. Pochi giorni prima, il suo ministero aveva proposto al Cipe di girare i fondi a One Sud:
L'altro giorno ho visto il generale Paolo Poletti, credo per la stessa cosa che dici tu. Mi ha chiamato lui perché c'è da fare una modifica a quel contratto. E l'abbiamo fatta. (...) Siamo riusciti a farla al Cipe a questa cifra.
Saladino gli chiede: «E il generale che ti ha detto?». Galati risponde: «Mi ha detto che uno bravo come me la Calabria non lo troverà più».
Caterina Merante racconta a verbale che in questa vicenda era all'opera un non meglio specificato "gruppo di San Marino". In una e-mail di Enza Bruna Bossio a Saladino si fa riferimento addirittura a una "loggia di San Marino". E alcuni indagati effettivamente a San Marino fanno viaggi e spostano soldi. Esiste dunque davvero una loggia segreta che unisce i protagonisti di questa storia e offre un ombrello ai loro affari? Il primo segnale di presenze massoniche è stato, come abbiamo visto, il grembiulino trovato a Giovanbattista Papello durante la perquisizione del maggio 2005. Poi i segnali si moltiplicano, tanto che De Magistris ipotizza che gli indagati abbiano violato la legge Anselmi, la norma varata dopo lo scandalo P2 che punisce la costituzione di associazioni segrete. Il magistrato sa che è ben difficile dimostrare la formale iscrizione a un'obbedienza massonica deviata, ma ha raccolto svariati elementi di una comune volontà di condizionare le istituzioni e di turbare il corretto andamento della pubblica amministrazione. Una vecchia conoscenza della P2 (e di Mani pulite), comunque, in questa storia fa capolino: è Luigi Bisignani, già iscritto alla loggia di Licio Gelli (tessera numero 203) , già condannato a 3 anni e 4 mesi per la maxitangente Enimont e, 15 anni dopo, imprenditore in stretto contatto con Saladino. È in ottima compagnia. Con Saladino e soci parla anche un trio di generali della Guardia di Finanza che comprende, oltre ai già citati Cretella Lombardo e Paolo Poletti, anche Michele Adinolfi.
Nella rete di contatti incrociati del presunto comitato d'affari c'è anche un'utenza telefonica che per molto tempo resta un mistero. Al consulente tecnico di De Magistris, Gioacchino Genchi, la Wind risponde che è un'«utenza non presente in archivio». Cioè inesistente. Eppure parla, eccome. Genchi rinnova la richiesta altre nove volte, ottenendo sempre la stessa risposta: «Utenza non presente in archivio». Fino al luglio 2007, quando la risposta cambia: «Sì, è un'utenza Wind». Alla fine Genchi scopre il mistero: il numero è quello di una Sim aziendale della Vpn (Virtual Private Network) di Wind ed è in uso a Salvatore Cirafici, il dirigente che si occupa della gestione dei tabulati e della richiesta d'intercettazioni telefoniche, e che dunque sa chi è sotto indagine e sotto intercettazione. Proprio il manager Wind del settore a cui Genchi rivolgeva le sue richieste... Cirafici, ex ufficiale dei carabinieri, parla spesso con Bisignani, con il generale Cretella Lombardo, con Lorenzo Cesa... Ed è stato in stretto contatto con i protagonisti dello scandalo degli spioni Telecom, da Luciano Tavaroli a Fabio Ghioni, fino al numero due del Sismi Marco Mancini. Annota Genchi:
Processati i dati di traffico delle utenze del Bisignani e rilevati gli intensi rapporti col Cirafici, le utenze di quest'ultimo hanno evidenziato circolari rapporti telefonici con utenze già nella disponibilità di Fabio Ghioni, Luciano Tavaroli, Marco Mancini, Tiziano Casali, Filippo Grasso, dei quali è stato accertato in sede cautelare il coinvolgimento in vicende spionistiche, finora limitate al gruppo Telecom.
Pronto Prodi, pronto Mastella
Il culmine delle polemiche s'addensa, nel 2007, attorno al coinvolgimento nell'inchiesta di Prodi e Mastella, che svia l'attenzione dai ben più corposi elementi emersi a carico di altri indagati. Saladino, per fare affari, stringe buoni rapporti a destra e a sinistra. Chiama più volte anche il vicepremier Francesco Rutelli, del quale ha in agenda i numeri di diversi cellulari, dell'abitazione e degli uffici di partito. Questo non impedisce che in altre telefonate esprima invece pesanti considerazioni critiche nei suoi confronti. Ha i numeri di Prodi, ma lo attacca con un sms ironico che il 9 marzo 2006, in piena campagna elettorale, rivela i suoi veri gusti politici: «Berlusconi ha fatto piangere gli americani, Prodi farà piangere gli italiani». Destinatari del messaggio sono politici di tutti gli schieramenti e figure di primo piano delle forze dell'ordine: dall'ex ministro di An Gianni Alemanno al generale delle Fiamme Gialle Michele Adinolfi, fino allo stesso Mastella. Eppure Prodi è tra i contatti di Saladino, che mantiene buone relazioni anche con alcuni uomini del suo staff.
Il presidente del Consiglio viene iscritto nel registro degli indagati nel luglio 2007, per abuso d'ufficio. È un atto dovuto: per i suoi rapporti con Saladino e con altri protagonisti di questa vicenda; ma soprattutto perché il presidente del Consiglio usa un telefonino che risulta fornito da una società, la Delta spa. In una relazione del consulente tecnico di De Magistris, Gioacchino Genchi, si legge:
Saladino ha mantenuto ottimi rapporti e interessi di varia natura con i più diretti collaboratori dell'attuale presidente del Consiglio dei ministri, professor Romano Prodi. Le stesse considerazioni valgono per il deputato Sandro Gozi, proclamato deputato il 28 aprile 2006 e componente, dal 6 giugno 2006, della Commissione Affari Costituzionali della Camera, in sostituzione del deputato Romano Prodi, nominato presidente del Consiglio. (...) Dalle altre acquisizioni di tabulati, la Sim Gsm intestata alla Delta spa riconducibile al deputato professor Romano Prodi è risultata in contatti telefonici con le utenze fisse e cellulari di Franco Bonferroni, Antonio Saladino, Francesco De Grano, Piero Scarpellini e Sandro Gozi.
Il telefono usato quotidianamente da Prodi ancora nel 2007, come altri tre utilizzati dal suo staff, è intestato, con una voltura, all'"Associazione L'Ulivo-I democratici". Ma prima della voltura tutte le quattro schede Sim Gsm erano della Delta spa, che le aveva offerte a Prodi e ai suoi collaboratori nel 2004. La Delta è una società che ha lavorato per la pubblica amministrazione, avendo fornito servizi di telefonia alla Consip (una spa del ministero delle Finanze):
La Delta spa era intestataria delle quattro Sim Gsm cedute il 21 ottobre 2004 allo staff di Prodi. (...) Gli aspetti più inquietanti dell'accertamento sulle schede della Delta spa riguardando l'attivazione, l'intestazione e l'imputazione fiscale e finanziaria delle Sim Gsm alla Delta. Infatti la Delta - come segnalato dal consulente - è risultata fornitrice di servizi alla Consip Spa. (...) La Delta quindi era l'intestataria delle quattro Sim cedute allo staff di Prodi ed era al contempo la fornitrice di servizi di telefonia pubblica della gara Consip.
Il coinvolgimento di Prodi nell'indagine avrebbe dovuto restare segreto, in attesa di approfondimenti per accertare se davvero i suoi comportamenti configurassero reati. Ma il 13 luglio una fuga di notizie - una delle tante in questa storia piena di spifferi - porta l'iscrizione del presidente del Consiglio sulle pagine del sito web del settimanale Panorama.
La reazione di Prodi è sobria. Nega di aver compiuto illeciti e si dice fiducioso nell'operato della magistratura. Ben diversa quella di Mastella. Il ministro sa di essere coinvolto nelle indagini per le sue telefonate con Saladino e per il suoi «intensi rapporti» con Luigi Bisignani. Il 16 marzo 2006, per esempio, Saladino dice a Mastella: «C'è un amico mio, che una volta ti ho presentato, un grande costruttore, una cosa molto seria. Sai, Clemente, voleva conoscerti, fare una chiacchierata con te». «Mandamelo verso le 12,15», cioè tra un'ora, risponde disponibilissimo Mastella. Saladino aggiunge: «Si tratta di una persona serissima. Amico anche di un generale... che siamo stati insieme, ti ricordi, con il generale...». Il "grande costruttore" è Valerio Carducci. Il generale sarebbe Paolo Poletti, quello su cui De Magistris sta indagando a proposito della realizzazione dell'archivio informatico della Guardia di finanza.
Mastella chiede che la procura di Catanzaro metta nero su bianco tre cose: che avrebbe aperto un'inchiesta sulla divulgazione di una delle sue telefonate con Saladino; che non aveva chiesto alcuna autorizzazione al Parlamento per il loro utilizzo; che quelle telefonate erano comunque penalmente irrivelanti. Il 20 giugno arriva la risposta della Procura, che si limita a precisare in un comunicato che il ministro non è indagato.
Intanto gli ispettori hanno finito il loro lungo lavoro e presentano al ministro una relazione di 5 mila pagine piene di contestazioni: il pm avrebbe commesso errori e scorrettezze procedurali, «gravi violazioni deontologiche» in «più procedimenti penali», non avrebbe informato dei suoi atti d'indagine i capi dell'ufficio, avrebbe dimostrato «scarsa riservatezza» e «disinvolti rapporti con la stampa». Sulla base di questa relazione e di un successivo rapporto degli ispettori, Mastella il 21 settembre 2007 chiede al Csm il trasferimento cautelare di De Magistris e del suo capo, Mariano Lombardi, colpevole di non aver vigilato sulle sue indagini . La richiesta di trasferire i magistrati è una facoltà consentita al ministro da uno dei decreti delegati dell'ordinamento giudiziario varato dall'ex ministro Castelli, quelli lasciati entrare in vigore dall'Unione nell'estate 2006. In un comunicato, Mastella sostiene che la sua richiesta è «formulata nell'esclusivo interesse del buon funzionamento della giustizia, vista la gravità e la pluralità delle condotte» di Lombardi e De Magistris e «la loro negativa ripercussione sull'efficienza della Procura di Catanzaro».
A De Magistris sono addebitate senza alcun dubbio anche le fughe di notizie sulle sue indagini: eppure non solo è ancora tutto da dimostrare che siano responsabilità del suo ufficio, ma è certo che siano state usate contro di lui e per danneggiare le inchieste. Quanto alle interviste che gli vengono rimproverate, sono per lo più rilasciate per denunciare l'isolamento in cui opera e le manovre ostili di molti colleghi. Tra le accuse, c'è anche quella secondo cui il decreto di perquisizione del procuratore generale di Potenza, Tufano, sarebbe «abnorme» e «troppo dettagliato», per la presenza di intercettazioni di dubbia di rilevanza penale. Gli si rimprovera anche che nel suo ufficio è stato «smarrito l'intero sottofascicolo delle intercettazioni» dell'inchiesta "Toghe lucane" (ma era solo una copia). E che a «uno dei suoi più stretti collaboratori» (un maresciallo della Finanza in trasferta a Roma per le indagini) è stato rubato il computer portatile «contenente tutti gli atti». Tutto ciò proverebbe, secondo il ministero, che De Magistris è «macroscopicamente inadeguato» e lavora con «grave e inescusabile negligenza e inammissibile superficialità».
Il magistrato si limita, sulle prime, a rivendicare «l'assoluta correttezza» dei suoi atti e si prepara a difendersi, assistito dall'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati Alessandro Criscuolo. La sezione disciplinare del Csm fissa l'udienza per l'8 ottobre. Poi però De Magistris si sente costretto a parlare, per smentire una "polpetta avvelenata" raccolta da alcuni giornali, secondo cui il suo consulente Gioacchino Genchi terrebbe sotto scacco i palazzi del potere romano con migliaia di intercettazioni e tabulati telefonici: notizia destituita di ogni fondamento.
Il Csm ascolta De Magistris il 29 ottobre 2007, ma rimanda la decisione al dicembre successivo: evidentemente non riscontra elementi che impongano scelte urgenti. Così De Magistris prosegue l'iter dell'indagine Why not e il 14 ottobre decide di iscrivere anche Mastella sul registro degli indagati: per abuso d'ufficio, concorso in truffa e violazione della legge sul finanziamento dei partiti. Anche questa dovrebbe essere una notizia destinata a restare segreta. Ma cinque giorni dopo, venerdì 19 ottobre, la rende pubblica il quotidiano Libero.
A questo punto il ministro della Giustizia insorge, protestando che l'iscrizione è un atto di ritorsione per le sue richieste al Csm. La vicenda è chiusa dal magistrato che fa le funzioni del procuratore generale a Catanzaro: Dolcino Flavi (segnalato da Buccico quando era la Csm). Il reggente della Procura generale avoca a sé l'inchiesta Why not, strappandola a De Magistris, e inoltra poi la posizione di Mastella a Roma, al tribunale dei ministri.
Dopo dopo, anche al consulente Gioacchino Genchi viene revocato l'incarico. Anche Genchi è oggetto di numerosi attacchi politici e interrogazioni parlamentari. Mastella in persona gli dà del «mascalzone» nel luglio 2007, quando il sito web radiocarcere.it pubblica una sua relazione in cui compare il numero del cellulare del ministro. Poi a ottobre, dopo la puntata di Annozero del 4 ottobre dedicata alle inchieste di De Magistris, il ministro rincara la dose e in una conferenza stampa lo chiama «Licio Genchi».
Lino Jannuzzi e altri esponenti del centrodestra lo accusano apertamente di compiere indagini senza mandato e di raccogliere illecitamente dati su politici e uomini delle istituzioni, usati per tenerli sotto ricatto. Genchi replica ricordando che è solo un consulente tecnico e che ogni suo atto d'indagine deve essere richiesto e autorizzato da un magistrato. Poi spiega che il documento con il cellulare di Mastella ha il timbro del Tribunale del riesame e non esce dal suo studio, bensì dal Palazzo di giustizia di Catanzaro. È finito in rete - constata - subito dopo essere stato depositato agli avvocati di Bisignani: «Metterlo per un'ora sul web è stata una trappola, una manovra contro di me e De Magistris. Per permettere di additare la fuga di notizie e gridare al complotto».
A De Magistris sono sottratte le indagini (Poseidone e Why not), il consulente (Genchi), l'investigatore (Zacheo). È sotto inchiesta davanti al Csm. «Gliela facciamo pagare. Vedrai, passerà gli anni suoi a difendersi»: la profezia di Chiaravalloti è diventata realtà.
Da Mani sporche
di Gianni Barbacetto, Peter Gomez, Marco Travaglio
Chiarelettere 2007
UNA PRECISAZIONE
In relazione al libro Mani sporche, pubblicato da Chiarelettere nel dicembre 2007, precisiamo che il dottor Filippo Maria Grasso, responsabile delle Relazioni Istituzionali Italia del Gruppo Pirelli & C., non ha mai avuto alcun coinvolgimento nell'indagine relativa ai dossier illegali di Telecom Italia e non figura fra i protagonisti della vicenda giudiziaria, diversamente da quanto risulta da una consulenza tecnica della procura di Catanzaro. I lunghi anni d'indagine condotti dalla Procura di Milano ne hanno infatti evidenziato la totale estraneità. Si tratta di un errore di cui ci scusiamo con la persona coinvolta e con i nostri lettori.
Gianni Barbacetto, Peter Gomez, Marco Travaglio
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