Storia del Signor Savoia3. Craxi, Berlusconi, la politica Già in passato Vittorio Emanuele si era avvicinato a un politico italiano: Bettino Craxi. Era la fine degli anni Settanta, e lo scenario era quello dell'isola di Cavallo, in Corsica. Lì passava una parte delle sue lunghe vacanze Silvano Larini, l'uomo che aveva fatto conoscere Craxi e Berlusconi e che all'epoca era uno dei cassieri dei conti segreti del segretario socialista. A Cavallo, anzi Cavallò, territorio francese, andava in vacanza anche Vittorio Emanuele. Isola esclusiva, lembo di paradiso, pochi gli ospiti ammessi. Naturale incontrarsi, parlarsi. Larini, bon vivant, all'inizio frequentava per lo più Marina Doria, la consorte del principe, ma da cosa nasce cosa. Silvano e Vittorio Emanuele si conoscono e decidono di fare business insieme: lanciare l'isola come luogo esclusivo di vacanze. Ancora una volta, Vittorio Emanuele e il suo blasone funzionano come spot pubblicitario per attirare una selezionata folla di nuovi ricchi e consumati tangentomani a caccia di patenti per entrare nel jet set.
Peccato che un colpo di fucile, nell'agosto 1987, rovini tutto: durante un litigio ad alto tasso alcolico con il playboy Nicky Pende, a Vittorio Emanuele scappa uno sparo nella notte e a farne le spese è un giovane velista tedesco, Dick Hammer, che dormiva tranquillo nella sua barca. Il processo in Francia mandò libero il principe (sola condanna: sei mesi con la condizionale per porto abusivo d'arma), con qualche protesta dell'opinione pubblica e l'indignazione dei parenti del ragazzo morto. L'affare di Cavallo ne risentì, ma intanto Vittorio Emanuele era entrato, grazie a Larini, nel nuovo giro. Affari e politica, sempre, ma questa volta all'ombra di Craxi. L'industria italiana delle armi, del resto, era finita nell'orbita socialista; l'Agusta, per esempio, era passata dal conte Corrado alle Partecipazioni statali, sotto la guida di un manager craxiano doc, Roberto D'Alessandro. Quante intermediazioni, quanti miliardi sono arrivati sui conti riservati all'estero di Corrado Agusta e del signor Savoia! Su Craxi, Vittorio Emanuele rilasciò ai giornali italiani dichiarazioni entusiastiche, che potrebbero sembrare stupefacenti in bocca a un monarchico per obbligo di nascita. Poi, passata l'epoca del craxismo, l'ammirazione la trasferì direttamente a Silvio Berlusconi: «È un buon manager, può rimettere ordine nell'economia italiana», disse ai cronisti nel 1994. Come? Per esempio cancellando quel «disastro» che è «lo Statuto dei lavoratori, con il divieto di licenziamento». Apprezzamenti naturali, tra compagni di loggia. Ma con un finale obbligato per il principe: «Io? Non faccio politica». A Ginevra c'è ancora chi favoleggia di una cena a tre al Richmond Hotel, con Vittorio Emanuele, Silvano Larini e il banchiere Chicchi Pacini Battaglia, altro cassiere delle tengenti socialiste. Era l'inizio della lunga latitanza di Larini, che prima di sparire per molti mesi lontano dai magistrati di Mani Pulite - racconta la leggenda - volle vedere i due amici per salutarli e forse, chissà, per chiarire qualche delicata procedura d'affari e di conti. Il principe, comunque, nel maggio 1992 dichiarò al Giornale: «Peccato che ci sia tanta corruzione, la storia delle tangenti, delle bustarelle... è disonorevole». Il manager Vittorio Emanuele di Savoia tentò parecchi affari. E proprio per conto di aziende di quello Stato in cui non può entrare. Fece intermediazioni per Italimpianti e Condotte, entrambe aziende Iri. Il metodo di quegli affari, in piena Tangentopoli, è conosciuto: un fiume di miliardi esce dalle casse dello Stato, va a finanziare opere e imprese spesso inutili, e infine torna in parte nelle casse dei partiti e nei conti all'estero dei loro leader, attraverso l'intermediazione di personaggi compiacenti. Questo in generale, s'intende; sui comportamenti finanziari del principe in particolare, niente d'irregolare è emerso. Del resto, il signor Savoia è un italiano speciale, è l'unico italiano off-shore. Dunque questo manager particolare operò all'estero, all'ombra della Partecipazioni statali. Ebbe un ruolo, per esempio, negli affari realizzati a Bandar Abbas, in Iran: lì gli italiani buttarono parecchi soldi (pubblici) per costruire un'acciaieria (Italimpianti) e un porto (Condotte). Fu un disastro industriale. Ma fece girare molti miliardi. Tanto che alla fine scoppiò un litigio durissimo (per questioni di soldi) tra l'erede Savoia e un armatore genovese, Enrico De Franceschini. Qualche giornalista andò a curiosare nel fiume di dollari e tangenti che scorgò da quella campagna d'Iran e alle Bahamas scoprì una strana società coinvolta, la Financial. Non si riuscì a saperne molto, ma circolò l'indiscrezione che fosse controllata dal Savoia.
Vero? Falso? Il principe non si abbassa a parlare di questi particolari materiali. Quanto ai banchieri, in genere sono riservati, quelli delle Bahamas poi sono blindati. In Iran il principe tentò anche un altro business, più soft: un'impresa editoriale, in società con altri amici del suo club, Angelo Rizzoli e Bruno Tassan Din, compagni di lista P2. La Rizzoli, allora, era nelle mani del banchiere Roberto Calvi (altro socio di loggia), che finì male: rovinato dalla bancarotta, inseguito da creditori molto molto esigenti, infine appeso sotto un ponte di Londra. Così anche quel lavoro iniziato in Iran andò buttato. Del resto, l'amico Scià fu cacciato da Komeini e le porte del Paese furono sbarrate. Ma Vittorio Emanuele non è tipo da scoraggiarsi per qualche fallimento. Primo, perché dai fallimenti all'italiana un po' di soldi restano comunque attaccati. Secondo, perché, chiusa l'avventura persiana, la sua compagnia si ricicla in altri Paese del Vicino Oriente, Egitto, Giurdania, Israele. Re Hussein di Giordania è suo amico, naturalmente; ma il principe considera suoi amici anche l'ex presidente egiziano Sadat, poi ucciso, e il dittatore iracheno Saddam Hussein, e anche il presidente palestinese Yasser Arafat. Nel 1995 si recò in Iraq dicendo di rappresentare aziende italiane: «Ma no, niente elicotteri, niente armi», rassicurò in un'intervista, «tecnologia agricola, invece, trattori, strumentazione. Superato l'embargo, l'Iraq di Saddam tornerà benestante e competitivo». La missione terminò con una salmonellosi e la febbre a quaranta. Ad Arafat e «agli amici israeliani» nel 1997 propose la costruzione di un ponte autostradale e ferroviario tra Gerico e Gaza, con la speranza di attirare investimenti del Fondo monetario e della Banca mondiale. Per ora non se n'è fatto niente. Non andò bene neppure il progetto di sfruttamento turistico di Manoel Island, un'isoletta davanti a Malta. Narra la leggenda che alla fine degli anni Ottanta, durante le vacanze invernali passate a Gstaad, il principe, attorniato come sempre da qualche faccendiere a caccia d'affari, mise a punto un piano per realizzare nell'isoletta un porto turistico, 400 ville extralusso, due alberghi, un campo da golf, un casinò. Investimenti per 200 miliardi dell'epoca. Anche stavolta non se ne fece nulla. Anzi, tutto finì con una causa davanti ai giudici maltesi, perché il socio locale del principe, il giovane avvocato Mark Micalleff, gli chiese un ricco risarcimento per una complicatissima vicenda di patti non rispettati. L'unico ricordo regale che restò a Micalleff, alla fine della vicenda, fu una monarchica, sobria, sintetica scritta sul frigorifero di casa, vergata con un pennarello dalla mano di Vittorio Emanuele, durante una cena in cui cucinò agnello al vino rosso e uova strapazzate: «Viva Io». Degli affari in Italia del principe, invece, si sa poco. Alla fine degli anni Settanta comprò il 30 per cento di un'azienda laziale, la Industrial Habitat, che produceva villette prefabbricate e godeva degli aiuti della Cassa per il Mezzogiorno. Niente di più. Trasparenza zero: degli affari Savoia si riesce a sapere qualcosa soltanto quando qualche socio si sente fregato o dai rari documenti giudiziari di qualche magistrato coraggioso. Tornerà in Italia, il principe-manager? Anche a sinistra
qualcuno ha cominciato da tempo ad allargargli le braccia. In passato
Vittorio Emanuele è riuscito a piazzare dichiarazioni vergognose,
come quella sulle leggi razziali firmate da suo nonno nel 1938: «No,
io per quelle leggi non devo chiedere scusa, e poi non sono così
terribili», disse al Tg2 il 1 maggio 1997. Tra le mille gaffes del
suo inesauribile repertorio, il signor Savoia è riuscito ultimamente
a pronunciare anche qualche frase non controproducente, come quelle della
lettera a Carlo Azeglio Ciampi, «presidente di tutti noi
italiani», dopo i funerali di Maria José, la regina
antifascista. Basterà? Qualcuno continuerà forse a chiedergli
conto degli errori storici della dinastia. Nessuno gli ha mai chiesto
nulla sulla sua poco edificante storia personale.
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