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La legge salva-Dell'Utri

Giustizia fai-da-te: dopo rogatorie, falso in bilancio e legittimo sospetto, arrivano il patteggiamento allargato, l'inutilizzabilità delle intercettazioni telefoniche e le immunità parlamentari. Con l'aiuto, dal centrosinistra, di Marco Boato. Una norma sui tabulati telefonici sembra fatta su misura per il senatore di Forza Italia sotto processo a Palermo. E infatti...

di Gianni Barbacetto




Palermo, processo a Marcello Dell’Utri,
pomeriggio di giovedì 10 aprile. Si alza l’avvocato Giuseppe Di Peri, difensore del senatore di Forza Italia, e chiede la parola. È da due mesi che i legali di Dell’Utri chiedono continui rinvii dell’audizione in aula di un consulente della Procura di Palermo, Gioacchino Genchi, che ha lavorato sui tabulati telefonici del braccio destro di Silvio Berlusconi. Le ripetute richieste di rinvio sono motivate con gli impegni parlamentari dell’imputato (senatore della Repubblica e anche parlamentare europeo). Gli avvocati tentano anche di far dichiarare inutilizzabili i tabulati e inammissibile la testimonianza del consulente. Invano: i tabulati telefonici sono una prova essenziale per dimostrare le accuse.

Allora, il 10 aprile, ecco la mossa a sorpresa:
Di Peri comunica al Tribunale che il giorno prima, mercoledì 9 aprile, la Camera ha approvato alcune norme proprio sull’utilizzabilità di intercettazioni e tabulati telefonici. Norme che incideranno sul processo, e in particolare sulla prova che per due mesi la difesa del senatore era riuscita a non far arrivare in aula. «Mi permetto di prevedere», dice l’avvocato, «che entro e non oltre quindici giorni» l’altro ramo del Parlamento approverà definitivamente la legge. L’avvocato aggiunge di aver ricevuto «assicurazioni in tal senso». Conclusione: il Tribunale conceda dunque un’ulteriore sospensione, per permettere alla legge salva-Dell’Utri di venire approvata.

Non era mai successo che in un’aula di giustizia
si ammettesse apertamente, senza troppi giri di parole, di contare su leggi ad personam, di aspettare norme su misura, confezionate appositamente per un imputato. Le leggi su misura, come sappiamo, non sono una novità: negli ultimi mesi rogatorie, falso in bilancio, legittimo sospetto ci hanno aperto un mondo. Ma erano sempre presentate come leggi buone e giuste per tutti, che poi casualmente risolvevano anche qualche problemino a un pugno di imputati eccellenti. Il 10 aprile, invece, la musica cambia: un avvocato dichiara in aula di aver ricevuto «assicurazioni» addirittura sui tempi d’approvazione («entro e non oltre quindici giorni») di una norma di legge che risolve il processo e azzera le prove contro un imputato.

Aspetteremo ancora qualche giorno
per vedere se le «assicurazioni» saranno mantenute. Certo è che in questi giorni il Parlamento e la politica italiane sono impegnati in una intensa attività per risolvere, con leggi da varare in fretta e furia, i problemi giudiziari di alcuni cittadini italiani, i cui nomi sono Marcello Dell’Utri, Cesare Previti e, sopra tutti, Silvio Berlusconi.

OPPOSIZIONE MORBIDA


Alla Camera dei deputati ha avuto una corsia preferenziale
la legge sul patteggiamento allargato. Prevede che i processi possano essere bloccati per 45 giorni: uno stop per dare la possibilità a qualunque imputato di valutare se patteggiare o no. Un’ennesima dilazione che potrebbe essere utile per bloccare alcuni processi eccellenti, in attesa di una soluzione legislativa. Come quella che potrebbe arrivare con la legge sull’«attuazione dell’articolo 68 della Costituzione» (cioè sulle garanzie processuali spettanti ai parlamentari): la legge sull’immunità parlamentare ha ottenuto, alla Camera, la benevola astensione dell’Ulivo. Queste nuove norme serviranno a salvare Previti, che (a suon di ricusazioni) continua a cercare d’allontanare la fine del processo di Milano? E Berlusconi riuscirà a bloccare la sentenza Toghe sporche prima di diventare presidente di turno dell’Unione europea?

Il suo avvocato-parlamentare Gaetano Pecorella
ha mandato segnali all’opposizione, chiedendo apertamente una norma che sospenda i processi al presidente del Consiglio (e alle alte cariche dello Stato, che però non hanno di questi problemi). Una norma che potrebbe essere inserita, come emendamento, al Senato: «Un’opposizione responsabile», dice Pecorella, «dovrebbe favorire questa soluzione, proprio perché, con la presidenza del semestre europeo, l’Italia si troverà al centro dell’Europa, che in questo momento storico è anche il centro del mondo. Se invece vorrà lo sfascio...».

Poi c’è il caso Dell’Utri.
Meno noto, più defilato, quasi invisibile per la stampa italiana, che non spende una parola per raccontare le avventure processuali palermitane del fondatore di Forza Italia. Ma è un caso molto istruttivo, che fa capire l’aria che tira in questo momento tra le aule parlamentari e quelle di giustizia.

COMPLOTTO PER PENTITI E ORCHESTRA


Il processo a Dell’Utri
su cui sono ora appuntati gli sguardi è uno dei due che si celebrano a Palermo contro il senatore. Non il più noto, in cui Marcello è imputato di concorso esterno nell’organizzazione mafiosa chiamata Cosa nostra. Ma l’altro, con accusa di calunnia aggravata nei confronti di alcuni collaboratori di giustizia.
La storia, molto in breve, è questa. Dell’Utri, già sotto inchiesta per mafia, contatta un paio di mafiosi «pentiti» (Cosimo Cirfeta e Giuseppe Chiofalo), con i quali prepara una complessa manovra: i due – secondo l’accusa – si impegnano a raccontare di essere stati avvicinati da altri collaboratori di giustizia, che li volevano spingere ad aggiungersi agli accusatori di Dell’Utri, inventandosi falsi addebiti a suo carico. Se l’operazione fosse andata in porto, l’effetto sarebbe stato dirompente: sarebbe crollata la credibilità di tutti i testimoni contro Dell’Utri e sarebbe invece passata l’ipotesi di un complotto, di un accordo tra «pentiti» ai danni del collaboratore di Berlusconi.

I magistrati di Palermo e gli agenti della Dia
scoprono però il piano. La Direzione investigativa antimafia filma addirittura alcuni incontri tra Dell’Utri e Chiofalo, uno dei due falsi «pentiti». Questi, scoperto, ammette: «Dell’Utri mi disse: “Confermi le accuse di Cirfeta e io farò ricco lei e la sua famiglia, avrà per sempre la riconoscenza mia, del dottore Berlusconi e quella di tutte le persone che ci vogliono bene”...». Per questa vicenda, la Procura di Palermo nel marzo 1999 chiede al Senato addirittura l’arresto di Dell’Utri, che viene però salvato dal voto dell’aula.

Il consulente Gioacchino Genchi,
analizzando per la Procura i tabulati del traffico telefonico, ha scoperto contatti tra Dell’Utri e i due uomini di Cosa nostra avvenuti ben prima del giorno ammesso dal senatore: è la prova oggettiva del tentativo di Dell’Utri di manovrare i due falsi «pentiti». Ma quei tabulati non sono ancora riusciti ad arrivare nell’aula del tribunale, dove diventerebbero prova processuale. Due mesi di rinvii e, ora, la richiesta dell’ulteriore stop in attesa di quella che a Palermo qualcuno ha già chiamato «legge Genchi».

Che cosa prevede, infatti, la norma
già approvata dalla Camera sull’immunità parlamentare? Il Parlamento dovrà votare se concedere o no l’autorizzazione all’uso, nei processi, di intercettazioni e tabulati raccolti in precedenza e che convolgono, indirettamente, un deputato o un senatore (indirettamente: perché nei confronti di parlamentari le intercettazioni dirette sono vietate). Se il Parlamento dirà no, la documentazione dovrà essere distrutta, salvando così anche l’eventuale mafioso (regolarmente intercettato) che sia stato sorpreso a parlare con un parlamentare. Ma non occorrerà neppure il voto negativo dell’Assemblea parlamentare: basterà tirare in lungo, non votare la richiesta dei magistrati, poiché le nuove norme non prevedono termini di tempo.

Per quanto riguarda Dell’Utri,
la nuova legge obbligherà il Senato a votare sull’utilizzo o meno nel processo dei tabulati raccolti da Genchi. La prova dei contatti con i mafiosi uscirà così dal processo penale per entrare nel novero delle materie politiche da decidere a colpi di maggioranza.

Diario, 24 aprile 2003

Dell'Utri 2, la vendetta

Il giudizio d'appello deve decidere se valutare o escludere tre nuovi capitoli di accuse. Intanto si chiude il caso Cirfeta e si apre il caso Giuffrida: il consulente di Bankitalia al processo è citato da Fininvest per danni

di Gianni Barbacetto

Mentre i giudici, a Palermo, stavano per leggere la sesta sentenza a suo carico,   Marcello Dell'Utri, a Milano, presentava alla stampa il suo corso «d'informazione politica» per i giovani, 25 conferenze sui più disparati argomenti con i più disparati relatori (da Rosa Alberoni a Sandro Bondi, da Carlo Taormina al braccio destro di D'Alema, Nicola Latorre). «Della sentenza non mi curo, io non aspetto niente, sennò non sarei qui. Sono portatore sano di cancro giudiziario», ripeteva Dell'Utri nella sede del suo Circolo, in via Marina. Poche ore dopo, la sentenza è arrivata. Per le agenzie, i telegiornali e i siti d'informazione è subito assoluzione. In realtà è un'assoluzione «per non aver commesso il fatto», «ai sensi dell'articolo 530 secondo comma»: vuol dire che «il fatto» di cui Dell'Utri era imputato è avvenuto, ma la prova è insufficiente per arrivare a una condanna. Con qualche complicazione tecnico-giuridica in più.

La sesta sentenza (dopo quella sulla bancarotta per il crac Bresciano, un paio di condanne ormai definitive per le false fatture di Publitalia, la condanna per estorsione aggravata per aver mandato un boss mafioso a fare recupero crediti e infine la condanna a 9 anni in primo grado per concorso esterno nell'associazione mafiosa Cosa nostra): è quella che arriva da un processo «minore». Secondo l'accusa, Dell'Utri aveva avvicinato due «pentiti», Cosimo Cirfeta (nell'estate 1997) e Giuseppe Chiofalo (nel 1998), promettendo denaro e sostegno se avessero raccontato di essere stati avvicinati da altri collaboratori di giustizia che volevano spingerli ad aggiungersi agli accusatori di Dell'Utri, inventando falsi addebiti a suo carico. Se l'operazione fosse andata in porto, l'effetto sarebbe stato dirompente: sarebbe crollata la credibilità di tutti i testimoni anti-Dell'Utri e sarebbe passata l'ipotesi di un complotto, di un accordo tra «pentiti» ai danni del braccio destro di Silvio Berlusconi.

Ma i magistrati di Palermo e gli agenti della Direzione investigativa antimafia scoprono il piano. Gli agenti della Dia filmano addirittura alcuni incontri nel 1998 tra Dell'Utri e Chiofalo. Questi poi racconta: «Dell'Utri mi disse: "Confermi le accuse di Cirfeta e io farò ricco lei e la sua famiglia, avrà per sempre la riconoscenza mia, del dottor Berlusconi e quella di tutte le persone che ci vogliono bene"».

Dell'Utri e i due «falsi pentiti» sono accusati di calunnia aggravata. Chiofalo confessa, racconta la manovra e patteggia la pena. Cirfeta s'uccide in carcere prima della fine del processo, ma non viene assolto nel merito: il reato è invece dichiarato «estinto per morte del reo», dunque la calunnia c'è stata. In questa strana storia, alla fine l'unico assolto, seppur per insufficienza di prove, è Dell'Utri. Il tribunale, evidentemente, non ha ritenuto sufficientemente provati i contatti tra Dell'Utri e Cirfeta nel 1997, quando la manovra è nata; mentre ciò che è successo l'anno dopo, con gli incontri filmati e chiaramente documentati tra Dell'Utri e Chiofalo, non è servito al processo, perché Chiofalo è stato scoperto prima di aver potuto compiere il reato, cioè confermare Cirfeta, come gli chiedeva Dell'Utri. Insomma: la manovra calunniosa di Dell'Utri c'è stata, se avesse funzionato sarebbe stata la fine del processo Dell'Utri per mafia, ma alla fine Dell'Utri non è condannabile.

Ora, terminato il processo «minore» (l'assoluzione, comunque motivata, non è più appellabile grazie alla provvidenziale legge Pecorella), resta quello maggiore, appena aperto a Palermo: l'appello per il concorso esterno in associazione mafiosa. Il 26 ottobre si deciderà come proseguire. Il processo potrebbe imboccare una strada breve o una più lunga. La prima sarà percorsa nel caso la corte d'appello decida di non riaprire il dibattimento, ma di giudicare sulla base di ciò che è emerso in primo grado. In questo caso, la sentenza potrebbe arrivare in poche settimane.

La seconda strada è più complessa. I sostituti procuratori che hanno rappresentato l'accusa in primo grado, Domenico Gozzo e Antonio Ingroia, hanno presentato motivi d'appello segnalando tre nuovi capitoli che aggiungono elementi d'accusa contro Dell'Utri: i rapporti con il sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino; la scoperta di una Fininvest Gran Cayman, emersa nell'inchiesta romana sulla morte del banchiere Roberto Calvi; i contatti tra casa Dell'Utri e Vito Roberto Palazzolo, boss latitante in Sudafrica.

L'assegno di Ciancimino. Un'inchiesta su Massimo Ciancimino, figlio dell'ex sindaco mafioso di Palermo, ha permesso di raccogliere una nuova prova sui rapporti tra Ciancimino padre e l'allora nascente Fininvest, di cui Dell'Utri era l'ambasciatore in Sicilia. In una telefonata intercettata il 5 marzo 2004 tra i fratelli Massimo e Luciana Ciancimino, la seconda riferisce di essere stata chiamata da un certo «Gianfranco» (Miccichè?), legato a Silvio Berlusconi, che l'aveva invitata alla manifestazione a Palermo per i dieci anni di Forza Italia.

Era l'occasione buona, aveva detto «Gianfranco», per farle conoscere Berlusconi. A questo punto Massimo Ciancimino interviene dicendo che in quell'incontro avrebbe potuto finalmente restituire a Berlusconi un assegno di 35 milioni consegnato anni prima al padre e conservato per tutto questo tempo «nella sua carpetta». Oggi Gozzo e Ingroia si chiedono (e vorrebbero chiedere aDell'Utri): quando e perché quell'assegno passò dalla Fininvest a Ciancimino?

La Fininvest Gran Cayman. Da un'altra inchiesta, quella romana sulla morte di Calvi - a cui ha collaborato come consulente della procura Francesco Giuffrida, già consulente a Palermo per il processo Dell'Utri - è emerso un antico rapporto societario tra Berlusconi e il banco Ambrosiano. Robinson Geoffrey Wroughton, che per la società di revisione Touche ha condotto accertamenti su richiesta della Liquidazione del Banco Ambrosiano Holding di Lussemburgo, ha confermato che questa holding lussemburghese controllata da Calvi ha compiuto nei primi anni Settanta investimenti in società ricollegabili alla Fininvest. E ha indicato il report Lovelock come luogo dove sarebbe conservata traccia di quelle operazioni finanziarie: Lovelock era una Anstalt del Liechtenstein che negli anni Settanta fondò la Banca del Gottardo. Giuffrida segnala gli esborsi di Capitalfin International Ltd, società della cosiddetta «costellazione estera» dell'Ambrosiano, verso la Fininvest Limited-Gran Cayman, società riconducibile a Berlusconi.

Gozzo e Ingroia a questo proposito chiedono che siano sentiti come testi Wroughton, Giuffrida e Carlo Calvi, figlio del banchiere dell'Ambrosiano, che ha già accennato a rapporti tra il padre e Berlusconi. Entrambi erano iscritti alla P2, come pure i funzionari della Bnl che agivano nelle fiduciarie Capitalfin (galassia Ambrosiano) e Servizio Italia (galassia Fininvest). Calvi fu in quegli anni «beneficiario di ingenti finanziamenti da parte di ambienti mafiosi». Quegli stessi ambienti presso cui Dell'Utri svolgeva la sua funzione di mediazione, per conto della Fininvest e di Berlusconi, «vittima consapevole» (come hanno scritto i pm) del rapporto che il suo collaboratore aveva stretto con gli uomini di Cosa nostra.

Palazzolo e l'affare africano. La terza richiesta di Gozzo e Ingroia riguarda i rapporti tra Marcello Dell'Utri e Vito Roberto Palazzolo, nato a Palermo ma riparato in Sudafrica, dove è conosciuto anche come Robert von Palace Kolbatschenko. Grande riciclatore dei narcodollari della Pizza connection, Palazzolo è considerato uomo d'onore della famiglia di Partinico, legata all'ala corleonese di Cosa nostra. Secondo il collaboratore di giustizia Antonino Giuffrè, Palazzolo è sempre stato vicino all'ultimo grande capo di Cosa nostra, Bernardo Provenzano, di cui ha curato alcuni interessi economici in varie parti del mondo. Negli anni, von Palace è diventato potente e ricchissimo, proprio grazie alla sua attività di riciclaggio di denaro di provenienza illecita e agli investimenti «dei ricavati di sua pertinenza nelle attività oggi a lui facenti capo».

Ebbene, è proprio questo Palazzolo dall'altissimo profilo finanziario (e criminale) che ha contatti con Dell'Utri e la sua famiglia. La sorella, Sara Palazzolo, che gestisce gli interessi in Italia di Vito Roberto, è più volte entrata in contatto con il manager di Berlusconi e i suoi familiari. Preoccupato per le rogatorie chieste dalla procura di Palermo e temendo che queste potessero sfociare in una richiesta d'estradizione, Palazzolo spinge la sorella a premere su Dell'Utri perché si attivi contro questa eventualità, perché intervenga a risolvere i problemi giudiziari e «ministeriali» (come bloccare, appunto, l'eventuale richiesta d'estradizione). In effetti, le cose per Palazzolo finirono bene. I contatti sono provati da alcune telefonate intercettate nel 2003, che i due pm ritengono «assolutamente necessarie» per la decisione del processo d'appello, perché dimostrano che «Dell'Utri accetta di incontrarsi con Palazzolo, uomo d'onore di Partinico, per il tramite della sorella (anch'essa imputata di associazione mafiosa)». E offre in cambio soci e capitali per investimenti in Angola, un «affare africano» per cui viene chiesto anche il sostegno di Berlusconi.

In una delle telefonate intercettate, registrata il 26 giugno 2003, Palazzolo dice alla sorella: «Non devi convertirlo, è già convertito...». Intendendo, secondo i magistrati, che Dell'Utri ha rapporti d'antica data con Cosa nostra e quindi è già disponibile. Per questo, scrivono Gozzo e Ingroia, «si fa istanza che la corte d'appello voglia richiedere al Senato della Repubblica l'autorizzazione alla utilizzazione» delle telefonate di Dell'Utri, protette e inutilizzabili perchè intercettate a un senatore.

Cittadino Giuffrida. Francesco Giuffrida, il consulente della procura, è il vicedirettore della Banca d'Italia, sede di Palermo. Quando nel 1999 depositò la sua prima analisi dei flussi finanziari avvenuti negli anni Settanta nella galassia societaria di Berlusconi, non sapeva che sarebbe stato lasciato solo. Ha compiuto il suo dovere su richiesta istituzionale, ha redatto i suoi rapporti, è andato a illustrarli, come gli è stato chiesto, al processo di primo grado con imputato dell'Utri. Ora Gozzo e Ingroia insistono perché torni anche nell'appello a raccontare che cosa ha scoperto analizzando i conti dell'Ambrosiano. Ma intanto la Fininvest lo ha citato «per danni morali» e il 12 ottobre lo ha convocato davanti al tribunale civile di Palermo, perché con il suo lavoro avrebbe danneggiato l'azienda nell'«immagine sociale, intesa quale complesso di valori professionali e morali».

Per aver fatto niente di più che il suo dovere, Giuffrida ora dovrà difendersi davanti al giudice. Da solo, di fronte a una richiesta di danni, da calcolare, per Fininvest, su «parametri massimi». «Sembra una minaccia, un modo per zittirlo e intimorirlo al processo d'appello», commenta un magistrato. Dovrà difendersi a proprie spese: Bankitalia non lo ha fatto neppure assistere dai suoi avvocati. Lo aiutano gli amici, che hanno lanciato un appello dal titolo: «Perché non vinca il silenzio», a cui si può aderire all'indirizzo giuseppe_giolitti@fastwebnet.it


 
 
 

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