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Le tre svolte di Giulio,
quello della mafia "buona"
Piazza Fontana, Gladio, Cosa nostra:
cambiare tutto per non cambiare niente
di Gianni Barbacetto
Per tre volte, nella sua lunghissima vita politica, Giulio Andreotti ha bruciato le navi, si è tagliato i ponti alle spalle. Per tre volte ha compiuto una svolta radicale: cambiando tutto per non cambiare niente. La prima volta è stata nel 1974, quando in una clamorosa intervista ha "bruciato" Guido Giannettini, l'informatore dei servizi segreti ricercato per la strage di piazza Fontana in contatto con gli stragisti neri. La seconda è stata nel 1990, quando ha ammesso l'esistenza di Gladio e ha reso pubblico un primo, parziale elenco dei membri della pianificazione segreta anticomunista. La terza è stata quando lo "zio Giulio", dopo anni di "amichevoli rapporti" con i boss siciliani, ha voltato le spalle a Cosa nostra.
Tre svolte che sono tre confessioni: ammettono la contiguità dello Stato nella storia delle stragi italiane, ammettono i rapporti tra istituzioni ed eversione e ammettono infine i contatti tra politica e mafia. Certo, Giulio si presentava (a differenza del suo gemello-avversario, Francesco Cossiga l'irriducibile) come flessibile, innovatore, pronto al cambiamento. In un senso solo: quando il ramo è secco, bisogna tagliarlo, perché la pianta possa crescere più forte. Andreotti lascia al suo destino la spia Giannettini, abbandona i "patrioti" di Gladio. E, nei prima anni Novanta, tenta perfino di sganciarsi da Cosa nostra, che con i voti siciliani lo aveva reso un leader determinante dentro la Dc.
Quando è avvenuta la terza svolta? Nella primavera del 1980, dicono le motivazioni della sentenza d'appello di Palermo del processo ad Andreotti Giulio, imputato di associazione per delinquere e associazione di tipo mafioso. In realtà è avvenuta molti anni dopo, all'inizio dei Novanta, quando i Corleonesi prendono il potere dentro Cosa nostra. Andreotti capisce che il sistema non regge più e (come aveva fatto per le "stragi di Stato" e per Gladio) manovra per sganciarsi dai cattivi rapporti siciliani. Si rende conto che non riesce a mantenere a Roma la promessa fatta dai suoi proconsoli a Palermo: l'annullamento in Cassazione del maxiprocesso di Giovanni Falcone. Cerca allora di sganciarsi dagli imbarazzanti "amici siciliani". Lascia mano libera, al ministero della Giustizia, a Claudio Martelli, che sceglie Falcone come suo nuovo direttore degli Affari penali.
È solo allora che Cosa nostra prende atto del "tradimento" e avvia la stagione della resa dei conti: il 12 marzo 1992, a Mondello, uccide il proconsole di Andreotti nell'isola, Salvo Lima. Negli ultimi attimi prima della morte, forse gli sarà tornata alla mente la frase detta qualche anno prima a un altro collaboratore di Andreotti, Franco Evangelisti: "Quando si fanno dei patti, vanno mantenuti". Sì: "Pacta sunt servanda", gridano i viddani di Corleone, che non sapendo il latino lo dicono con i kalashnikov.
Qualcuno ha provato a giocare con le parole. Fabrizio Cicchitto: "Mediò con la mafia tradizionale, ma condusse una lotta senza quartiere contro quella corleonese". Non meglio Giulia Bongiorno, secondo cui Andreotti avrebbe avuto rapporti, in fondo, con l'"ala moderata" di Cosa nostra, o addirittura la "mafia buona". In che cosa consisteva la "moderazione" o la "bontà" della Cosa nostra di Stefano Bontate, Salvatore Inzerillo, Tano Badalamenti? Furono loro a entrare alla grande nel business dell'eroina, diventando raffinatori in Sicilia e esportatori verso gli Usa. Furono loro a scatenare l'offensiva "colombiana" del 1979, una mattanza senza precedenti in cui furono ammazzati il capo della Squadra mobile di Palermo Boris Giuliano, il capitano dei carabinieri Emanuele Basile, il capo del giudici istruttori Cesare Terranova, il procuratore della Repubblica Gaetano Costa, il presidente della Regione Piersanti Mattarella.
Dopo l'assassinio del suo compagno di partito Mattarella, Andreotti va in Sicilia e s'incontra per la seconda volta con il capo di Cosa nostra, Stefano Bontate: fa le sue rimostranze, come dopo un piccolo sgarbo, un affare andato male. Non una denuncia, non una parola ai magistrati. La mafia "buona": quella che elimina Peppino Impastato; quella che nel 1982 uccide il prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa. Prima di partire per Palermo, il generale passò da Andreotti per dirgli che non avrebbe avuto riguardo per la "famiglia politica più inquinata dell'isola": e il senatore "sbiancò in volto".
Questa la mafia "tradizionale", "moderata", "buona" di cui Andreotti fu sodale. Con i boss di questa mafia ha "coltivato amichevoli relazioni", dicono le sentenze, "ha chiesto loro favori, li ha incontrati, ha interagito con essi", intraprendendo "una vera e propria partecipazione alla associazione mafiosa, apprezzabilmente protrattasi nel tempo". È questa la storia italiana che tanti in questi giorni rimpiangono e celebrano?
NON
CI POSSO CREDERE. Sentite con le vostre orecchie
che cosa dice Piero Fassino (a confronto con un gigante
del pensiero Occidentale, Carlo Giovanardi) sulla riforma
della giustizia necessaria non si capisce perché
dopo la sentenza Andreotti (scaricate il file
audio, by Radio24).
Giulio oltre le sentenze
Prima assolto. Poi condannato. Ma
ecco che cosa dicono veramente, al di là dell'ultima
parolina (assolto, condannato) le sentenze di Palermo e
Perugia su Andreotti, politico al di sotto di ogni sospetto.
Le bugie, le tangenti, le collusioni con i mafiosi...
di Peter Gomez
Provate a immaginarvi con la pagella in mano di vostro figlio.
Leggete i voti e scoprite che ha meritato solo 3 e 4, seguiti
però dall'annuncio: "Promosso". Ecco, se
si paragonassero a una pagella le motivazioni delle sentenze
di primo grado che tre anni fa a Palermo e a Perugia assolsero
Giulio Andreotti dalle accuse di mafia e omicidio, si potrebbe
benissimo partire da qui: dallo stupore, o dal mancato stupore.
Mentre oggi tutta la politica grida alla riforma della giustizia
e si sdegna per la condanna in appello dell'ex presidente
del Consiglio come mandante dell'assassinio del giornalista
Mino Pecorelli, nessuno allora battè ciglio leggendo
le motivazioni dei giudici di primo grado. Eppure da quelle
5 mila 500 pagine, scritte da magistrati considerati da politici
e commentatori "bravi e preparati", emerge un ritratto
umano che stride con quello di uno statista irreprensibile.
Già nel 2000 le toghe e i giudici popolari che avevano
assolto il sette volte presidente del Consiglio avevano considerato
provate molte delle accuse mosse dalle procure di Palermo
e Perugia. Andreotti infatti, stando alle assoluzioni che,
secondo il futuro presidente della Camera Pier Ferdinando
Casini, gli avevano "restituito l'onore politico",
frequentava mafiosi. Nel 1985, ad esempio, come
testimoniato da un commissario di polizia, parlò per
dieci minuti a tu per tu con il giovane boss Andrea Mangiaracina
(vivandiere di Totò Riina) in una saletta d'albergo
loro riservata; tra il '76 e il '77 non ebbe problemi a incontrare
a New York il banchiere Michele Sindona (all'epoca latitante),
finanziatore occulto della Dc e indicato nei rapporti inviati
al ministero degli Esteri dal nostro ambasciatore in Usa come
"in stretto contatto con ambienti di natura mafiosa".
Nello stesso periodo il leader Dc si
vedeva con il capo della P2 Licio Gelli (risulta da
una lettera) il quale gli faceva regali e gli dava disposizioni
per salvare dalla bancarotta, oltre a Sindona, il numero uno
del Banco Ambrosiano Roberto Calvi.
Ma non basta. Per far fronte alle accuse, il senatore a vita
ha poi raccontato (com'era suo diritto di imputato) almeno
32 bugie durante il processo di Palermo e una dozzina in quello
di Perugia. A cominciare da quelle sull'amicizia
(negata) con i cugini Salvo, i due multimiliardari
uomini d'onore di Salemi grandi elettori della sua corrente,
per arrivare a una menzogna resa sotto giuramento il 12 novembre
1986 nel corso del primo maxiprocesso alla mafia. Quel giorno
Andreotti, ascoltato come testimone, non esitò a definire
"passi decisamente fantastici" alcuni brani del
diario del generale Carlo Alberto Dalla
Chiesa, ucciso a Palermo dalla mafia nel 1982. Secondo
i giudici il perché di tanta disinvoltura risulta in
maniera "inequivocabile" dalla lettura di quel manoscritto.
Dalla Chiesa infatti "esternò anche all'imputato
(Andreotti) l'intenzione di condurre la propria azione di
contrasto alla mafia senza assicurare nessun trattamento di
favore alla parte dell'elettorato che faceva riferimento alla
corrente andreottiana in Sicilia". E lo mise nero su
bianco. Andreotti nega e sostiene che Dalla Chiesa mentiva
nel suo diario. Per i giudici che lo hanno assolto, l'episodio
del colloquio col generale dimostra invece come Andreotti
"non manifestò nessuna significativa reazione
volta a prendere le distanze da soggetti collusi con Cosa
Nostra".
Del resto proprio Andreotti nel 1977 aveva
finanziato l'ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino,
e la sua corrente con due assegni da 20 milioni l'uno (ritrovati),
emessi dall'amico imprenditore Gaetano Caltagirone. Quasi
un episodio di Tangentopoli ante litteram che fa il paio con
una vicenda analoga, considerata dai giudici di Perugia uno
dei possibili moventi dell'omicidio del giornalista Mino Pecorelli.
Secondo loro, Andreotti negli anni Settanta aveva fatto arrivare
alla Sir di Nino Rovelli finanziamenti agevolati e contributi
a fondo perduto non solo dal ministero per gli Interventi
straordinari per il Mezzogiorno (da lui diretto), ma anche
dall'istituto di credito Italcasse, poi fallito.
In cambio aveva ricevuto da Rovelli cospicue tangenti pagate
tramite assegni circolari intestati a nomi di fantasia. I
titoli di credito erano poi finiti in
mano a esponenti della banda della Magliana, a boss mafiosi
legati al coimputato di Andreotti Tano Badalamenti, e al patron
del Cantagiro Ezio Radaelli. Pecorelli, prima della sua morte,
stava per pubblicare sulla sua rivista Op le fotocopie
delle matrici degli assegni in un servizio dal titolo Gli
assegni del presidente. Non fece in tempo.
L'impresario musicale Radaelli, che aveva ricevuto quegli
assegni direttamente dalle mani di Andreotti, per 15 anni
non disse niente. Interrogato per la prima volta nel 1980
tenne fuori il leader Dc e in cambio ricevette gratis per
due anni un appartamento concesso da Rovelli. Poi, nel '93,
il colpo di scena. Radaelli racconta tutto alla Dia (Direzione
investigativa antimafia), ma il giorno prima di essere sentito
anche dai magistrati riceve la visita
del segretario particolare di Andreotti, Carlo Zaccaria.
Il quale tenta di nuovo di farlo tacere, ma viene scoperto.
Secondo i giudici di primo grado la storia degli assegni se
pubblicata nel '79 avrebbe nuociuto molto al presidente del
Consiglio. Anche perché la rivista di Pecorelli non
aveva per lui un occhio di riguardo. Proprio Op aveva
rivelato come Andreotti disponendo,
da ministro della Difesa, "intercettazioni telefoniche
e ambientali illegali" nei confronti di avversari della
Dc avesse "autorizzato lo spionaggio politico".
Per questo, nel timore che la vicenda degli assegni venisse
a galla, Pecorelli era stato invitato a cena da un collaboratore
di Rovelli. A quella cena aveva partecipato anche il pm di
Roma Claudio Vitalone, legatissimo ad Andreotti. E durante
l'incontro, scrivono i giudici, Vitalone tentò di dissuadere
Pecorelli dal pubblicare lo scoop. È in
questo quadro (certificato dalla vecchia sentenza di assoluzione)
fatto di tangenti, pressioni e depistaggi, che matura l'omicidio
del giornalista. In primo grado la corte d'Assise ritenne
che le accuse mosse contro il leader Dc dal pentito Tommaso
Buscetta fossero senza riscontro. In appello qualcosa cambia,
ed esplodono le polemiche.
(L'Espresso, dicembre 2002)
Andreotti:
assolto?
di Gianni Barbacetto
Assolto al processo d'appello per
mafia a Palermo, hanno scritto tutti i giornali. Restituito
l'onore a Giulio e alla storia della Dc, hanno dichiarato
gli amici democristiani. Ma la sentenza dice tutt'altro:
prescritti i reati per i troppi anni passati, ma i fatti
restano: il leader dc aveva rapporti con i capi di Cosa
nostra, almeno fino alla primavera del 1980...
La sentenza d'appello di Palermo
del 2 maggio 2003 a carico di Giulio Andreotti dovrà
entrare nella storia dei media e del giornalismo. Assolto,
hanno scritto tutti giornali, hanno detto tutti i telegiornali.
Restituito l'onore al leader democristiano e alla Dc, hanno
commentato festosi Pierferdinando Casini e tanti altri ex
democristiani. Sconfitti definitivamente Gian Carlo Caselli
e i magistrati palermitani, hanno sibilato i soliti commentatori
dell'Italia alle vongole. Peccato che non sia andata così.
È tutta un'altra storia.
Giulio Andreotti aveva nel processo palermitano due
capi d'imputazione. Il «capo a»: associazione
a delinquere per aver avuto rapporti, incontri e contatti
con i boss di Cosa nostra pre-corleonesi, con la mafia di
Stefano Bontate e Tano Badalamenti. Il «capo b»:
associazione a delinquere di stampo mafioso per aver avuto
rapporti, incontri e contatti con la mafia «vincente»
di Totò Riina, dopo che i corleonesi avevano fatto
fuori a colpi di kalashnikov Bontate e centinaia di mafiosi
delle cosiddette «famiglie perdenti».
Il «capo a» si riferisce a fatti fino al
1980. In quell'anno Bontate viene ucciso e il suo posto viene
preso da Riina. L'accusa è di associazione a delinquere
"semplice", perché ancora non era stato introdotto
il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso, che
sarà varato nel 1982. Da quell'anno, dunque, scatta
la nuova imputazione, con pene maggiori e termini di prescrizione
più lunghi: è il «capo b».
La sentenza d'appello conferma l'assoluzione concessa
in primo grado per il «capo b», seppur con il
riferimento al secondo comma dell'articolo 530 (ossia: per
insufficienza di prove). La testimonianza del "pentito"
Balduccio Di Maggio, quello che ha raccontato l'incontro con
bacio tra Andreotti e Riina, non ha convinto i giudici.
La sentenza d'appello riforma invece
l'assoluzione di primo grado per il «capo a»,
riconoscendo la prescrizione. Ossia: i fatti contestati sono
avvenuti , i rapporti, incontri e contatti tra Andreotti e
la mafia ci sono stati. «Fino alla primavera del 1980»,
precisa il dispositivo della sentenza: cioè fino alla
data dell'ultimo incontro in Sicilia tra il leader dc e Bontate.
Ma poiché non c'era ancora il reato d'associazione
mafiosa, il più blando reato d'associazione "semplice"
si prescrive in 22 anni e mezzo. Dunque nel dicembre 2002.
Se la sentenza fosse arrivata cinque mesi prima, serebbe stata
di condanna.
Lasciamo che i «giustizialisti» (quelli veri,
da Berlusconi a Ferrara) siano soddisfatti dell'assoluzione.
Ma noi, che non abbiamo l'ossessione dei tribunali e della
verità processuale, ma puntiamo alla sostanza dei fatti,
alla realtà effettiva, storica e politica, possiamo
prendere atto che Andreotti ha avuto rapporti, incontri e
contatti con i boss di Cosa nostra, almeno fino alla primavera
del 1980. È stato salvato solo da quello strano marchingegno
giuridico italiano che si chiama prescrizione. Si mettano
il cuore in pace gli ex democristiani, si acquieti Cossiga,
che si scaglia contro i magistrati colpevoli di aver spiegato
la verità della sentenza nascosta dai media... Sarà
anche giudiziariamente assolto, ma resta accertato
che Andreotti con la mafia è sceso a patti, ha incontrato
il boss Mangiaracina, ha conosciuto i mafiosi cugini Salvo,
ha più volte stretto la mano al boss dei boss Stefano
Bontate, mentre attorno gli uomini dello Stato, della politica
e delle istituzioni che non cedevano alla mafia cadevano falciati
dai kalashnikov.
4 maggio 2003
Andreotti, ma quale assoluzione?
di Marco Travaglio
Ma di quale sentenza stanno parlando? Ma di quale "conferma
della prima assoluzione" vanno cianciando? Ma di quale
"teorema giustizialista" straparlano?
Eppure il presidente Scaduti l'ha detto chiaro e tondo, e
tutte le televisioni l'hanno trasmesso senza rendersi conto
di quel che facevano: "Il reato di associazione per delinquere
commesso fino alla primavera del 1980 è estinto per
prescrizione", mentre per l'associazione mafiosa successiva
al 1982 si conferma la prima sentenza: assoluzione per insufficienza
di prove. Ora, lorsignori lo conoscono il significato di "associazione
per delinquere", di "commesso" e di "prescrizione"?
E lo sanno quando è scattata la prescrizione di quel
reato? Nel dicembre 2002.
Cioè 22 anni e 6 mesi dopo la primavera del 1980 (quando
si svolse l'ultimo incontro Andreotti-Bontate). Cioè
poco più di quattro mesi fa. Il che significa che la
Procura di Caselli (ieri definito "sconfitto" e
addirittura "condannato" da qualche analfabeta)
aveva visto giusto quando aveva chiesto e ottenuto di far
processare Andreotti.
E aveva sbagliato il Tribunale ad assolvere l'imputato,
sia pure con formula dubitativa, per il periodo degli anni
70. Infatti, con l'impostazione della Corte d'appello, nel
processo di primo grado (concluso nell'ottobre 1999) Andreotti
sarebbe stato condannato per associazione per delinquere,
cioè per la sua alleanza organica con Cosa Nostra fino
al 1980. Cioè per aver incontrato come affermavano
numerosi collaboratori di giustizia, ma soprattutto un testimone
oculare, Francesco Marino Mannoia boss del calibro
di Stefano Bontate, per parlare del delitto Mattarella.
E per aver incontrato anche il boss Badalamenti, come aveva
testimoniato Tommaso Buscetta, avendolo appreso dalla viva
voce di don Tano a proposito del delitto Pecorelli.
Insomma, se l'appello fosse finito entro il 20 dicembre
dell'anno scorso, con quattro mesi e mezzo di anticipo, Andreotti
sarebbe stato condannato in base all'articolo 416, cioè
all'associazione "semplice", visto che quella aggravata
di stampo mafioso (416 bis) fu introdotta nel codice penale
soltanto nel 1982, con la legge Rognoni-La Torre.
Le sguaiataggini dell'avvocatessa Buongiorno, reduce dai fiaschi
di Perugia, sono comprensibili: doveva gettare un po' di fumo
negli occhi ai giornalisti, nella speranza (in gran parte
ben riposta) che non si accorgessero della prescrizione o
fingessero di non vederla. Molto più abbacchiati apparivano
invece i colleghi Gioacchino Sbacchi e Franco Coppi, principi
del foro, che le sentenze le sanno leggere meglio di quanto
non riescano a recitare: dev'essere frustrante per un avvocato
difensore passare da un'insufficienza di prove a una condanna
per omicidio a una reformatio in pejus in appello con prescrizione,
e per giunta per il rotto della cuffia.
E' comprensibile anche l'impudenza del senatore a vita,
che parla di "falsi testimoni e falsi pentiti",
quando il reato ritenuto provato e prescritto l'hanno raccontato
proprio testimoni e pentiti giudicati attendibili dalla Corte
(che lui stesso definisce "molto obiettiva").
E' comprensibile, infine, il delirio del cavalier Silvio Berlusconi
("è stato abbattuto il primo dei teoremi giustizialisti
del 1993 che voleva sfigurare la storia d'Italia"), che
ormai usa tutte le sentenze, anche quelle pronunciate in Australia,
siano esse di condanna o di assoluzione o di prescrizione,
per piazzare disperatamente il suo ultimo prodotto avariato:
l'immunità parlamentare per "ripristinare lo spirito
della Costituzione" (quella che due settimane fa lui
stesso definiva "sovietica", beccandosi le reprimende
di Andreotti). Si comprende, infine, la svogliatezza che coglie
politici e commentatori di fronte a sentenze di 6 mila pagine,
come quella di primo grado: informarsi è faticoso,
lavorare stanca.
Ma qui basta leggere il dispositivo. Una paginetta, non di
più. Con un piccolo sforzo, si può capire tutto.
E, fatta salva l'ignoranza crassa o la demenza galoppante,
si potrebbero evitare corbellerie come il titolo del Giornale
di oggi: "Andreotti mafioso era uno scherzo". O
come le autorevolissime scemenze pronunciate ieri dai presidenti
di Camera e Senato, che hanno subito voluto congratularsi
col senatore a vita prescritto.
Casini ha straparlato di "onore ristabilito" (ma
forse parlava di onore nel senso siciliano del termine). Pera
ha farfugliato di una "riparazione di un torto inferto
per anni all'immagine della Dc e dell'Italia" (ma forse
si riferiva allo discredito arrecato al partito e al Paese
dalla cinquantennale presenza di uno come Andreotti). I leader
centrosinistri si sono invece affannati a esaltare il "fair
play" e "l'esemplare comportamento processuale"
tenuto dall'imputato.
L'unico concetto che questi tartufi riescono a esprimere,
a proposito di un senatore a vita condannato in appello a
24 anni per omicidio e miracolato dalla prescrizione e dall'insufficienza
di prove per il reato di mafia, è che si comporta da
vero signore. Non dice le parolacce, non sporca, non mangia
con le mani, non si mette le dita nel naso.
Due corti d'appello dicono che ha fatto ammazzare un giornalista,
incontrato e aiutato i capi della mafia, ma è tanto
educato e tanto ammodo, signora mia.
Marco Travaglio, 4 maggio 2003
Le
tre svolte di Giulio
Che cosa dice veramente la sentenza d'appello di Palermo.
Andreotti mafioso fino al 1980, ma assolto per prescrizione.
E dopo? Quando decise davvero che la mafia era cattiva? I
commenti (incredibili) di politici, avvocati, giornalisti,
sulla "mafia buona", sul "sapevamo tutti"...
di Gianni Barbacetto
Per tre volte, nella sua
lunghissima vita politica, Giulio Andreotti ha bruciato
le navi, si è tagliato i ponti alle spalle. Per tre
volte ha compiuto una svolta radicale: cambiando tutto per
non cambiare niente. La prima volta è stata nel 1974,
quando in una clamorosa intervista ha «bruciato»
Guido Giannettini, linformatore dei servizi segreti
ricercato per la strage di piazza Fontana in contatto con
gli stragisti neri. La seconda è stata nel 1990, quando
ha ammesso lesistenza di Gladio e ha reso pubblico un
primo, parziale elenco dei membri della pianificazione segreta
anticomunista. La terza è stata quando lo «zio
Giulio», dopo anni di «amichevoli rapporti»
con i boss siciliani, ha voltato le spalle a Cosa nostra.
Quando è avvenuta la terza svolta? Nella primavera
del 1980, dicono le motivazioni della sentenza dappello
di Palermo del processo ad Andreotti Giulio, imputato di associazione
per delinquere e associazione di tipo mafioso. È avvenuta
molti anni dopo, allinizio degli anni Novanta, dicono
invece alcuni studiosi di cose mafiose. Comunque sia, oggi
almeno una cosa si può affermare: Giulio Andreotti
senatore a vita della Repubblica italiana, sette volte
presidente del Consiglio, limmagine stessa del potere
in Italia è stato strettamente legato ai boss.
Sarebbe stato condannato per i fatti fino alla primavera 1980,
se la sentenza non fosse arrivata troppo tardi: lassociazione
per delinquere si prescrive infatti dopo 22 anni e mezzo,
quindi nellinverno 2002. La sentenza è arrivata
il 2 maggio 2003. Andreotti, dunque, ha evitato la condanna
per pochi mesi.
Ha un bel dire, il presidente della Camera Pierferdinando
Casini, che la storia la devono scrivere gli storici e non
i giudici. Gli storici non potranno fare a meno di leggere
anche questa sentenza, che allinea una serie di fatti
rapporti, contatti, incontri, connivenze, scambi tra
«zio Giulio» e i boss. Fatti provati. E non sarebbe
male che la leggessero anche i politici, per evitare di rilasciare
dichiarazioni inadeguate. «E i fatti che la Corte ha
ritenuto provati dicono, comunque, (...) che il senatore Andreotti
ha avuto piena consapevolezza che suoi sodali siciliani intrattenevano
amichevoli rapporti con alcuni boss mafiosi; ha, quindi, a
sua volta, coltivato amichevoli relazioni con gli stessi boss;
ha palesato agli stessi una disponibilità non meramente
fittizia, ancorché non necessariamente seguita da concreti,
consistenti interventi agevolativi; ha loro chiesto favori;
li ha incontrati; ha interagito con essi; ha loro indicato
il comportamento da tenere in relazione alla delicatissima
questione Mattarella, sia pure senza riuscire, in definitiva,
a ottenere che le stesse indicazioni venissero seguite; ha
indotto i medesimi a fidarsi di lui e a parlargli anche di
fatti gravissimi (come lassassinio del presidente Mattarella)
nella sicura consapevolezza di non correre il rischio di essere
denunciati; ha omesso di denunciare le loro responsabilità,
in particolare in relazione allomicidio del presidente
Mattarella, malgrado potesse, al riguardo, offrire utilissimi
elementi di conoscenza». Così dice la sentenza.
«Di questi fatti, comunque si opini sulla configurabilità
del reato, il senatore Andreotti risponde, in ogni caso, dinanzi
alla Storia».
IL CASO MATTARELLA. Continuano i giudici: «La
manifestazione di amichevole disponibilità verso i
mafiosi è stata consapevole e autentica e non meramente
fittizia». Conseguenza: «La manifestazione di
amichevole disponibilità verso i mafiosi, proveniente
da una personalità politica così eminente e
così influente, non ha potuto, di per sé, non
implicare la consapevole adduzione alla associazione di un
rilevante contributo rafforzativo». In altre parole:
Cosa nostra, la più pericolosa organizzazione criminale
italiana, è stata rafforzata in maniera rilevante dall«amichevole
disponibilità» di un politico così potente.
Ce nè abbastanza per giustificare un civile disprezzo
per il senatore, o almeno per smetterla di invitarlo ai talk
show o dintervistarlo con deferenza su ogni argomento?
Lepisodio più agghiacciante che i giudici
gli addebitano è la vicenda Mattarella. Piersanti Mattarella,
leader democristiano e presidente della Regione siciliana,
viene ucciso il giorno dellEpifania, il 6 gennaio 1980.
Gli sparano sotto casa, a Palermo, mentre con la moglie, la
madre e i suoi due figli sta per uscire dal garage, diretto
a messa, alla parrocchia di San Francesco da Paola. Anni dopo,
il collaboratore di giustizia Francesco Marino Mannoia spiega:
«Dopo avere intrattenuto rapporti amichevoli con i cugini
Salvo e con Stefano Bontate, ai quali non lesinava favori,
Mattarella successivamente aveva mutato la propria linea di
condotta». Voleva ripulire la Dc siciliana. Aveva rotto
con le vecchie amicizie. Era entrato in rotta di collisione,
per esempio, con lonorevole democristiano Rosario Nicoletti.
Nicoletti, testimonia Marino Mannoia, «riferì
a Bontate».
I vertici di Cosa nostra, preoccupati per latteggiamento
di Mattarella, chiedono allora un incontro con il loro massimo
referente politico, Giulio Andreotti. E la richiesta è
rapidamente soddisfatta. Il grande statista scende a Palermo
e si incontra con i suoi: lonorevole Salvo Lima, i cugini
Salvo, lonorevole Nicoletti. E con il capo di Cosa nostra,
Stefano Bontate. Il vertice tra Andreotti e Bontate avviene
in una riserva di caccia, tra la primavera e lestate
del 1979. Ma Mattarella non cambia linea e così viene
eseguita la sentenza di morte. Nicoletti non regge al rimorso
e si uccide. Andreotti torna in Sicilia, torna a incontrarsi
con Bontate: fa le sue rimostranze, come dopo un piccolo sgarbo,
un affare andato male. Non una denuncia, non una parola ai
magistrati. Dopo molti anni, Franco Evangelisti, braccio destro
di Andreotti, dichiara a verbale: «Conoscevo Piersanti
Mattarella. Dopo che questi fu ucciso, chiesi pure a Salvo
Lima che cosa ne pensasse. Egli mi rispose con questa sola
frase: Quando si fanno dei patti, vanno mantenuti».
Ora la sentenza, dopo 22 anni e mezzo più qualche
mese, dice: «I fatti non possono interpretarsi come
una semplice manifestazione di un comportamento solo moralmente
scorretto e di una vicinanza penalmente irrilevante, ma indicano
una vera e propria partecipazione alla associazione mafiosa,
apprezzabilmente protrattasi nel tempo». Ma Andreotti
incassa lassoluzione «e per il resto, amen».
Altri, attorno a lui, minimizzano, dicendo che, in fondo,
«tutti sapevamo da tempo» (Giuliano Ferrara),
o che la colpa di Andreotti è di aver accettato il
«quieto vivere», che le sue responsabilità
sono quelle, politiche, di aver creato in Sicilia un blocco
di potere che inglobava anche la mafia (Emanuele Macaluso).
Ma è «risaputo», è «politico»,
è «quieto vivere» incontrare almeno un
paio di volte il capo di Cosa nostra e discutere con lui
animatamente, per carità dellomicidio
di un compagno di partito in Sicilia?
LA SVOLTA. Dicono i giudici che la svolta avviene «progressivamente»
dopo il 1980, dopo lomicidio di Mattarella. In quelloccasione,
Andreotti «non si è mosso secondo logiche istituzionali,
che potevano suggerirgli di respingere la minaccia alla incolumità
del presidente della Regione facendo in modo che intervenissero
per tutelarlo gli organi a ciò preposti e, per altro
verso, allontanandosi definitivamente dai mafiosi, anche denunciando
a chi di dovere le loro identità e i loro disegni:
il predetto, invece, ha, sì, agito per assumere il
controllo della situazione critica e preservare la incolumità
dellonorevole Mattarella, che non era certo un suo sodale,
ma lo ha fatto dialogando con i mafiosi e palesando, pertanto,
la volontà di conservare le amichevoli, pregresse e
fruttuose relazioni con costoro, che, in quel contesto, non
possono interpretarsi come meramente fittizie e strumentali».
Eppure molti commenti hanno, anche in questo caso,
minimizzato, giocando con le parole: Andreotti avrebbe avuto
rapporti, in fondo, con l«ala moderata»
di Cosa nostra, o addirittura la «mafia buona»
(Giulia Bongiorno). In che cosa consisteva la «moderazione»
(o la «bontà») della Cosa nostra di Stefano
Bontate, Salvatore Inzerillo, Tano Badalamenti? Furono loro
a entrare alla grande nel business delleroina, diventando
raffinatori in Sicilia e esportatori verso gli Usa. Furono
loro a scatenare loffensiva «colombiana»
del 1979, una mattanza senza precedenti in cui furono ammazzati
il capo della Squadra mobile di Palermo Boris Giuliano, il
capitano dei carabinieri Emanuele Basile, il capo del giudici
istruttori Cesare Terranova, il procuratore della Repubblica
Gaetano Costa, il presidente della Regione Piersanti Mattarella.
Furono loro a eliminare Peppino Impastato, quello dei Cento
passi. Di questa mafia Andreotti fu sodale, intraprendendo
«una vera e propria partecipazione alla associazione
mafiosa, apprezzabilmente protrattasi nel tempo».
Dopo l80, però, il senatore si sarebbe
progressivamente staccato dallantico sodalizio: i suoi
giudici hanno ritenuto insufficienti le prove portate dallaccusa
sui contatti successivi. Ma nel 1981 Bontate viene ucciso
durante la guerra di mafia scatenata dai corleonesi di Totò
Riina e Bernardo Provenzano. E gli uomini di Andreotti in
Sicilia, da Lima ai cugini Salvo, non soccombono insieme ai
«perdenti»: annusata laria, li abbandonano
e passano con i corleonesi. Per unaltra decina danni.
Andreotti, il loro capo a Roma, non sapeva, non vedeva, non
capiva? Nel 1982 viene ucciso il prefetto Carlo Alberto dalla
Chiesa, che prima di partire per Palermo passa da Andreotti
per dirgli che non avrà riguardo per la «famiglia
politica più inquinata dellisola» e il
senatore «sbiancò in volto».
È solo alla soglia degli anni Novanta che le
cose cambiano davvero. Andreotti capisce che il sistema non
regge più e (come aveva fatto per le «stragi
di Stato» e per Gladio) manovra per sganciarsi dai cattivi
rapporti siciliani. Lascia mano libera, al ministero della
Giustizia, a Claudio Martelli e al suo nuovo direttore degli
Affari penali, Giovanni Falcone. Non si mobilita perché
la Cassazione blocchi le condanne definitive ai mafiosi per
il maxiprocesso di Palermo. È solo allora che Cosa
nostra prende atto del «tradimento» e avvia la
stagione della resa dei conti: il 12 marzo 1992, a Mondello,
uccide il proconsole di Andreotti nellisola, Salvo Lima.
Negli ultimi attimi prima della morte, forse gli sarà
tornata alla mente la frase detta qualche anno prima a Evangelisti:
«Quando si fanno dei patti, vanno mantenuti».
Diario, 1 agosto 2003
Andreotti
innocente,
Violante colpevole
Dopo la sentenza della Cassazione che nell'ottobre 2003 annulla
la condanna di Perugia. Attacco al presidente della commissione
antimafia 1992-93 e sagra dell'ipocrisia. Giustizialista
di Gianni Barbacetto
Giustizialisti. Questo termine è usato (impropriamente,
ma ormai è entrato anche nella Garzantina) per rimproverare
chi sopravvaluta il piano giudiziario, gli interventi della
magistratura, le indagini di polizia, luso politico
delle sentenze. Ebbene: quanti giustizialisti, oggi, nellarea
della maggioranza... Tutti a strillare: «Assolto, Giulio
Andreotti è stato assolto». Quando fu condannato,
dicevano che «la storia non la devono scrivere i giudici»
(Pierferdinando Casini). Oggi i giudici che hanno assolto
vanno benissimo per scrivere la storia della Dc: lavata da
ogni macchia; senza alcuna compromissione con la mafia.
In realtà, la storia esige più distacco
e meno strumentalizzazioni. E, soprattutto, più attenzione
ai fatti: anche a quelli contenuti nelle sentenze dassoluzione.
Così lannullamento in Cassazione della sentenza
dappello che a Perugia condannava Andreotti a 24 anni
come mandante dellomicidio del giornalista Mino Pecorelli
non può annullare le contiguità accertate
tra gli andreottiani e lambiente dei killer della
Banda della Magliana e di Pippo Calò, linviato
di Cosa nostra a Roma, dove trattava da pari a pari con gli
altri poteri della capitale. Così la massiccia campagna
mediatica su Giulio assolto non può cancellare i fatti
ritenuti provati dalla sentenza dappello al processo
per mafia a Palermo: «E i fatti che la Corte ha ritenuto
provati dicono (...) che il senatore Andreotti ha avuto piena
consapevolezza che suoi sodali siciliani intrattenevano amichevoli
rapporti con alcuni boss mafiosi; ha, quindi, a sua volta,
coltivato amichevoli relazioni con gli stessi boss; ha palesato
agli stessi una disponibilità non meramente fittizia,
ancorché non necessariamente seguita da concreti, consistenti
interventi agevolativi; ha loro chiesto favori; li ha incontrati;
ha interagito con essi; ha loro indicato il comportamento
da tenere in relazione alla delicatissima questione Mattarella,
sia pure senza riuscire, in definitiva, a ottenere che le
stesse indicazioni venissero seguite; ha indotto i medesimi
a fidarsi di lui e a parlargli anche di fatti gravissimi (come
lassassinio del presidente Mattarella) nella sicura
consapevolezza di non correre il rischio di essere denunciati;
ha omesso di denunciare le loro responsabilità, in
particolare in relazione allomicidio del presidente
Mattarella, malgrado potesse, al riguardo, offrire utilissimi
elementi di conoscenza».
Così dice la sentenza di Palermo, che conclude:
«Di questi fatti, comunque si opini sulla configurabilità
del reato, il senatore Andreotti risponde, in ogni caso, dinanzi
alla Storia». Lepisodio più agghiacciante
che i giudici gli addebitano riguarda Piersanti Mattarella,
leader democristiano e presidente della Regione siciliana.
Viene ucciso il giorno dellEpifania, il 6 gennaio 1980,
a Palermo, mentre con la moglie, la madre e i suoi due figli
sta per uscire dal garage, diretto a messa. Voleva ripulire
la Dc siciliana, aveva rotto con le vecchie amicizie, era
entrato in rotta di collisione con lonorevole democristiano
Rosario Nicoletti. E Nicoletti, testimonia Marino Mannoia,
«riferì a Bontate», che agì di conseguenza.
Prima chiese un incontro con il massimo referente politico
dellorganizzazione, Giulio Andreotti, che scese a Palermo
e sincontrò con i suoi (lonorevole Salvo
Lima, i cugini Salvo, lonorevole Nicoletti) e con il
capo di Cosa nostra, Stefano Bontate.
Il vertice tra Andreotti e Bontate scrive la
sentenza del luglio 2003 avvenne in una riserva di
caccia, tra la primavera e lestate del 1979. Ma poi
Mattarella non cambiò linea e così la sentenza
di morte fu eseguita. Nicoletti, non reggendo al rimorso,
si uccise. E Andreotti tornò in Sicilia, per incontrarsi
di nuovo con Bontate: fece le sue rimostranze, come dopo un
piccolo sgarbo, un affare andato male. Non una denuncia, non
una parola ai magistrati. Dopo molti anni, Franco Evangelisti,
braccio destro di Andreotti, dichiarò a verbale: «Conoscevo
Piersanti Mattarella. Dopo che questi fu ucciso, chiesi pure
a Salvo Lima che cosa ne pensasse. Egli mi rispose con questa
sola frase: quando si fanno dei patti, vanno mantenuti».
Dice la sentenza di Palermo: «I fatti non possono
interpretarsi come una semplice manifestazione di un comportamento
solo moralmente scorretto e di una vicinanza penalmente irrilevante,
ma indicano una vera e propria partecipazione alla associazione
mafiosa, apprezzabilmente protrattasi nel tempo». Assolto,
dunque? Solo a metà: soltanto per i fatti successivi
al 1980. Per i suoi rapporti con la mafia «fino alla
primavera 1980» sarebbe stato condannato, a Palermo,
se la sentenza non fosse arrivata troppo tardi (lassociazione
per delinquere si prescrive dopo 22 anni e mezzo, quindi nellinverno
2002, e la sentenza è arrivata il 2 maggio 2003: prescrizione,
dunque, per un pugno di mesi).
Ma, ribadito tutto ciò, perché la politica,
che sempre rivendica a parole la sua autonomia,
non riesce a fare a meno delle sentenze: quelle di condanna,
quelle dassoluzione, quelle di prescrizione... Perché
è così forte il giustizialismo degli impuniti,
che le sventola (quando sono favorevoli) come fossero bandiere,
titoli donore, medaglie al merito. Capaci di far dimenticare
qualunque fatto. La politica dovrebbe saper arrivare prima,
selezionare i migliori ed espellere gli indegni senza che
si muovano i giudici. Qualunque sentenza arriva sempre troppo
tardi: perché la politica intanto è stata sconfitta.
Invece la politica italiana, che ha identificato la
democrazia con lanticomunismo (e poi, più prosaicamente,
con la perpetuazione del proprio potere), si è permessa
di usare ogni strumento anche la corruzione, la mafia,
le stragi sapendo di essere improcessabile e sentendosi
intimamente innocente. Lo era di fatto in un mondo diviso
in blocchi, continua a esserlo anche oggi perché i
vecchi strumenti servono a legittimare i nuovi poteri. Ma
se Andreotti è innocente, colpevoli sono allora quelli
che lo hanno messo sotto accusa. I magistrati Gian
Carlo Caselli in testa che hanno fatto quello che non
potevano non fare (lazione penale è obbligatoria).
Luciano Violante che con la sua commissione antimafia denunciò
il nesso tra mafia e politica.
Qui lipocrisia raggiunge il culmine. La relazione
della commissione antimafia, approvata il 6 aprile 1993, non
diceva una parola dellomicidio Pecorelli. E su Andreotti
si limitava a osservare che «risultano certi alla commissione
i collegamenti di Salvo Lima con uomini di Cosa nostra. Egli
era il massimo esponente in Sicilia della corrente che fa
capo a Giulio Andreotti. Sulla eventuale responsabilità
politica del senatore Andreotti, derivante dai suoi rapporti
con Salvo Lima, dovrà pronunciarsi il Parlamento».
La relazione fu approvata da tutta la commissione democristiani
compresi, Borghezio entusiasta tranne Marco Taradash,
allora radicale, e Altero Matteoli, allora missino: volevano
un testo più duro. Poi la politica, non la magistratura,
il Senato al completo, non la procura di Caselli, decise di
concedere due autorizzazioni a procedere contro Andreotti,
a Palermo (per mafia) e a Perugia (per lomicidio Pecorelli).
Cerano state le stragi, erano morti Giovanni Falcone
e Paolo Borsellino, le bombe di Firenze, Roma e Milano tentavano
di ricattare il Paese. Le istituzioni reagirono, Palermo mise
i lenzuoli antimafia alle finestre, i latitanti furono presi,
da Totò Riina a Nitto Santapaola, da Leoluca Bagarella
a Giovanni Brusca. I mafiosi arrestati constatarono che la
loro epoca era finita, e iniziarono in tanti a collaborare
con la giustizia. Al nord, intanto, il pool Mani pulite scopriva
la grande corruzione di Tangentopoli e lItalia tutta,
di destra e di sinistra, viveva una primavera della legalità,
a Milano come a Palermo. Per qualche mese sembrò che
la storia dItalia fosse destinata a una svolta definitiva.
Ne erano entusiasti (quasi) tutti, a destra e a sinistra.
Anche (non senza esagerazioni e, addirittura, cappi agitati
in Parlamento) leghisti e missini, Vittorio Feltri ed Emilio
Fede, Marcello Pera ed Ernesto Galli della Loggia.
Ma poi la svolta non ci fu, la finestra della storia
presto si richiuse. Luno si divise in due. Una parte
dei tifosi (spesso i più accesi) di Mani pulite e dellantimafia
tornò nel solco delleterna storia italiana. E
oggi siamo qui, a sentire che Andreotti è innocente
e che Violante è colpevole. Che bisogna «convivere
con la mafia» (Pietro Lunardi). Che la commissione antimafia
di Violante (che votava allunanimità) era un
«incubatore infettivo del virus giustizialista che ha
avvelenato il sistema dei partiti» (Ottaviano Del Turco).
E la commissione Telekom Serbia di Enzo Trantino, con tutti
i suoi depistaggi e faccendieri, massoni e spioni, allora
che cosè?
Ecco dove cade chi oggi cerca di spiegare Mani pulite
e lantimafia del 1992-94 come un grande complotto o
un grande imbroglio: non sa dar conto di sé, della
sua mutazione genetica, della sua trasformazione da tifoso
in avversario. Deve oscurare una parte di se stesso e della
sua storia. In nome di che cosa? Di una poltrona al governo,
di un posto nella maggioranza, della permanenza al potere?
Del rientro nelleterna tradizione del trasformismo italiano?
Diario, 7 novembre 2003
Per altri commenti e informazioni su Andreotti,
con interventi di Peter Gomez
e Marco Travaglio,
clicca la fraccia qui sotto
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