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Mafia, i primi cento giorni


di Nando dalla Chiesa

Per indebolire la lotta alla criminalità organizzata si possono fare alcune cose. Il governo Berlusconi può già dire: fatto!



Per indebolire la lotta alla mafia bisognava incominciare a creare un clima più rassegnato, diciamo meno integralista. Bisognava spiegare che la nostra economia non puÚ permettersi i ritardi richiesti da qualche verifica antimafia, le strozzature imposte da qualche procedura di troppo. Ma occorreva dirlo bene; ed evitare un intervento minimalista, volto magari a indicare solo i lacci e i lacciuoli inutili, altrimenti che messaggio si mandava? Meglio fare vigorosamente propria, in pubblico ovviamente, la teoria che con la mafia si puÚ e si deve convivere, se no l'economia e i pubblici lavori e gli appalti e tutto il resto ne soffrono troppo. Come non avevano compreso, vent'anni fa, Pio La Torre e Virginio Rognoni. E questo è stato fatto.

Per indebolire la lotta alla mafia
bisognava fare capire che lo Stato non ha alcun senso di colpa verso i familiari delle vittime; che questi ultimi non sono più circondati da una specie di tutela morale legittimata dal loro dolore. E che le loro parole hanno un valore esattamente uguale a quelle di qualsiasi suddito. Dunque si scordino di testimoniare a vita: devono tacere o le citeremo in tribunale. Come la vedova Grassi, ad esempio, che crede di potere ancora liberamente interrogare la pubblica opinione su quale sia, presso Cosa nostra, l'effetto del messaggio mandato dal "ministro della convivenza". La signora ha parlato proprio mentre riapriva temerariamente la ditta del marito. Meritava di essere pubblicamente minacciata di querela. E questo è stato fatto.

Per indebolire la lotta alla mafia
bisognava far capire che lo Stato non ritiene poi troppo disdicevole difendere con i suoi rappresentanti di governo i killer mafiosi mandati a giudizio nelle aule di Giustizia della Repubblica. E nemmeno far vedere a una moglie, a un figlio, a una madre di un carabiniere o poliziotto morti ammazzati da Cosa nostra o dalle organizzazioni sorelle, che ci va il sottosegretario in persona e con tanto di scorta a difendere il boss finito a processo. Sì, proprio lui. E, diversamente dai familiari delle vittime, senza alcun complesso di colpa. E questo pure è stato fatto.

Per indebolire la lotta alla mafia
bisognava poi fare capire che è finita la solfa della legalità, andata così fastidiosamente di moda agli inizi dello scorso decennio. Ma non bisognava solo deprecare gli eccessi prodotti da quel clima incandescente. Se no che messaggio si manda? L'eccesso, il vero eccesso, è stato proprio quella richiesta di legalità tanto estranea ai nostri costumi. Dunque, adeguiamo la legge alle nostre tradizioni. Meglio ancora se ne approfittiamo per far capire che ogni interesse privato è sempre più legittimo dell'interesse pubblico. L'ideale? Depenalizzare il falso in bilancio o fare tornare praticamente gratis e in forma anonima i soldi portati in nero in giro per il mondo. E questo è stato fatto.

Per indebolire la lotta alla mafia
bisognava poi fare capire ai magistrati che la pacchia è finita. Che essi non possono più contare su una considerazione e un rispetto innaffiati con il sangue dei loro colleghi uccisi. Naturalmente non bastava stigmatizzare le singole arroganze o ricondurre i chiacchieroni a sobrietà. Se no che messaggio sarebbe? Molto meglio, e più diretto, far capire a tutti che ora debbono pagare ­e salato- per quella fisima del "controllo di legalità" a trecentosessanta gradi. Che essi sono degli eversori. Sappiano ladri e assassini che chi li persegue e li giudica non è poi infinitamente più in alto di loro nella considerazione sociale. E anche questo è stato fatto. Per indebolire la lotta alla mafia bisognava ancora far capire che i magistrati, conseguentemente, non sono più protetti come una volta. Dunque, occorreva tagliare le scorte. Ma non solo combattendo gli abusi o gli impieghi da status-symbol. Se no che messaggio sarebbe? Occorre proprio tagliare. A tutti, dovunque; anche se è stato appena scoperto un progetto di attentato contro un procuratore antimafia. E al tempo stesso far vedere che ministri, sottosegretari e loro nani e ballerine le scorte e le macchine di servizio continuano ad averle. Così che sia chiaro che sono proprio i magistrati a essere meno protetti di una volta; e che lo Stato alla loro pelle ci tiene un po' di meno. E anche questo è stato fatto.

Per indebolire la lotta alla mafia
bisognava far vedere che le autorità pubbliche nate da un decennio di lotte e di paure, di umiliazioni e di speranze, sono considerate a pieno titolo -nè più nè meno- posti di potere da spartire, pezzi di domino nello spoil system. Ad esempio il Commissariato contro il racket e l'usura. E occorreva mandar via di lì il primo commerciante che ha organizzato la ribellione contro il racket; lui con i suoi personalissimi rapporti di fiducia con le vittime dell'usura e del pizzo mafioso. O almeno renderlo meno autonomo e meno forte. E anche questo è stato fatto.

Per indebolire la lotta alla mafia
bisognava, infine e ovviamente, rendere molto più difficili le investigazioni e i processi. Per esempio intervenendo sui meccanismi di formazione delle prove. E cercando di renderli praticamente proibitivi per chi si azzardi a mettere il naso nei conti all'estero dei padrini e dei loro amici e protettori. Magari arrivando a rendere retroattive tali nuove norme di procedura penale. E anche questo è stato fatto.

Per indebolire correttamente la lotta alla mafia
bisognerebbe ora intervenire sui meccanismi della cultura, della scuola, dell'informazione, della partecipazione religiosa; insomma su tutte quelle attività che sono state utili a mobilitare per la prima volta contro la mafia milioni di cittadini e di giovanissimi in tutta Italia. Occorrerebbe mettere all'indice qualche giornalista libero; così, per dare un segnale. Meglio se è il più autorevole di tutti, un Enzo Biagi, ad esempio, che ha pure raccolto in due libri le dichiarazioni del principe dei traditori, Masino Buscetta. Oppure incominciare ad attaccare i "gargarismi antimafia" che si fanno nelle scuole, magari partendo da un'audizione parlamentare del ministro Moratti. Fatto anche questo. Ancora -questo è vero- non si è riusciti a montare uno scandalo contro un prete di trincea o contro una preside troppo antimafiosa nè a impedire a qualche scrittore troppo impegnato di vincere un premio letterario. Ma sono passati solo cento giorni e qualche cosa. Come si dice nei graziosi quadretti che stanno dietro la scrivania di ogni Capo, "per l'impossibile ci stiamo ancora attrezzando".

(Il Popolo, giovedì 25 ottobre 2001)




«State strizzando l'occhio
a Bagarella»

di Nando dalla Chiesa

«Oggi qualcosa è morto nello spirito del Parlamento: avete umiliato le Commissioni, il Regolamento, la Costituzione...».
La dichiarazione di voto in Senato contro la legge salvaberlusconi. «Questa è una risposta anche alle richieste della mafia. E chi risponderà, domani, di un nuovo, possibile bagno di sangue?»


Dichiarazione di voto del Sen. Dalla Chiesa sul disegno di legge CIRAMI.
Modifica agli articoli 45 e 47 del codice di procedura penale


DALLA CHIESA (Margherita-DL-Ulivo).

Signor Presidente, credo che qualcosa sia morto qui oggi: sicuramente una parte dello spirito del Parlamento. Le Commissioni non hanno valore; il nostro lavoro di istruttoria, di discussione, non ha valore; il Regolamento non ha valore, nonostante i riferimenti ai precedenti, che immagino le abbiano fatto ma che sono già stati spuntati da interventi autorevoli dell'opposizione; gli articoli della Costituzione non hanno valore. Non possiamo che appellarci a lei, signor Presidente, giudicando il merito di questo emendamento.

Qualcosa è morto dello spirito del Parlamento, perché bisogna ottenere un risultato. Però noi non possiamo assistere inerti, come ha fatto lei; con la stessa noncuranza con cui lei ha ascoltato i riferimenti alla nostra Carta costituzionale, che dovrebbe essere gelosamente difesa da tutti, a partire da lei. Vede, questo emendamento sostituisce i tre articoli di cui abbiamo discusso in Commissione e che eravamo chiamati a discutere in Aula. Questo, cari colleghi, è un metodo che fa trionfare l'astuzia levantina sulla limpidezza della nostra Costituzione. Sono due cose diverse: qualcuno può intendere il diritto in un modo e qualcuno lo può intendere in un altro, qualcuno trova i precedenti per l’uno e qualcuno trova i precedenti per l'altro. Ma io credo che noi qui dobbiamo difendere la Costituzione nella sua limpidezza, per quello che c'è scritto sulle nostre teste: la giustizia, il diritto, la fortezza (non la forza), che vuol dire anche limpidezza delle proprie posizioni.

In questo articolato ritroviamo lo stesso merito con cui ci stiamo confrontando sulla vita del Parlamento, che esce fortemente menomato da questa vicenda. Ne è uscito menomato già quando abbiamo affrontato il disegno di legge Cirami, costretti a lavorare anche venti ore al giorno, non nell'interesse dei cittadini italiani, ma, com'è stato ricordato inequivocabilmente dal proponente, dal presidente della Commissione e in altri due interventi in Aula oggi, per le vicende personali e private di due imputati. Noi siamo stati trasformati (e lo dico perché ho sofferto quest'umiliazione) in dipendenti di un grande studio Previti, pagato dai cittadini italiani. Ma lo spirito del Senato lo dobbiamo far vivere lo stesso, ribellandoci a questa visione del Senato come insieme di dipendenti, di persone che non ne fanno parte.

Circa la forzatura dei tempi, io, vedete, sono preoccupato di quello che ha detto il collega Fassone, di quello che inutilmente hanno cercato di dirvi altri colleghi. Il problema non è soltanto l'esito processuale e non tanto - come si dice - il trasferimento a Brescia, ma il blocco del processo; esso viene reiterato con un nuovo riferimento al legittimo sospetto e questa è la ragione per cui l'articolo 1 che reca questo emendamento non è soltanto la somma dei tre articoli precedenti, ma comprende qualcosa in più: esso ingloba anche l'articolo 49 del codice di procedura penale, perché non ci siano dubbi che anche la seconda rimessione potrà avvalersi del legittimo sospetto.

Ecco, io sono preoccupato di quello che accadrà sul versante della grande criminalità organizzata, perché, cari colleghi (ripeto quello che ho detto in Commissione), ho ascoltato con interesse e anche con ammirazione l'intervento dell'onorevole Fini nella ricorrenza del decennale della strage di via D'Amelio a Palermo, ma non si può invocare l'onore del magistrato ucciso in quel caso e poi reintrodurre il legittimo sospetto, in base al quale - negli anni Sessanta e Settanta su richiesta del procuratore generale e ora si dice, figuratevi un po', su richiesta dell'imputato - il processo può essere trasferito!

(Vivi applausi dai Gruppi Mar-DL-U e DS-U).


Su richiesta dell'imputato! Ma voi vi immaginate cosa succederà nel nostro sistema giudiziario, nel nostro sistema democratico? Ma chi risponderà di questo? Si dice spesso che i magistrati non rispondono delle loro azioni: ma di questa vergogna chi risponderà? Chi risponderà del nuovo bagno di sangue che ci sarà, come quello che c'è stato negli anni Settanta e Ottanta?

(Vivi applausi dai Gruppi Mar-DL-U e DS-U. Commenti dai banchi della maggioranza. Richiami del Presidente).


Chi ne risponderà? Allora io credo che qui ci sia un'esigenza oggettiva di vedere dai nostri atti parlamentari come si risponde al proclama di Bagarella. Al proclama di Bagarella il Parlamento manda questa risposta: chi è in carcere si tenga il carcere duro, a quelli fuori i processi non li faranno più!

(Applausi dai Gruppi Mar-DL-U e DS-U).


Questo è il messaggio che arriva da questo Parlamento!

(Commenti del senatore Novi).


Io ho la massima considerazione, non mi sono stancato di ripeterlo.

(Reiterati commenti del senatore Novi).


Ho la massima considerazione di molti di voi e non ho credo mai lesinato, non ho mai perduto l'occasione per riconoscere le storie limpide, di cui non si può dire nulla, di molti avversari della maggioranza. Però io mi riferisco a loro perché poi sono gli atti parlamentari che parlano, non le singole biografie: e qui gli atti parlamentari danno la sensazione (ve ne chiedo scusa) di un reparto di lanzichenecchi che va all'assalto della Repubblica guidato da un gruppo di imputati. Noi di fronte a questo scenario ci troviamo e noi a questo scenario ci opporremo. Non staremo inerti di fronte alle violazioni della Costituzione!


Discutere di politica
per fatto personale

di Nando dalla Chiesa

Per fatto personale. Per fatto personale il parlamento ha fatto la discussione più politica dell'intera legislatura. In ventiquattro ore ha dibattuto della mafia e dello Stato, della politica e dei processi, delle impunità e delle persecuzioni, di Tangentopoli e dell'onore dei partiti. Il teatro della democrazia che manda in scena tanto spesso interrogazioni di quartiere e leggine di favore si è come sollevato, facendo uscire dalle sue viscere terrene la storia e la memoria. E ha provato a riscrivere la prima e la seconda. Con le cose vere e con le cose false. Con gli applausi e i silenzi, le facce contrite e le risate beffarde (stampate su qualche viso, ci credereste?, anche al termine dell'elenco dei morti ammazzati di mafia). Fatto personale di Luciano Violante. Fatto personale di Giulio Andreotti. E fatti personali di tanti deputati e senatori per i quali anche la vita in un partito è -giustamente- un fatto personale, anche la rivincita sui censori di tempi lontani lo è; e anche quell'ossessionante rapporto di potere tra partiti e giudici, cambiato in un amen nei vortici dei primi anni novanta.

Forse per questo ieri la rappresentazione che al Senato dava di sé una intera classe di governo (antica e nuova) sembrava quella di una signora o di un signore assai sformati che incontrino, per miracolo, lo specchio dei loro sogni; lo specchio magico che restituisce a tutti snellezza e armonie. Come si guardavano - e con quale compiacimento! - in quello specchio magico, ossia nella assoluzione di Giulio Andreotti, i tanti titolari dei corpi sformati di partito. Lo applaudivano e intanto "si" applaudivano. Sempre più forte, passando dallo specchio a se medesimi. Per dire che la mafia non ha rapporti con la politica, che la vendemmia tangentizia non c'è mai stata, che è finita la stagione delle colpe e delle vergogne. Non perché esse siano state abiurate. Semplicemente perché non ci sono mai state. Solo favole raccontate da pifferai malvagi scesi un dì dai boschi e messi finalmente in fuga. Assolto, assoluzione, lo avevamo sempre detto, l'uso politico della magistratura, la cultura giacobina dello Stato.

Fatto personale. Ha parlato, Giulio Andreotti. E ha raccontato la sua versione. Gerardo Chiaromonte più signore e corretto di Violante, come presidente dell'Antimafia, benché pure lui comunista. Falcone, Ayala e la diffidenza per certi pentiti, come quel Pellegriti che aveva cercato di mettere di mezzo lui e Salvo Lima e che venne incriminato subito per falsa testimonianza. Salvo Lima, certo: non una parola su di lui, se non che la sua amicizia, testualmente, non gli "sconsigliò" a cavallo degli anni novanta di produrre una legislazione assai severa verso i mafiosi; anzi, tanto severa che a una parte di esse anche Violante si oppose per ragione di lese garanzie.

Esemplare, recitavano in molti. Lei è un esempio, si complimentavano compunti con Andreotti. L'Italia che si guardava in quello specchio si trovava perfetta. Perfetta perché assolta in tribunale. Anzi, più che perfetta: esemplare. Certo: Andreotti esempio di senatore a vita che, a differenza dell'amico Cossiga, sta in aula, ascolta, prende appunti e interviene. Andreotti esempio di imputato che, a differenza di Berlusconi e Previti, non si fa le leggi a sua misura, non si sottrae ai processi e si difende in tribunale.

Però, come cambia il senso delle parole. Ricordo l'esempio di Giorgio Ambrosoli, l'avvocato scelto dalla Banca d'Italia a difendere gli interessi dei risparmiatori di fronte alla potenza mafiosa finanziaria e piduista di Michele Sindona, l'uomo che lo avrebbe fatto assassinare. Sì, proprio quel Sindona definito da Andreotti "salvatore della lira" e poi rimasto in contatto con il suo protettore, presidente del consiglio, mentre era latitante in America, inseguito dalla giustizia italiana. Ebbe la medaglia d'oro al valor civile, Giorgio Ambrosoli. Oggi sono esemplari tutti e due. L'amico di Sindona e la vittima di Sindona. Pari opportunità, please. Medaglie d'oro e anche funerali: una fila sconvolgente, perché magistrati e forze dell'ordine (non tutti, ma molti sì) il loro dovere lo hanno veramente fatto. Per uno scherzo del destino, una coincidenza inaspettata anzi, ieri mattina il dibattito sul terrorismo era più volte sfociato proprio nell'invito appassionato a non dimenticare le vittime del dovere dopo qualche tempo. Ecco fatto. Tre ore, quattro ore erano trascorsi in quella stessa aula e già l'esempio non erano più loro che si erano battuti - i donchisciotte, i guasconi, i protagonisti- contro la mafia. Esempio era diventato il referente politico di chi prendeva per certo, ossia stando alle sentenze, i voti della mafia. Colui che per certo, ossia secondo sentenza, aveva avuto rapporti diretti con gli uomini di Cosa nostra. Non basta dire che non era reato. Bisogna dire di più ormai: esemplare. Perché sia specchio di un paese senza più debiti con la sua coscienza.

Per fatto personale. L'ho sentita, l'ho sentita anch'io, la voce di Andreotti incrinarsi quando, parlando infine del “doppio macigno di infamanti accuse”, ha ringraziato i colleghi deputati e senatori che “non mi hanno mai fatto sentire solo”. E poiché in ciascuno di noi vi è (per fortuna, direi) una irriducibile riserva di amore verso il prossimo, di pietas che mai si inaridisce, ho avvertito in me (non mi vergogno a dirlo) un inizio di compassione. Poi è stato come se la memoria mi tirasse in pieno viso uno schiaffo da far male. Mi sono rivisto ventun anni fa inginocchiato accanto a un telefono alla notizia che avevano ucciso il prefetto di Palermo. E ho pensato ad altro, ho riavuto altra compassione. Mi sono rivisto mentre ascoltavo e mentre leggevo, prima e dopo la morte. Ho rivisto le frasi, la grafia minuta, il diario. “Gli andreottiani ci sono dentro fino al collo”. “La famiglia politica più inquinata del luogo”, scritto su tanto di carta intestata al presidente del Consiglio Spadolini, con riferimento proprio a quella corrente andreottiana che lo andava pubblicamente ostacolando. Una lettera disperata. E il passo sconvolgente del suo diario sul suo incontro (primi di aprile dell'82) con il leader democristiano, che al processo ribatterà, irridente, “Mi avrà confuso con qualcun altro”. E poi lo scrupolo politico e morale, etico e civile, del leader massimo della corrente di Salvo Lima e dei cugini Nino e Ignazio Salvo (mai conosciuti, per carità) dopo l'assassinio del prefetto.

Se è vero, come si è detto ieri parlando di terrorismo, che le parole sono pietre e addirittura, a volte, possono essere pallottole, ecco le parole di Andreotti ai suoi uomini in Sicilia dopo il delitto: “Voi democristiani siciliani siete forti e per questo dicono male di voi. Se foste deboli nessuno si curerebbe di voi. Respingiamo il falso moralismo di chi ha la bava alla bocca mentre rafforzate le vostre posizioni ad ogni elezione”. Applausi, un uragano di applausi. Durante il quale il leader venuto da Roma invitò anche i presenti a “smitizzare” dalla Chiesa.

Per fatto personale. Parlava ieri, Andreotti, e citava il delitto e il processo dalla Chiesa. Ma tutto questo - immagini, parole, ambienti, dolore - in ciò che lui diceva non c'entrava neanche di striscio. Questi erano ricordi esclusivamente miei, di me che mi stavo anche commuovendo per lui sotto l'incalzare della buriana che tutto rovescia, tutto travolge, pretendendo di riscrivere la storia. Avrei voluto allora parlare anch'io per fatto personale. Mai, venti anni fa, quando accusai Andreotti - politicamente, culturalmente, si intende, e un decennio prima delle procure -, mai avrei immaginato di vivere questi momenti in Parlamento. Non io che gridavo le mie ragioni, ma lui che rivendicava la sua innocenza, anche politica, nel mio assoluto silenzio regolamentare. Già, formalmente nessuno mi aveva offeso, quale fatto personale potevo invocare? Né potevo parlare a nome della Margherita, trattandosi per l'appunto di un fatto personale.

Esemplare, il vecchio leader. Lo so, lo so: almeno da un certo punto in poi, non ha commesso reati. Eppure io ricordo quell'intervista fattagli alla festa dell'Amicizia da Giampaolo Pansa pochi giorni dopo il delitto. Ma lei, gli chiese Pansa, non prova come dirigente storico di un partito di governo, “anche un senso di colpa” (non di più, badate!) di fronte all'Italia di Sindona e delle morti di Pecorelli, di Ambrosoli, di Calvi, di Moro, di dalla Chiesa? Andreotti, l'Andreotti che (giustamente) ci ha chiesto di distinguere responsabilità penale da responsabilità politica, rispose brutalmente: “Nemmeno un poco!”. E quando Pansa gli accennò ai troppi funerali di morti ammazzati in Sicilia, non rammento ora se chiedendogli anche perché lui non fosse andato ai funerali del prefetto di Palermo, il leader democristiano rispose così: “Preferisco andare ai battesimi”. Il pubblico rideva e applaudiva. Applaudiva lo specchio di un' Italia senza colpe e senza vergogne dove però gli uomini dello Stato cadevano come birilli. Scusatemi, scusatemi davvero se ve l'ho raccontato. Anch'io, lo ammetto, per fatto personale.

l'Unità, 7 novembre 2003

Io, Berlusconi non per ridere
ma per indignazione

di Nando dalla Chiesa


25 giugno 2003, ore 11, davanti al Palazzo di Giustizia di Milano
Per ricordare che oggi il Presidente del Consiglio avrebbe dovuto presentarsi davanti ai giudici, Nando dalla Chiesa - con la voce del capo del governo - ha tenuto un monologo processuale rivolto alla dottoressa Boccassini, raccontando la sua verità.

Cari sudditi magistrati,

la settimana scorsa avevo promesso che il giorno 25, mercoledì, avrei continuato la mia deposizione spontanea. Vi avevo promesso che lo avrei fatto e sono stato di parola.
Come sapete nel frattempo il parlamento nella sua sovrana autonomia ha varato una legge che per salvaguardare il prestigio dell’Italia sospende questo processo, e tuttavia per senso del dovere e per rispetto nei vostri confronti io sono venuto, concludendo così il mio calvario giudiziario. Mi hanno accusato di essere in guerra con i magistrati. Niente di più falso, questa è una menzogna. Io nei confronti dei magistrati ho sempre usato il metodo “pacifico” che mi insegnarono alcuni anni fa degli amici avvocati romani e mi sono sempre trovato molto bene.

Non è dunque questo il mio atteggiamento nei vostri confronti e tuttavia ho dovuto subire da parte vostra molti torti. Come è stato detto autorevolmente in questa sede la settimana scorsa, "in sette anni sono state gettate su di me, che ho responsabilità istituzionali, tonnellate di fango, sia da giornali che da televisioni. Le accuse nei mie confronti sono solo fango basate su un teorema e il processo si è svolto senza che vi sia stato un morto né un movente per uccidere. Gettando ombra e fango sul presidente del consiglio si buttano sull’intero paese. Un paese di cui io sono molto fiero". Eccomi dunque qui per l’ultima volta. Ho colto sui giornali l’informazione che stareste accingendovi a contestare la validità costituzionale della legge che ha sospeso il processo. Io vi dico che questa legge è perfettamente costituzionale, perché non è anticostituzionale fare un lodo, non è anticostituzionale la sospensione dei processi. Si tratta di una legge perfettamente in linea con il dettato della nostra Costituzione; e se qualcuno pensa – io credo che voi non lo pensiate – ma se qualcuno pensa, dicevo, che questa legge sia una legge che porta il segno di un cambiamento di regime, o addirittura della nascita di un regime, io vi dichiaro qui che questo non è vero.
Perché ci fosse un regime occorrerebbe che il capo del governo avesse un controllo personale del parlamento, e questo con tutti i partiti che ci sono, è impossibile.
Perché ci fosse un regime occorrerebbe che il capo del governo avesse il controllo personale dell’informazione, delle televisioni, e questo in un paese libero, con tante televisioni, non è possibile.

Occorrerebbe che il capo del governo potesse nominare lui, o far cambiare, i direttori dei grandi quotidiani, fare ispezioni nelle televisioni, censurare la presenza di questo o di quell’altro personaggio. E anche questo dove ci sono tante testate è impossibile.
D’altra parte il nostro sistema dell’informazione ormai si regge economicamente sulla pubblicità, e dunque se uno volesse veramente controllare l’informazione dovrebbe avere anche il controllo della pubblicità. E anche questo non è possibile.
Ma vengo anche alla magistratura, ai magistrati che sarebbero gli ultimi baluardi, secondo una certa lettura, della Costituzione.
Ebbene io dico che se a dei magistrati fanno ispezioni continue;
se i magistrati vengono accusati ogni giorno sui giornali del governo o sugli altri giornali dai ministri;
se vengono indicati come golpisti e come cancro della democrazia;
se vengono attaccati a reti unificate, in televisone, dal presidente del consiglio;
se dopo i processi gli imputati condannati vanno in prima serata tv ad attaccarli in loro assenza;
se vengono accusati e ricusati in continuazione ;
se si esortano i cittadini a fregargli le mogli;
se gli si tolgono le scorte e questi, nonostante tutto, continuano a fare i magistrati, allora vuol dire che il regime non esiste.

Perché ci fosse un regime occorrerebbe anche che il capo del governo avesse sopra di sé un re vanesio, un re pusillanime come Vittorio Emanuele III, ma anche questo non è possibile perché i Savoia non ci sono più, anche se sono tornati. Come dice il mio amico Tremonti, in questo paese i conti non tornano ma i principi ereditari sì.
Occorrerebbe ancora che ci fosse il culto della personalità. Per esempio che nei temi d’italiano si dessero ai bambini da commentare delle frasi che ho detto io, ma anche questo se succedesse provocherebbe una rivoluzione.
Occorrerebbe, se ci fosse un regime, che il capo del governo si interessasse direttamente di rifare la lingua italiana, come se potesse, per esempio, diventare presidente di un Consiglio superiore della Lingua italiana. E anche questo non è possibile.
Occorrerebbe che il capo del governo si sottraesse per legge a tutte le leggi. E anche questo se accadesse sarebbe veramente al di fuori delle regole della civiltà di questo paese.
Occorrerebbe ancora, perché un regime si formi, che ci fosse un numero sufficientemente ampio di cretini che continuano a dire che il regime non esiste. E questo ovviamente in una società in cui tutti studiano non è possibile.
Allora non di questo si tratta. Si tratta invece di fare una riforma liberale della giustizia come quella che io sto immaginando e porterò in parlamento tra pochi giorni per far finire i calvari di coloro che possono subire la mia stessa sorte.
Ho in mente una riforma come quelle che si fanno nei paesi dove c’è davvero la democrazia e la libertà individuale. Quando un magistrato rinvierà a giudizio un cittadino, il cittadino sarà libero di rispondere se vuole essere processato sì o no. In questo modo la libertà di ciascuno sarà salvaguardata, non ci comporteremo come nei paesi comunisti, dove la legge ti insegue in ogni angolo della tua vita, ma saremo finalmente in un paese democratico.

Voi, cari giudici – lei, dottoressa Boccassini non mi interrompa, per favore, questa non è un’intervista dove parlo io e qualcuno cerca di parlare, ma qui esterno soltanto io perché sono dentro un tribunale e sono il presidente del consiglio –, vi chiederete perché, se sono innocente, non mi sono fatto processare. Devo ammettere che questa è una bella domanda. Ma risponderò con un classico della storia dei diritti umani, l’affermazione fatta in tribunale da Totò Riina: i giudici sono comunisti.
D’altra parte noi lo abbiamo scoperto con le nostre ispezioni (perché le ispezioni servono, cari cittadini, non sono una vessazione), dicevo, noi abbiamo scoperto con le nostre ispezioni che cosa facevano i pubblici ministeri prima della caduta del muro di Berlino: abbiamo saputo che la dottoressa Boccassini si recava un giorno sì e un giorno no a fare scorpacciate di insalata russa in un ristorante di via della Moscova. E noi la paghiamo per questo! Abbiamo saputo che il dottor Gherardo Colombo portava tutte le domeniche suo figlio sulle montagne russe e per questo gli sono venuti i capelli in quel modo indecoroso per un magistrato.

Avete creduto alla signora Ariosto che io non ho mai conosciuto e che comunque non è una contessina; l’unica contessina che ho conosciuto è quella a cui ho fregato la villa di Arcore per quella modica somma che tutti sanno.
Avete accusato ingiustamente il mio caro amico Cesare Previti: con le vostre accuse e con i vostri processi, lo avete ridotto che sembra lo zio di Califano! Io gliel’ho detto: devi resistere, con il solito incitamento gli ho detto: "Caro Cesare fagliela vedere". Lui saprà difendersi debitamente in questo processo, voi dovrete tener conto della sua innocenza.
La vostra incompetenza, cari magistrati, mi fa paura. Mi fa paura che non abbiate ancora saputo trovare quello che io con i miei investigatori ho trovato: un conto in Lussemburgo sulla vicenda Sme intestato – cifrato, ovviamente, perché si nascondono - intestato, dicevo, a Cicciobello; un conto cifrato nel Lichteinstein, intestato a Baffino. Certi dicono che si tratti di esponenti politici di primo piano di cui non faccio qui il nome per responsabilità istituzionale. E ancora due conti cifrati in Andorra intestati ad Oscar Maria. E anche qui non posso fare il nome per mantenere fede alle mie responsabilità istituzionali.

Voi avete pensato che davvero De Benedetti diventasse padrone della Sme con un contratto di poche paginette, quando io sono diventato padrone dell’Italia con un contratto di una pagina sola (sventola Il contratto con gli italiani ) che ho firmato soltanto io! Oltre alla vostra incompetenza, mi allarma la persecuzione che si è abbattuta su di me anche con la presenza di questo Avvocato dello Stato di cui voglio ricordare qui alcune parole… scusate il sudore, mi devo detergere, poi per favore Panorama elimini queste fotografie, le compri tutte.
Dice l’Avvocato dello Stato:
"che si tratti di corruzione è indiscutibile";
dice ancora l’Avvocato dello Stato, che avrebbe dovuto difendermi:
"ci sono stati passaggi di denaro tra magistrati e avvocati che trovano la loro origine in Barilla e in Finivest.. La corruzione in atti giudiziari viene a far cadere una delle garanzie dello Stato di diritto, la Giustizia è uguale per tutti. La lesione alla credibilità della giustizia è stata particolarmente pesante";
"i tempi lunghi del processo sono stati determinati da questioni poste da alcune difese e che si sono rivelate completamente infondate: si sono difesi dal processo e non nel processo".

Dice ancora l’avvocato dello Stato pagato dallo Stato, pagato da voi, pagato da me: "Silvio Berlusconi è il mandante di Italo Scalera attraverso Cesare Previti per l’offerta di 550 miliardi di lire in relazione alla SME. E’ Silvio Berlusconi che si dà da fare per organizzare la cordata. Erano anni drammatici per Fininvest, si parlava di accensione e di spegnimento di televisioni, alcune richieste erano ineludibili".
Ecco quello che io voglio segnalarvi: perfino l’avvocato dello Stato è arrivato a dire queste cose sul mio conto. E’ per questo che democraticamente noi ci accingiamo a fare una legge che elimini dai processi penali l’avvocatura dello Stato.
Come vedete siamo sempre vigili per difendere le regole della nostra democrazia.
Voi avete, cari magistrati, dottoressa Boccassini non mi guardi, non mi guardi in quel modo per lo meno, avete calpestato la nostra dignità.
Non è vero che siamo tutti uguali, c’è qualcuno più uguale degli altri. Voi avete vinto un concorso e basta, io rappresento la sovranità popolare, per questo non posso girare continuamente da un meandro all’altro di questo tribunale perché il cittadino mi paga per governarlo e per comandare il paese, non certo per perdere tempo per ricordare che cosa ho fatto venti anni fa.

Mi sembra che davvero questo sia stato capito anche dal caro amico Carlo Azelio, il quale ogni tanto con la gentile consorte Franca avrebbe voglia di fare una specie di tumulto dei ciampi . Ma poi io lo faccio rigare dritto e fa quello che gli dico io.
Per la mia dignità allora io rifiuto questo processo, un processo che ricorda quelli descritti magistralmente dal grande filosofo africano F punto Kafka, che in francese si dice Kafkà.
Mi dovete obbedienza dal punto di vista di quello che viene chiamato il diritto positivo perché sono il capo del governo, mi dovete obbedienza dal punto di vista del diritto naturale perché, come ha detto di me - con la conseueta misura e con la consueta assenza di piaggeria – Giuliano Ferrara, io sono “una forza della natura”.

Venite con me, cari magistrati, lasciate che io perdoni quello che ho subito da parte vostra , che vi rivolga questo invito generoso a passare dalla mia parte. Sarete ricchi e potenti come tutti coloro che lo hanno deciso:
Io vorrei ricordare l’ufficiale della Guardia di finanza Massimo Maria Berruti, che venne a fare un’inchiesta nelle mie aziende immobiliari. Gli dissi che ero un consulente di passaggio, lui poi lasciò la Guardia di finanza, divenne mio consulente legale, naturalmente senza alcun rapporto con quella inchiesta, e poi venne candidato al parlamento e divenne deputato nelle mie file.
Mi ricordo ancora quel sottufficiale dei carabinieri, Felice Corticchia, che accusò il pool dei magistrati di Milano, di questi signori che rubano i vostri soldi, e giustamente raccontò quello che sapeva ai magistrati di Brescia. Venne condannato per quello che aveva detto. Hanno trovato misteriosamente il suo conto corrente in banca pieno di milioni e Cattaneo, l’attuale direttore generale della Rai, quando era ancora alla Fiera lo ha assunto in quell’ente prestigioso.
Ricordo ancora il giudice Metta che esaminò il Lodo Mondadori. Dopo quella decisione sofferta e difficile andò a lavorare allo studio Previti e non se n’è più pentito.
Quindi vi ricordo anche la carriera strepitosa del mio amico, consulente e deputato Gaetano Pecorella, che credo non avrebbe mai immaginato venti anni fa tanti soldi e tanto potere.

Il mio messaggio dunque è: passate dalla mia parte, non ve ne pentirete.
Oggi, cari magistrati, la legge sono io, mettetevi in testa che quello del giudice è un mestiere finito. Una società come quella che sto realizzando non ha più bisogno di magistrati. Cara dottoressa Boccassini, lei è stata amica di un grande giudice come Giovanni Falcone, ebbene di quei giudici lì questo paese non avrà più bisogno, non ne avrà più bisogno perché – come si dice – beata la società che non ha bisogno di eroi. Noi non avremo più bisogno né di eroi né di giudici.
Io sto formando una società perfetta nella quale non ci saranno più reati per il semplice fatto che nessun comportamento sarà più considerato un reato.
Dunque io voglio ricordare in questo grande passaggio di civiltà come io sia stato sempre prosciolto e come arrivi candido a questo grande appuntamento che è il semestre europeo, al quale ci presentiamo orgogliosi di questo paese e delle leggi che questo paese ha saputo sfornare.

Vi ricordo che:
Per l’accusa di aver giurato il falso sulla mia appartenenza alla P2, sono stato, è vero, dichiarato colpevole ma l’amnistia dell’89, cioè un grande istituto civile di diritto della storia dell’umanità, mi ha reso giustizia
Per le tangenti alla Guardia di Finanza sono stato assolto in Cassazione per insufficienza probatoria, e lì mi hanno reso giustizia per le condanne in primo grado e per le prescrizioni in secondo grado.
Per il finanziamento illecito dei partiti (cosiddetto All Iberian - 1) la prescrizione del reato in Appello e in Cassazione mi ha reso giustizia della condanna in primo grado.
Per il falso in bilancio (All Iberian - 2) se verrà respinta l’eccezione della Procura, godrò della prescrizione grazie a quella riforma dei reati societari che autonomamente, a mia insaputa e contro il mio volere, ha fatto il parlamento, davanti alla cui sovranità io qui mi inchino.
Per il falso in bilancio (Medusa cinematografica), l’assoluzione con formula dubitativa mi ha reso giustizia della condanna in primo grado.
Per i terreni di Macherio, ho avuto l’amnistia per uno dei due falsi in bilancio.
Per il falso in bilancio del caso Lentini ho avuto la prescrizione del reato grazie alla riforma dei reati societari voluta contro la mia volontà e in piena autonomia da questo parlamento, di fronte alla cui sovranità di nuovo mi inchino.
Per il falso in bilancio nel consolidato del Gruppo Fininvest, se tutto andrà bene, mi verrà resa giustizia per prescrizione del reato, grazie alla riforma dei reati societari, che contro la mia volontà è stata varata da questo parlamento, di fronte alla cui sovranità ancora mi inchino.
Per la corruzione nel Lodo Mondadori, ho avuto giustizia giusta con la prescizione scattata grazie alle attenuanti generiche che mi sono state riconosciute in quanto presidente del consiglio.
E infine, per corruzione in atti giudiziari nella vicenda Sme, il parlamento, nella sua autonomia e nella sua sovranità, di fronte alla quale ancora mi inchino con deferenza, ha stabilito di sospendere il processo, e di darmi finalmente immunità assoluta e totale: per il passato, per il presente e per il futuro.
Questa, cari magistrati, è la mia posizione. Contro tutte le dicerie, contro tutte le malignità che sono state profuse a piene mani da magistrati interessati.
Io esco immacolato da tutte le mie persecuzioni. Ed è per questo che mi presenterò di fronte all’Europa a testa alta, difendendo il prestigio del paese, difendendo il prestigio dell’Italia .

Vorrei dire due parole ancora a questi magistrati che in questo momento continuano il loro inutile processo. Io ve lo dico, dottoressa Boccassini, dottor Colombo, collegio giudicante tutto, vi dico addio. Sono tornato per onorare il mio impegno della settimana scorsa, non mi vedrete mai più. Addio ultimi vincitori di un concorso, d’ora in poi si farà tutto a trattativa privata. Addio magistrati, specie in estinzione, questo paese nella sua marcia verso la civiltà non ne avrà più bisogno.
E se per cortesia istituzionale questo agosto vorrete mandarmi una cartolina, io ve ne sarò profondamente grato.
Grazie, e con questo vi saluto cari magistrati. Saluto i cittadini che hanno voluto presenziare a questo solenne addio, a questa mia deposizione. Grazie a tutti.

Due parole soltanto per un dovere di coscienza mia e non perché voi non ve ne rendiate conto.
Questa presenza qui oggi è stata una presenza per nulla goliardica. Noi abbiamo voluto ricordare che la settimana scorsa un capo del governo è venuto a promettere che sarebbe tornato a parlare ai giudici, a fare una sua deposizione, avendo l’aereo dietro l’angolo pronto per portarlo a Roma, dove sarebbe stata approvata una legge che avrebbe eliminato questo processo.
Noi crediamo, io credo che sia stato colpito al cuore il principio fondamentale dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Questo si è voluto testimoniare oggi qui, non altro, niente di più e niente di meno.
Ricordando che questa democrazia oggi dobbiamo difenderla noi, con la nostra coscienza civile, politica e istituzionale.
Tranne alcuni istituti di legalità, tranne alcuni mezzi di informazione, non c’è altro più che difenda questa democrazia, che è malata, che sta male e chiede a tutti un supplemento di impegno e di lavoro.
Lo dico con la massima coscienza, con la massima serietà, la satira è il vestito di una testimonianza che oggi ha voluto essere drammatica. Per questa ragione stamattina non sono stato in parlamento, perché quando in parlamento di queste leggi, di leggi che spaccano il paese, 315 senatori, tutti insieme, possono discutere, presentare gli emendamenti e discuterli, fare le dichiarazioni di voto in un giorno solo, il mio diritto di parola come parlamentare non può che essere anche al di fuori del parlamento, per fare il lavoro che mi è stato chiesto di fare. Grazie.

Nando dalla Chiesa, Milano, 25 giugno 2003


È ancora Carnevale

LA NUOVA LEGGE AD PERSONAM DI CUI I GIORNALI NON HANNO PARLATO:
PORTARE CORRADO CARNEVALE ALL'APICE DELLA CASSAZIONE PER 8 ANNI


SENATO DELLA REPUBBLICA — XIV LEGISLATURA
MERCOLEDÌ 7 APRILE 2004
582a SEDUTA PUBBLICA - RESOCONTO STENOGRAFICO

Seguito della discussione dei disegni di legge:
(2841) Conversione in legge del decreto-legge 16 marzo 2004, n. 66, recante interventi urgenti per i pubblici dipendenti sospesi o dimessisi dall’impiego a causa di procedimento penale, successivamente conclusosi con proscioglimento
(999) MASSUCCO ed altri – Riparazione del danno subìto dai pubblici dipendenti a causa di un processo penale ingiustamente promosso nei loro confronti

DALLA CHIESA (Mar-DL-U). Domando di parlare per dichiarazione di voto.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DALLA CHIESA (Mar-DL-U). Signor Presidente, onorevoli colleghi, credo che l’emendamento 1.208, presentato dai senatori Fassone e Bassanini, debba essere davvero colto nel suo significato. Penso sia impossibile, in buona fede, votare contro questo emendamento, al quale chiedo di aggiungere la firma. L’obiezione mossa è che la fissazione di un tetto massimo per lo svolgimento dell’attività lavorativa di un dipendente pubblico - nella fattispecie, un magistrato - derivi da una valutazione con ogni evidenza effettuata a tutela della qualità del servizio giustizia, ritenendo che oltre una certa età un magistrato abbia meno probabilità di reggere alla fatica e meno lucidità, minori capacità di esercizio pienamente responsabile delle proprie funzioni, che fino ai settantacinque anni si ritiene invece possa avere.

Sappiamo tutti che le date che segnano confini sono opinabili, ma vorrei ricordare che di recente è stato spostato questo limite massimo dai settantadue ai settantacinque anni, anche in questo caso portandosi dietro la riserva mentale di favorire qualcuno. Adesso pensiamo che si possa andare oltre i settantacinque anni.

Se immaginiamo - come possiamo immaginare - che una o più persone abbiano ingiustamente subìto un procedimento penale, conclusosi poi con l’accertamento della loro innocenza, si può pensare che costoro possano richiedere allo Stato un risarcimento economico e morale, ma non possano pretendere di portare la loro attività oltre il limite massimo fissato dalla legge. Infatti, se quel limite è stato fissato, una ragione ci sarà. È stato portato il limite massimo per svolgere la funzione di magistrato dai settantadue ai settantacinque anni e non ad ottanta, una ragione ci sarà, cari colleghi, ed è quella richiamata poc’anzi dal senatore Fassone: la tutela della qualità del servizio giustizia e del cittadino che a quel servizio si rivolge.

Se si deve fare un favore a qualcuno, diciamo come deve chiamarsi questo decreto: "decreto Carnevale". È scritto sui giornali, lo dice l’opinione pubblica, ma qui in Parlamento, dove dovremmo assumerci le maggiori responsabilità, non viene detto.
C’è l’urgenza di fare un favore ad un magistrato. Quindi, si assicura il principio che si possa profittevolmente e al servizio del cittadino svolgere questa delicatissima funzione anche oltre gli ottant’anni. Non so se ci rendiamo conto del varco che stiamo aprendo; stiamo teorizzando che ogni volta che un pubblico dipendente deve essere risarcito per un procedimento penale ingiustamente subito o ingiustamente conclusosi comunque con l’accertamento, in quale forma che sia, della sua innocenza, egli ha il diritto di superare questo tetto. Vorrei ricordare che questo tetto non è superabile, cari colleghi, neanche per un professore universitario, che ha funzioni meno delicate, meno cruciali per quanto riguarda i diritti fondamentali della persona. Eppure, per un magistrato lo si può superare. Per questa ragione, la Margherita voterà a favore dell’emendamento in esame 1.208.

Vorrei ricordare, affinché resti agli atti, che proprio questa parte del provvedimento dimostra l’irresponsabilità del legislatore nei confronti di coloro che si rivolgono al servizio giustizia, al di là di tutte le parole spese in Aula ed in Commissione in questa legislatura. Si dimostra l’intenzione, pervicace, di favorire una sola persona. Dopo aver favorito il sindaco di Messina ieri, favoriamo un magistrato di Cassazione oggi e chissà quante altre leggi urgenti dovremo esaminare e varare in Aula. (Applausi dai Gruppi Mar-DL-U, Verdi-U e DS-U). [...]

DALLA CHIESA (Mar-DL-U). Signor Presidente, onorevoli colleghi, il relatore ha offerto una sua spiegazione della lettera e dello spirito di questo passaggio del decreto-legge e il senatore Zancan ha replicato muovendo una serie di osservazioni che non mi sembrano infondate.

L’attenzione particolareggiata con cui si sono previsti i differenti casi riconducibili a questa ciambella di salvataggio che viene offerta al Parlamento a questo punto sarebbe potuta andare anche oltre e prevedere esplicitamente una causa estintiva per negligenza del magistrato.

Credo ci si debba porre il problema, nel momento in cui prevediamo che perfino una causa estintiva del reato possa innescare il meccanismo del quale stiamo parlando, e che dunque un pubblico dipendente che abbia effettivamente tenuto un comportamento contrario alle leggi, contrario ai suoi doveri di ufficio, non sanzionato perché è intervenuta una ragione prescrittiva o genericamente estintiva del reato e che però ha avuto questo comportamento, noi pensiamo di poterlo … perché anche questa fattispecie è aperta…

BOSCETTO, relatore. No, perché prima deve essere assolto.DALLA CHIESA (Mar-DL-U). In primo grado, certo; è un dato comune sul quale ci intendiamo. Stiamo parlando però dell’appello, dove non abbiamo un provvedimento che dichiari l’innocenza di questa persona, ma che interviene in altro modo a sottrarlo ad un giudizio, ad una sentenza di tipo punitivo.

Allora, potremmo trovarci davanti ad un pubblico dipendente che mette in atto una condotta contraria al proprio dovere di ufficio, che si ritrova (per una ragione che stiamo prendendo in considerazione, su una fattispecie non cavillosa comunque dettagliatamente immaginata) a rientrare in servizio anche se si è dimesso - poi interverremo anche su questo - e che addirittura può essere promosso e restare in servizio fino ad ottantacinque anni.

È una cosa assurda, cari colleghi, perché non stiamo parlando di un innocente (e sarebbe assurdo già se parlassimo di una persona di cui è stata in modo solare acclarata l’innocenza), stiamo parlando di una persona che invece può risultare aver messo in atto comportamenti contrari ai propri doveri di ufficio. La persona che si è comportata in questo modo viene ripresa in servizio, viene promossa - chissà perché lo deve essere - e poi rimane in servizio per un numero di anni indefinito (perché è indefinito il numero di anni per i quali è durata la sospensione dal servizio) arrivando magari ai novant’anni di età.

Credo sia molto difficile immaginare dal punto di vista giuridico, e rispettando tutte le fattispecie, tutte le articolazioni del provvedimento che sono state immaginate, un provvedimento che anche dal punto di vista morale sia più sconcio di questo.

Si premia chi ha sbagliato rispetto ad altri che si sono comportati correttamente, promuovendolo e consentendogli di restare in servizio fino a 83-84 anni, quando un pubblico dipendente o un magistrato, anche comportandosi nel modo più leale e corretto verso le leggi dello Stato, non può superare il limite di settantacinque anni.
Se mi è consentito usare questa espressione: stiamo giocando a rovesciare l’inferno e il paradiso? Il colpevole ha più diritti di colui che si è sempre comportato in modo retto, perché questa è la fattispecie che rimane tra le righe e direi anche nello spirito di questo provvedimento. Tra le righe questa fattispecie rimane, al di là di quanto possiamo pensare e dell’abitudine che abbiamo a cogliere i retroscena e le radici di un provvedimento di legge. Per questa ragione voteremo a favore di tale emendamento.

7 aprile 2004



 
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