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Milano da bere, atto secondo

Tangentopoli non finisce mai. Sono più di mille gli indagati per vicende di corruzione a Milano. Storia di Roberto Formigoni e della Regione Lombardia, periodicamente scossa dagli scandali. Senza fine

di Gianni Barbacetto

Tangentopoli è finita? Il sistema della corruzione politica appartiene ormai al passato? Basta considerare la cronaca delle massime istituzioni politiche con sede a Milano - il Comune, ma soprattutto la Regione Lombardia - per essere costretti a rispondere decisamente di no. Nella patria di Mani Pulite, a quasi dieci anni dall’inizio delle inchieste giudiziarie che avrebbero potuto cambiare in maniera duratura lo stile dei rapporti tra politica e affari in Italia, la corruzione continua come prima. Anzi, con in più una spudoratezza prima sconosciuta: invece di dimettersi, gli accusati oggi si dichiarano prigionieri politici.

In questo momento sono più di mille (!) gli indagati
per vicende di corruzione dalla procura della Repubblica di Milano: ma questo non fa più notizia. Eppure ciò avviene in un contesto in cui è già scoccato il cortocircuito politica-appalti-inefficienza: basti pensare all’incredibile blocco dell’aeroporto internazionale della Malpensa, retto da un manager come Giorgio Fossa, che sotto gli occhi di tutta Europa è andato in tilt a Natale per una piccola nevicata.

La nuova Tangentopoli silenziosa e invisibile
, dunque, ha un migliaio di imputati a Milano e hinterland, decine di municipi perquisiti, quintali di documenti sequestrati, oltre 30 miliardi di tangenti già recuperate. Le inchieste più clamorose, quelle che sono riuscite a "bucare" la soglia dell’indifferenza di direttori e capiredattori, spesso inutilmente assillati da cronisti sensibili e precisi, sono quelle che riguardano l’ex presidente del Consiglio comunale di Milano, Massimo De Carolis, di Forza Italia, accusato di aver offerto a un’impresa informazioni riservate sulla gara d’appalto per il depuratore Milano Sud, in cambio della promessa di un compenso di 200 milioni; e quella che nell’ottobre 1998 ha portato all’arresto di Giovanni Terzi, architetto e consigliere comunale di Forza Italia, presidente della Commissione urbanistica del Comune di Milano, per tangenti pagate per un affare immobiliare a Bresso, cittadina alle porte di Milano. La sera dell’arresto di Terzi, due autorevoli esponenti di Forza Italia, Ombretta Colli e Tiziana Maiolo, si sono precipitate al carcere di Opera, a portare solidarietà all’arrestato. "E’ la solita criminalizzazione di un partito politico", dichiarò Maiolo all’uscita, "il fattore scatenante per l’arresto di Terzi è stata la sua appartenza a Forza Italia".

Le altre decine di indagini e processi
oggi in corso per corruzione riguardano invece una schiera di funzionari del Comune di Milano, centinaia di amministratori dell’hinterland (di questi, quasi 400 erano impegnati nei Comuni a sud-est della metropoli, quasi tutti governati da giunte "rosse"); e poi politici e funzionari della Regione Lombardia. Proprio in quest’ultima istituzione si sono concentrati, negli ultimi mesi, i fatti più clamorosi: un’indagine giudiziaria aperta nei confronti del presidente Roberto Formigoni, con l’imputazione di abuso d’ufficio, per la gestione della fondazione Bussolera-Branca, che controlla un capitale di 168 miliardi; l’arresto di un assessore (Milena Bertani), di alcuni alti funzionari e del presidente della più importante commissione regionale (Gianluca Massimo Guarischi); il rinvio a giudizio di un altro assessore (Giancarlo Abelli). Lo stesso presidente della Regione, Roberto Formigoni, era già stato raggiunto in precedenza da un altro avviso di garanzia, per la gestione di una discarica. Per infinitamente meno, fino a qualche tempo fa, si facevano le valige e si toglieva il disturbo (così fu costretto a fare, per esempio, Ciriaco De Mita e lo stesso Bettino Craxi uscì dalla scena politica ben prima di ottenere un condanna).

Altri tempi, altra epoca geologica
, anche se erano solo pochi anni fa. Nel resto d’Europa (la Germania di Kohl, la Francia dell’ex ministro Strauss-Kahn) le dimissioni (politiche, non giudiziarie) sarebbero normali. Non da noi, dove, con tutto quello che sta accadendo dentro il governo della Regione più ricca d’Italia, la corruzione non fa notizia e nemmeno l’opposizione si arrischia a chiederle fino in fondo, con forza. Ormai pulizia e trasparenza sono evidentemente un optional e la soglia dell’indignazione si è alzata più di quella del comune senso del pudore.

Il Sistema Guarischi

Roberto Formigoni
- l’uomo che aspira a diventare il successore di Silvio Berlusconi, per portare a compimento la democristianizzazione di Forza Italia - è stato rieletto presidente della Regione Lombardia alle scorse regionali del 16 aprile 2000 con il 62,4 per cento dei voti. Un trionfo. Ha funzionato bene la grande macchina acchiappavoti di Comunione e liberazione-Compagnia delle opere e ha dato buoni risultati il patto stretto tra Berlusconi e Umberto Bossi. I leghisti, che fino a qualche mese prima delle elezioni erano i più duri oppositori del potere formigoniano e non perdevano occasione per convocare conferenze stampa per denunciarne i presunti "abusi", hanno dimenticato in un attimo i loro attacchi e si sono stretti attorno all’ex avversario.

In cambio, hanno ottenuto un Formigoni
"governatore" regionale, fautore dell’autonomia lombarda, che si fa fotografare in mezzo agli altri due "governatori" del Nord, il veneto Giancarlo Galan e il piemontese Enzo Ghigo, con i quali (pur con significative resistenze di Ghigo) ha avviato la riscossa delle regioni nordiste (e poliste) contro lo Stato centralista, romano (e ulivista). Dopo la rielezione, in un giorno dalle reminiscenze patriottiche, il 24 maggio - ironia della sorte - Formigoni ha chiesto alla sua squadra di pronunciare un "solenne giuramento", rivolto "alla Lombardia e al suo popolo". Questa volta il Piave non ha mormorato, in compenso hanno gioito i leghisti, appena conquistati alla maggioranza. Quel giuramento è un atto simbolico quasi secessionista, ha protestato qualcuno. Ma il "governatore" è andato avanti, senza curarsi troppo del galateo istituzionale.

Non erano passati neppure quattro mesi dall’inedito giuramento, e sulla nuova giunta del "governatore" si è abbattuto il primo scandalo: il 22 settembre 2000 viene arrestato Gianluca Massimo Guarischi, coordinatore provinciale di Forza Italia e presidente della commissione Bilancio della Regione. Finisce in carcere insieme ad altre otto persone, alti funzionari (come Mario Catania, vicecommissario per l’Emergenza) o imprenditori. Tre mesi dopo, il 13 dicembre 2000, è arrestata anche Milena Bertani, del Ccd, assessore prima ai Lavori pubblici e poi al Bilancio, privata della libertà insieme a Mario Giovanni Sfondrini, direttore generale del settore Opere pubbliche della Regione Lombardia. Bertani - diploma da geometra, ex segretaria della andreottiana Ombretta Fumagalli Carulli e poi esponente di rilievo del Ccd di Pierferdinando Casini - era stata scelta per il delicatissimo ruolo di assessore ai Lavori pubblici direttamente da Formigoni. Quanto a Guarischi, Formigoni da anni lo andava sostenendo, anche a dispetto della sua fama. Per esempio, lo aveva imposto come commissario straordinario dell’Ipab (un ricco ente assistenziale milanese) anche quando Guarischi era stato vistosamente messo da parte dal sindaco di Milano, Gabriele Albertini, ed escluso dalla gestione degli enti pubblici.

Aveva dovuto sopportare non poche ironie
, il povero Guarischi, raccontato dai giornali come un ragazzetto con la faccia da soap-opera, messo in politica dal padre (un costruttore a suo tempo arrestato per corruzione) per garantire continuità, dopo Mani pulite, alle aziende di famiglia. Il bel Massimo era noto al pubblico più che altro per aver condotto un programma in una tv di Berlusconi e per essere stato fidanzato della modella Celeste. Ma alla fine ha dimostrato di avere la stoffa del politico di razza e del manager di successo: ha infatti saputo costruire e mantenere, dopo i guai tangentizi paterni, un nuovo comitato d’affari, un sistema di corruzione complesso e articolato.

Secondo la ricostruzione dell’accusa
(coordinata dai sostituti procuratori Fabio Napoleone e Claudio Gittardi, i più attivi e silenziosi dei magistrati alle prese con la nuova Tangentopoli lombarda), Guarischi, con la complicità di Bertani, faceva i miliardi sui disastri (degli altri): frane, alluvioni, smottamenti. Il suo sistema di relazioni e di procedure imponeva che a vincere gli appalti regionali per la ricostruzione fossero le aziende di famiglia: Guarischi politico affidava i lavori a Guarischi imprenditore. Poi truffava sui materiali: piazzava tiranti più corti del dovuto, impiantava nel terreno meno pali e di diametro più piccolo ("Sui pali abbiamo fregato un trenta per cento", dice uno dei complici, intercettato dai magistrati ). Tutta la compagnia - politici, funzionari, amministratori, imprenditori - è accusata "di aver ridotto la Regione a una specie di mercatino", sintetizzano a Palazzo di giustizia.

Le imputazioni ufficiali sono corruzione
, frode allo Stato, associazione a delinquere: il gruppo, secondo l’accusa, aveva messo in piedi un sistema per truccare tutte le gare e controllare tutti gli appalti pubblici dei lavori regionali, dalla costruzione degli argini del torrente Seveso al ripristino delle sponde del Naviglio, dalla sistemazione delle frane in Valbondione al ristrutturazione dei torrenti in Val Tidone, fino al consolidamento dell’Adda. Guarischi nega tutto. Dichiara che tra gli imprenditori c’era soltanto un "gentlemen agreement".

In realtà, l’intervento illecito di pubblici funzionari
per ottenere vantaggi era diventato per Guarischi un metodo consolidato, una consuetudine assodata. Tanto che la sua famiglia vi ricorreva, scrive il giudice per le indagini preliminari Alessandro Rossato, "anche per le più banali necessità". Come l’iscrizione della moglie di Guarischi, Stefania Luraschi, all’Albo degli architetti: "Si può affermare", scrive Rossato, "che il segretario della Bertani, Paolini, sia intervenuto per favorire la moglie del Guarischi, affinché questa superasse l’esame d’iscrizione all’albo. l’episodio delinea la personalità di Guarischi, sempre teso a cercare ogni tipo di favore, in questo caso per la moglie, che recentemente, anche grazie al titolo professionale conseguito in modo illecito, è stata assunta presso la Regione Lombardia".

Formigoni non si era accorto di niente?
Perché proteggeva Guarischi, perfino contro il sindaco Albertini? Appena scoppiato lo scandalo, si è dichiarato "addolorato". E non per la corruzione che covava nei suoi uffici, ma "per un arresto che va assolutamente al di là di quanto la legge prescrive". Quando poi è arrivata l’alluvione che in ottobre ha battuto la Lombardia, il "governatore" perde un’occasione per stare zitto: "Avete visto? Le opere sotto inchiesta hanno resistito, dunque sono fatte a regola d’arte". Il giorno dopo, una delle opere incautamente evocate da Formigoni (l’argine di Crotta d’Adda) crolla.

Alla seconda tornata dello scandalo, nel dicembre 2000, quando sono tratti in arresto Milena Bertani e Giovanni Sfondrini, Formigoni reagisce rincarando le dosi contro i magistrati: "E’ un atto d’intimidazione. Sproporzionato, anzi del tutto ingiustificato in base alla legge vigente". Formigoni porta dunque tutta intera la responsabilità politica di aver scelto e sostenuto Bertani e Guarischi. Quanto a dirette responsabilità penali, il suo nome, a quanto è dato sapere finora, è entrato nelle carte dell’inchiesta soltanto per una citazione che Guarischi ha fatto al telefono (intercettato), parlando con il superfunzionario Sfondrini: è necessario spartire la torta di un appalto con un terzo commensale, un ex deputato dc, perché "è amico di Formigoni", ordina Guarischi. "Dagli una roba da poco: accontendando il professore, io e te con Formigoni siamo a posto"



Le Opere della Compagnia

Qualche giornale ha tirato in ballo, a proposito degli appalti sulle sciagure, anche un ex assessore regionale, Donato Giordano, socialista poi passato a Forza Italia, dipinto come uno che di affari se ne intende. Giordano, un tempo potente e ora emarginato, ha reagito immediatamente, spiegando così la situazione attuale in Regione: "Dietro a Guarischi c’è la Compagnia delle Opere, c’è l’assessore comunale Sergio Scalpelli, ex Pci, che si muove come una quinta colonna dentro Forza Italia. E c’è Formigoni... Io sono stato messo da parte proprio perché mi contrapponevo al loro gruppo...".

La lobby di Comunione e liberazione, attiva attraverso il braccio secolare della Compagnia delle Opere e forte di una corrente che, partito nel partito, ha conquistato gran parte del potere dentro Forza Italia in Lombardia: è questa la mente del nuovo sistema che regola gran parte dei rapporti tra politica e affari in Regione. Una lobby trasversale, che ha cooptato al proprio interno anche gli eredi dei "miglioristi", i nipotini dei comunisti filo-craxiani egemoni a Milano fino ai primi anni Novanta: Sergio Scalpelli, appunto, oggi assessore al Comune, ma in uscita dalla squadra di Albertini; Massimo Ferlini, ex assessore di Tangentopoli passato dal Pci alla presidenza della Compagnia delle Opere di Milano; Lodovico Festa, ex direttore del Moderno (giornale del Pci "migliorista" finanziato da Salvatore Ligresti, da Silvio Berlusconi e dal costruttore della Torno Angelo Simmontacchi), oggi braccio destro di Giuliano Ferrara al Foglio.

La Regione Lombardia è una grande dispensatrice di miliardi
. La sola spesa sanitaria è lievitata, sotto la gestione Formigoni, di 4 mila miliardi di lire, fino a raggiungere nel 1999 la quota record di 19 mila miliardi (più di un terzo entrata nelle casse delle cliniche e dei laboratori privati). Sulle forniture sanitarie è aperta un’altra inchiesta per appalti pilotati. Poi vi sono i servizi d’assistenza (un’altra bella fetta del budget regionale), in cui è attiva una miriade di cooperative legate a Comunione e liberazione. Formigoni, assistito dal suo braccio destro Nicola Sanese, diventato ormai (benché privo di alcun mandato elettivo) una sorta di "vicegovernatore" regionale, ha dilatato di molto anche l’apparato di comunicazione della Regione, che in cinque anni è passato a costare da 5 a 17 miliardi. Ha ingaggiato come consulenti personaggi interni a Cl (come Robi Ronza, una delle menti del Meeting di Rimini) o esterni (dall’ex ambasciatore Boris Biancheri all’ex rettore dell’università di Bologna Fabio Roversi Monaco, massone). Le spese regionali sono così cresciute fino a generare un disavanzo di 1.400 miliardi, altro record di Formigoni.

Privatizzare, imperativo categorico del "governatore"
, si traduce spesso nell’apportare discreti introiti alle casse degli amici di Cl e della Compagnia delle Opere, molto bravi a farsi trovare proprio al posto giusto al momento giusto: imprenditori della sanità o dell’assistenza privata, ma anche del turismo, del settore fieristico, della comunicazione. Vi è a Milano una specie di monumento visibile alla comunicazione di marca ciellina: i caselli di Porta Venezia, in ristrutturazione; i grandi pannelli pubblicitari che li ricoprono (ottimo investimento) sono gestiti da Chiara e Associati, agenzia del gruppo Santa Chiara, il club ciellino animato da Marco Palmisano.

I grandi affari urbanistici
sono un’altra partita in cui si agitano interessi pesanti. Su questi, i Comuni conservano competenze determinanti (a Milano, sulla poltrona di assessore all’Urbanistica siede comunque un amico di Formigoni, Maurizio Lupi, anch’egli di Cl). Ma la Regione non rinuncia neanche in questo campo alle proprie prerogative: ultimo esempio, la miracolosa trasformazione in aree edificabili di un pezzo di Parco Sud, cinque milioni di metri quadri alle porte di Milano, destinati a passare dal verde al cemento grazie a una decisione della giunta Formigoni presa alla chetichella, il 4 agosto 2000, approfittando della generale distrazione estiva.

Milena Bertani, Massimo Guarischi, Roberto Formigoni, Giancarlo Abelli

Storie nere e rifiuti d’oro

C’è un caso in cui Formigoni è stato chiamato direttamente
in causa per accertare eventuali responsabilità penali, anche prima della vicenda che riguarda la fondazione Bussolera-Branca. Il 14 luglio 2000, mentre l’operosa Lombardia si preparava alla chiusura per ferie, un avviso di garanzia è piovuto direttamente sulla testa del "governatore". La reazione di Formigoni, reduce dalla vittoria elettorale del maggio precedente, è stata durissima: "l’attacco contro di me è tutto e solo politico. è il vergognoso colpo di coda di un sistema politico-giudiziario agonizzante, un tentativo estremo del giustizialismo comunista e centralista". Sembra di sentire Berlusconi e Bossi insieme. I reati contestati riguardano la più sporca, la più interminabile, la più intricata delle faccende politico-affaristiche degli ultimi anni in Lombardia: la gestione della discarica di Cerro Maggiore.

Questa è una maxi-pattumiera
che ha raccolto per anni i rifiuti di Milano, città europea ancor oggi senza un sistema moderno di smaltimento dei rifiuti e ancora senza un depuratore delle acque. La vicenda offrirebbe a uno sceneggiatore tutti gli elementi per costruire un grande film noir: miasmi e spazzatura a cielo aperto, intrighi affaristici, mistero sui reali proprietari dell’impianto, valzer di prestanome, politici compiacenti, un fiume di soldi, bilanci falsificati, conti in Svizzera, un misterioso suicidio. Luigi Ciapparelli, manager comasco, morì nel suo ufficio all’interno della discarica il 13 febbraio 1997, per un colpo di pistola alla nuca sparato da alcuni centimetri di distanza. Si portò nella tomba i segreti dell’affare di cui era socio.

La super-pattumiera di Cerro
ha attraversato le stagioni, anche quelle di Mani pulite: fu al centro di una delle prime inchieste del pool milanese, conclusa con la condanna definitiva di Paolo Berlusconi per una tangente di 150 milioni versati nel 1992 al tesoriere della Dc Gianstefano Frigerio (oggi Forza Italia). Poi Berlusconi finse di uscire dalla Simec, la società che gestiva la discarica, vendendone alcune quote al ragionier Ciapparelli, ma in realtà restò, almeno fino al 1996, il vero controllore dell’impresa e il reale interlocutore della Regione.

Nel 1995 scoppiò in Lombardia la cosiddetta "emergenza rifiuti"
: non si sapeva dove mettere tutta la spazzatura prodotta da Milano e provincia. Formigoni la indirizzò a Cerro, che invece avrebbe dovuto chiudere, e si impegnò a pagare a Berlusconi 300 milioni al giorno per altri due anni: come un titolo di Borsa, infatti, il pattume da gettare in discarica aveva più che triplicato le sue quotazioni grazie alla sbandierata "emergenza rifiuti", schizzando da 30 a 108 lire al chilo. Nel 1996, dope l’ennesima protesta degli abitanti di Cerro, la discarica fu comunque chiusa. Ma solo nel 1999 ci fu un accordo per bonificarla. Il compito spettava ai proprietari, Berlusconi e soci, che in cinque anni d’attività avevano realizzato, secondo un rapporto della Guardia di finanza, "ricavi effettivi per almeno 240 miliardi": più che una discarica, una miniera d’oro. Invece Formigoni permise alla proprietà di usare per la bonifica i miliardi della fideiussione versata alla Regione. Forse l’avviso di garanzia è stato spedito a Formigoni proprio per questo uso improprio delle fideiussioni.

Ma nel corso delle indagini,
secondo quanto ha scritto il quotidiano Repubblica, è emerso anche un appunto scritto a mano, il verbale di una riunione tenutasi a Milano 2 alla presenza di Paolo Berlusconi e degli altri soci della Simec. Se è stato decifrato bene dai magistrati che indagano, il foglietto parla della costituzione, attraverso false fatture, di fondi neri all’estero per oltre 10 miliardi, preparati per pagare in nero nuove discariche e tangenti ai politici. Sul foglietto sono indicate anche alcune cifre ("500 milioni", "200 milioni"...) con accanto nomi o abbreviazioni ("Form", "Pozzi"...). Chi sono "Form" e "Pozzi"? Hanno davvero ricevuto quei soldi? Giovanni Butti, l’imprenditore comasco che ha scritto quel foglietto, tace. Luigi Ciapparelli, il ragioniere che ha gestito una parte di quei soldi, ha finito la sua carriera con un colpo di pistola alla testa.

Un Pozzi, di nome Giorgio, esponente di Forza Italia ed ex assessore regionale ai Trasporti, è indagato per tutt’altra faccenda: la trasformazione di terreni agricoli nei pressi di Lacchiarella, a sud di Milano, in preziose aree dove impiantare l’Interporto, la stazione d’incontro e scambio dei trasporti merce su camion e su rotaia. Erano terreni agricoli, marcite, risaie, campi sorvolati dai corvi (valore: 8 mila lire al metro quadrato) nei pressi di Lacchiarella, a sud di Milano, diventati preziose aree (valore: 20 mila lire al metro quadrato) su cui la Regione ha deciso di impiantare - non si sa perché e non si sa perché proprio lì - il più grande Interporto del Nord Italia. Chi ci ha guadagnato - facendo nel momento giusto incetta di aree agricole - sono i soliti noti, gli immobiliaristi Salvatore Ligresti, Antonio D’Adamo.
I magistrati vorrebbero sapere anche come è arrivato un finanziamento regionale di 2 miliardi e mezzo alla Ims, il consorzio pubblico-privato che dovrebbe realizzare l’Interporto e in cui sono rappresentati le Ferrovie, gli imprenditori privati, la Lega delle cooperative rosse.

Il dottore che faceva i regali


C’è un’altra storiaccia che coinvolge Formigoni
e i suoi uomini. è la vicenda che ha avuto per protagonista il dottor Giuseppe Poggi Longostrevi, il medico milanese che nel settembre 2000 si è tolto la vita. Era imputato per aver convinto centinaia e centinaia di medici, nell’europea Milano, a mandare i pazienti nelle sue cliniche e nei suoi laboratori, con conseguente aumento del fatturato, a spese della Regione: perché l’Italia è uno strano Paese che ha privatizzato la sanità - ma solo nel senso che a guadagnare sono i privati, mentre a pagare è la Regione, con soldi pubblici.

Il dottor Poggi Longostrevi, che nel suo genere era un genio
, aveva però escogitato un sistema più sofisticato: non si limitava a far mandare i pazienti presso le sue strutture sanitarie, ma aveva convinto i medici di base a inviarglieli con ricette che prescrivevano esami inutili, o non rimborsabili, o più complicati e costosi del necessario, o comunque non eseguiti. Così un fiume di soldi, uscito dalle casse delle Regione, affluiva nelle sue tasche. Nessuno si lamentava: i pazienti erano contenti di fare esami a raffica; i medici erano felici di ricevere 70 mila lire a ricetta, più qualche regalino (dalla cravatta al servizio di porcellana di Capodimonte); le aziende di Longostrevi erano entusiaste di lavorare a pieno ritmo, sottraendo al sistema sanitario nazionale 700 milioni al mese, per molti anni. l’unica a pagare, alla fine, era la Regione. Cioè tutti. Cioè nessuno.

Ma possibile che in Regione non ci fosse neppure un politico, neppure un funzionario che si fosse accorto della truffa? Uno, a dir la verità, se n’era accorto: Giuseppe Santagati, manager della Ussl 39 di Milano, che fece scoppiare il caso. Controllando i conti, si era accorto che qualcosa non quadrava. Fece un’inchiesta interna, si accertò delle irregolarità, infine le denunciò alla procura della Repubblica. Risultato: fu licenziato. Premiato con una poltrona da assessore, invece, fu un buon amico di Poggi Longostrevi, Giancarlo Abelli, politico pavese e manager della sanità lombarda. Un uomo con una lunga storia alle spalle. Ancor prima di Mani pulite, quando era democristiano, Abelli fu arrestato e processato. Assolto, tornò alla politica. Esperto di sanità, con un grande know-how in materia, fu chiamato da Formigoni come consigliere, proprio per la sanità.

Ma Abelli era anche amico e consulente di Poggi Longostrevi, che lo ebbe gradito ospite sul suo elicottero. Non sapeva niente, Abelli, della grande truffa che il suo amico medico stava attuando? In che cosa consisteva la sua "consulenza"? E a che titolo aveva ricevuto dei soldi (almeno 70 milioni non dichiarati) dall’imprenditore delle ricette d’oro? In un altro Paese europeo lo avrebbero comunque cacciato: Abelli o era complice o, peggio, non si era accorto di ciò che accadeva sotto il suo naso, dunque era stupido e incapace. Ma in Italia no: Formigoni se lo è tenuto vicino come superconsulente della sanità e, nel maggio 2000, lo ha chiamato a fare l’assessore alle Politiche sociali (la Sanità era già saldamente nelle mani di Carlo Borsani, An, un altro che da anni sta in quel posto e non si accorge di niente).

Abelli (passato intanto a Forza Italia), insieme a tutti gli altri assessori della nuova giunta formigoniana, il 24 maggio 2000 presta il suo "giuramento alla Lombardia e al suo popolo". Un grande ritorno alla politica. Peccato che uno scherzo del destino gli rovini la festa: proprio quel giorno, gli viene recapitato un rinvio a giudizio. Per aver ricevuto quei 70 milioni da Poggi Longostrevi, che, prima di morire, li aveva spiegati così: "Dovevo tenermi buono un personaggio politico che nel settore contava molto". E poi aveva aggiunto: "Alcuni sono stati costretti alle dimissioni solo per un sospetto, altri sono stati premiati con la nomina ad assessore".

Regione corrotta, nazione infetta


Dunque, una folla di politici, funzionari, imprenditori è indagata
a Milano e in Lombardia per vicende di corruzione. Centinaia di amministratori pubblici sono sotto processo per corruzione in campo urbanistico. Una quarantina di persone è stata arrestata per mazzette versate da imprese di pulizia e da aziende fornitrici di mense scolastiche. è sotto indagine la joint-venture per gestire 33 aeroporti argentini siglata dalla Sea (la società che gestisce gli aeroporti milanesi, quella che, sotto la guida di Fossa, a Natale non ha saputo resistere a dieci centimetri di neve). In questa vicenda, fra l’altro, è coinvolto anche Massimo De Carolis, che secondo l’accusa si è dato da fare per oliare l’affare, compenso promesso: mezzo miliardo).

E poi c’è la Sanitopoli lombarda:
quella vecchia, in cui il braccio destro di Formigoni per la sanità, Giancarlo Abelli, aveva rapporti piuttosto intensi con Giuseppe Poggi Longostrevi, ma anche quella nuova, con sotto accusa (per ora) un terzetto di manager della sanità di nomina politica (Vito Corrao del Fatebenefratelli, Pietro Caltagirone di Niguarda, Antonio Mobilia della Asl Milano) che erano in combutta con un fornitore, l’imprenditore Franco Maggiorelli, ricco di ottime entrature politiche (aveva buoni rapporti con l’assessore comunale ai Trasporti Norberto Achille di Forza Italia, con l’assessore regionale alla Sanità Carlo Borsani di An, con il capogruppo regionale di Forza Italia Fabio Minoli). Abelli ricompare anche qui: i magistrati lo accusano di aver anticipato a Maggiorelli le nomine dei manager e di avergli offerto i contatti giusti. Ma che importa: tutto ciò non impedisce a De Carolis di aspettare da Berlusconi una candidatura (sembra per il Senato) alle prossime elezioni; ad Abelli di aspirare a cumulare l’assessorato all’Assistenza con quello alla Sanità, realizzando una concentrazione di potere nel campo sanitario-assistenziale mai vista prima; e a Formigoni, responsabile politico delle azioni di Abelli come di quelle di Guarischi (di De Carolis no: appartiene a una cordata concorrente) di restare l’acclamato "governatore" della Regione, aspirante successore del lider maximo Berlusconi.

Chissà se è vero, come va dicendo qualcuno del suo ambiente, che tutte queste brutte vicende lo hanno fatto un po’ disamorare della politica lombarda, da cui fugge appena può con frequenti viaggi all’estero, in Iraq, in Brasile, in Cile... Certo è che ha comunque conservato il piglio decisionista: i suoi stessi assessori devono sottostare al suo controllo, o a quello del suo "vicegovernatore" Sanese; e il Consiglio regionale deve accettare di essere trasformato in un’assemblea senza poteri e con ben scarse possibilità di controllo su ciò che viene deciso dal presidente e dai suoi fedelissimi (in cambio, ai consiglieri hanno offerto più soldi: 63 milioni all’anno per un nuovo portaborse e 2 milioni in più di stipendio, che già si aggira sui 15 milioni al mese).

Intanto la secessione Formigoni l’ha già fatta. Non quella con le bandiere e gli squilli di tromba, ma quella reale, sostanziale, che realizza in Lombardia sistemi di governo in contrasto con quelli nazionali: nella sanità, nell’urbanistica, nella scuola. Il sistema sanitario lombardo, che ha trasformato le Asl in aziende che pagano le prestazioni e i servizi di ospedali pubblici e (in maniera crescente) di cliniche e laboratori privati, è diverso e in contrasto con il sistema sanitario nazionale. I criteri di calcolo degli standard urbanistici (le aree che devono restare a verde e servizi) decisi da Formigoni sono troppo flessibili e in contrasto con le leggi nazionali, tanto che per due volte la legge urbanistica regionale è stata bocciata dal governo. Sulla scuola, poi, Formigoni ha realizzato il suo capolavoro: ha fatto passare in Consiglio una legge formalmente accettabile (buoni-scuola per tutti gli studenti, per tutte le spese, in proporzione al reddito famigliare), ma poi l’ha ingessata con un regolamento attuativo che di fatto realizza un finanziamento esclusivo alle scuole private, e anche per famiglie con redditi alti.

Il Pirellone sede della Regione Lombardia
, quel grattacielo disegnato da Gio Ponti che resta oggi uno dei pochissimi elementi che contrassegnano lo skyline di Milano, è dunque oggi battuto da nuovi venti: quelli della strana rivolta di Formigoni contro Roma; quelli della politica, a suo modo "centralista", del "governatore" (la Regione decide tutto, anche contro i Comuni). E soprattutto quelli di una serie di infortuni giudiziari come mai prima, nemmeno negli anni d’oro di Tangentopoli.

Micromega, gennaio 2001


Il piccolo fratello

Storia di Paolo Berlusconi e della sua grande impresa:
governare i rifiuti di Milano

di Gianni Barbacetto e Paolo Biondani

Paolo Berlusconi ha sempre avuto un complesso: quello del fratello minore. Non ha mai sopportato il nomignolo che gli hanno affibbiato – Berluschino – e che riemerge in ogni ricostruzione delle sue attività imprenditoriali, in ogni resoconto giornalistico su di lui, anche il più benevolo. «Non chiamatemi più Berluschino», implorava un vecchio articolo-intervista dell’autorevole settimanale Il Mondo. Ho una mia personalità e miei propri business, spiegava dandosi un tono Paolo Berlusconi, immobiliarista, editore, finanziere, nato 13 anni dopo Silvio.

Quando fu arrestato, negli anni trionfali di Mani pulite, con l’accusa di aver pagato tangenti alla Guardia di finanza, uscì dal Palazzo di giustizia di Milano nascosto nel bagagliaio di un furgone Fiorino, per evitare i flash dei fotografi. Poi i paparazzi si sono rifatti, con soddisfazione di tutti, ritraendolo al fianco di Natalia Estrada. Ma anche quella volta del Fiorino, Paolino non riuscì a convincere fino in fondo né i magistrati né la stampa che fosse proprio lui il protagonista assoluto: a molti restò il dubbio che il fratellino si fosse prestato a coprire qualcuno più grande di lui.
Sono passati molti anni e siamo ancora lì: Paolo è sempre inchiodato all’ombra del Grande Fratello. Del resto, che Silvio sia ingombrante, come fratello, come padre, come marito, non stupisce: è il Presidente Imprenditore, Operaio, Artigiano, Perseguitato dalle Toghe Rosse, Napoleone e Giustiniano...

Ora, però, basta: per Paolo è venuto il momento della riscossa. Ha finalmente un’indagine, una grande indagine, tutta sua. Una storia complessa, sporca (tratta di immondizie), grondante liquami e miliardi. Ci sono fiumi di denaro che scompaiono nel nulla. Sistemi di società da far quasi invidia alle holding del fratellone. C’è perfino una morte oscura, un misterioso colpo di pistola alla nuca. E poi tangenti, fondi neri, disastri ambientali, politici compiacenti. Fino al clamoroso sequestro, deciso dai giudici la settimana scorsa, di metà dell’impero edilizio di Paolo Berlusconi. È la storia della discarica di Cerro Maggiore, vicino a Legnano, Lombardia, Italia.
Per raccontare questa storia, è necessario partire da un’affermazione quasi incredibile: Milano, grande città europea eccetera eccetera, non ha un sistema civile per lo smaltimento dei rifiuti. Scarica quel che può nei fiumi attorno e quel che proprio non può lo accumula nelle discariche o lo brucia negli inceneritori. Da anni discute di raccolta differenziata e impianti di depurazione, ma per ora l’unica cosa concreta che ha visto sono le indagini per le relative tangenti.

Dunque, tutti i rifiuti di Milano città europea eccetera, e relativa provincia, dall’ottobre 1990 al marzo 1996 sono stati accumulati nella maxipattumiera di Cerro Maggiore: più di un milione di tonnellate di sacchi neri, che si traducono in 243 miliardi di incassi per la società privata autorizzata dalla Regione Lombardia a costruire e a gestire, in quello che gli economisti chiamano regime di monopolio, l’impianto «d’emergenza» ricavato da un’ex cava. La società privata si chiama Simec spa. I suoi padroni sono Paolo Berlusconi e Giovanni Butti, commercialista a Como. A pagare i 243 miliardi è la Regione Lombardia. Ma con i soldi di tutti i cittadini.

UN COLPO DI PISTOLA.
La Simec aveva, fino a quattro anni fa, un terzo socio: un imprenditore italiano residente in Svizzera di nome Luigi Ciapparelli. Ma il ragionier Ciapparelli esce tragicamente di scena il 13 febbraio 1997: lo trovano nel suo box di lavoro, accanto alla discarica, morto per un colpo di pistola sparato alla testa. Quel giorno, alla Procura di Milano, è di turno il pubblico ministero Margherita Taddei, che ha appena indagato su uno strano suicidio di un carabiniere. Forse per la suggestione di quel precedente, il magistrato ordina ai militari di Cerro un’indagine non di routine anche sulla morte di Ciapparelli, che pure sembrava destinata a una rapida archiviazione, sotto la voce «suicidio»: appariva il gesto disperato di un dirigente d’azienda che proprio in quei giorni si trovava a fronteggiare una rivolta popolare, innescata dalla scoperta dell’improvviso cedimento del gigantesco muro in cemento che avrebbe dovuto contenere la montagna di rifiuti e difendere la salute dei cittadini di Cerro e della vicina Rescaldina.

Ma l’autopsia del ragioniere dà risultati sorprendenti: il proiettile ha colpito l’imprenditore non alla tempia, ma alla nuca; e sulla pelle manca il caratteristico alone dei colpi sparati a bruciapelo. Ciapparelli, insomma, si sarebbe sparato da qualche centimetro di distanza, puntandosi la pistola dietro alla testa. Una manovra – dicono i medici legali – anatomicamente possibile, ma senza dubbio inconsueta. Quel freddissimo 13 febbraio 1997 i carabinieri si presentano all’ospedale di Legnano, dove l’imprenditore era stato portato in condizioni disperate alle 10.20 del mattino. Basterebbe una banale «prova dello Stub» (il vecchio «guanto di paraffina», che identifica tracce di polvere da sparo) per dimostrare una volta per tutte che a impugnare l’arma fu proprio Ciapparelli. Ma qualcuno, in ospedale, ha già lavato le mani della vittima: così, addio certezze.

A Cerro in quel momento nessuno sospetta un giallo, eppure un familiare di Ciapparelli si sfoga con parole sibilline: «L’hanno ammazzato. L’hanno ammazzato i politici». A questo punto Margherita Taddei, invece di chiudere il caso, convoca una fidatissima pattuglia della Guardia di finanza e la incarica di ricostruire la situazione economica e amministrativa della maxidiscarica. Seguono quattro anni di indagini. Con risultati sorprendenti.

LA TANGENTE RINNOVABILE.
I primi, fondamentali rapporti investigativi sulla galassia Simec vengono consegnati alla Procura nel 1998. Oggi questa inchiesta sui segreti societari della discarica è finita: l’atto d’accusa finale è un dossier di 502 pagine a cui ha lavorato Margherita Taddei insieme alla collega Giulia Perrotti, specialista in bilanci, con il coordinamento del procuratore aggiunto Corrado Carnevali. Quelle 502 pagine hanno convinto il giudice per le indagini preliminari Rosario Lupo (il magistrato citato a modello da Cesare Previti per aver assolto lui e Silvio Berlusconi dall’accusa di aver corrotto il giudice romano che assegnò alla Fininvest il controllo della Mondadori) a sequestrare oltre 40 miliardi in contanti e sei società di Paolo Berlusconi.
L’ipotesi del giudice è che Berluschino nasconda nei suoi conti e nelle sue aziende miliardi di fondi neri ricavati dal business dei rifiuti. Quanto all’indagine sulla morte di Ciapparelli, è ancora da chiudere: il magistrato non ha ipotizzato l’omicidio, ma l’«istigazione al suicidio»; la Procura collega insomma quella morte alle troppe verità inconfessabili della grande pattumiera di Cerro, in 13 anni filati di corruzioni, riciclaggi, disastri ecologici, coperture politiche. Una Tangentopoli dei rifiuti che parte dal craxiano Silvano Larini per arrivare al ciellino Roberto Formigoni. Passando da lui: Paolo, il fratello di Silvio.

Superdiscarica, supertangenti: già nel 1992, secondo la confessione di Paolo Berlusconi ad Antonio Di Pietro, era stata pagata una mazzetta di 150 milioni alla Dc lombarda, nelle persone dei suoi tesorieri Maurizio Prada e Gianstefano Frigerio (quest’ultimo, dopo aver confessato decine di miliardi di tangenti, oggi è uno dei dirigenti nazionali di Forza Italia, di cui guida il Centro studi e ricerche). Ma sulle discariche, fin dal 1988, è stata impiantata una Tangentopoli più ampia e più totalizzante. Nella Tangentopoli classica, la mazzetta compra un appalto. Qui invece è stata comprata direttamente la legge regionale, varata nel 1990 dall’ultima giunta Dc-Psi, ai tempi in cui Silvano Larini, cassiere di Bettino Craxi, era stato messo al vertice della società pubblica Lombardia risorse. E viene inventata la «tangente rinnovabile», che si autorigenera e si perpetua nel tempo: tanti chili di rifiuti da smaltire, tanti soldi da passare sottobanco ai politici, negli anni («Un miliardo ogni 100 mila metri quadrati», annotano di loro pugno gli uomini della Simec).

È quanto emerge dalla documentazione sequestrata dalla Procura. Una documentazione impressionante. In alcuni appunti è segnata la sigla «Poz 7.5»: secondo i magistrati si riferisce all’assessore regionale Giorgio Pozzi, di Forza Italia. Dall’agenda elettronica di Luigi Ciapparelli, poi, si ricava che il geometra scomparso aveva avuto fin dal 1995 frequenti contatti e incontri con politici della Regione («Pozzi» e «Formigoni», oltre al suo segretario «Cattaneo») e consulenti Fininvest (un certo «Dotti» e «Francesco Dini», che oggi è un dirigente di Mediaset con delega ai rapporti con il Parlamento, ma che tra il 1997 e il 1999 veniva intercettato mentre teneva i rapporti tra Paolo Berlusconi e il presidente della Regione Roberto Formigoni). Nell’agenda di Ciapparelli non mancano annotazioni da interpretare: «Dini X strategie Liguori e serv. a pag. De Corato Lupi x cava lunedì ore 15 Cattan ad esito riunione con Rob». Oppure: «Utili Simec conti PB».

Altro che pattumiera. Per cinque anni e mezzo la discarica di Cerro è stata una miniera d’oro per i suoi gestori: la Simec mette a bilancio ricavi lordi per 243 miliardi. Ma iscrive anche pesanti «costi di smaltimento»: così riesce a tener alte le tariffe. Ma erano costi veri? La Procura sostiene di no, in base al lavoro della Guardia di finanza e alle consulenze tecniche di un professorone universitario e di un ispettore della Banca d’Italia: risultano «spese fittizie per almeno 150 miliardi». Le uscite sarebbero state gonfiate in due modi: con compravendite di comodo e con fatture false. Un esempio. Nel luglio 1994 (proprio mentre il pool Mani pulite minaccia le dimissioni contro il «decreto salva-ladri») la Simec acquista per 30 miliardi l’immobiliare La Beffa e sei mesi dopo la rivende a soli 2 miliardi. Un’operazione sbagliata? No, una vera beffa: la perdita di 28 miliardi è fittizia; i soldi rientrano, in nero, sui conti di familiari, dipendenti e prestanome. Un altro esempio. La Simec acquista un video di propaganda pro-discariche: costo 10 miliardi e mezzo, pagati alla società Pool e messi a bilancio tra le uscite. Peccato che la Pool (un’altro nome-beffa?) faccia capo a Mariella Bocciardo, la prima moglie di Paolo Berlusconi.

Poi c’è il fisco. Dalle indagini penali è nato un parallelo procedimento tributario per evasione fiscale, che il fratello del Cavaliere ha dovuto chiudere pagando 76 miliardi all’ufficio Imposte di Milano. Sistemate le pendenze con il fisco, sui padroni della discarica continuano a pendere le accuse di falso in bilancio e perfino di riciclaggio: i 150 miliardi spariti dai conti della Simec, infatti, secondo i magistrati sono fondi neri che sono stati divisi tra i soci («50 per cento a Paolo Berlusconi, 30 a Butti, 20 a Ciapparelli») e sono stati poi usati per finanziare in maniera occulta grossi affari edilizi in Italia e all’estero. La pista più vistosa porta a Como. Qui Butti, dopo aver contribuito all’elezione del sindaco di Forza Italia, è riuscito a costruire un gigantesco centro commerciale (che, vista l’ingombrante architettura, i comaschi hanno subito ribattezzato «il Dadone»): è intestato all’immobiliare Pessina, una delle dodici società che già l’anno scorso erano state sequestrate dal giudice Lupo, convinto che fossero servite per il «riciclaggio dei profitti illeciti della discarica».

Anche Paolo, a suo modo, dimostra di voler fare politica. Infatti è agli atti una sua pressione proprio sul «Dadone» di Como: il 12 giugno 1998 interviene (intercettato) su Mario Gorla, consigliere comunale di Forza Italia a Como e braccio destro di Butti alla Simec: «Parla anche tu con Gorla, perché lui ha come obiettivo la presidenza del consiglio, però sarebbe più utile che diventasse presidente della commissione urbanistica... Ah, dimenticavo: abbiamo spostato il conto da Milano 2 a Milano 3». Oggi il «Dadone», oltre che sequestrato, è sotto inchiesta per abusi edilizi. Un dirigente comunale testimonia: «Dissi subito a Butti che non era possibile ottenere quella licenza. Ma Butti mi disse che il sindaco di Como, Alberto Botta, gli aveva garantito la licenza».
E infine c’è la strana vendita della discarica. Tra i documenti sequestrati c’è anche il contratto con cui Paolo, nel giugno 1996, cede la propria quota di controllo della discarica (50 per cento) a Luigi Ciapparelli. Oggi la Procura ritiene di poter dimostrare che quella cessione fu fasulla: tramite un faccendiere svizzero, ora ricercato per riciclaggio, lo stesso Berlusconi avrebbe passato sottobanco a Ciapparelli i soldi per l’acquisto del proprio pacchetto azionario. L’obiettivo della falsa vendita sarebbe stato in parte politico (evitare al leader di Forza Italia imbarazzanti collegamenti familiari con lo scandalo dei rifiuti), in parte fiscale: approfittare della «residenza in Svizzera» di Ciapparelli per realizzare una cosiddetta «estero-vestizione» dei capitali Simec.

LA BOMBA ECOLOGICA.
Se per Berlusconi e soci la pattumiera di Cerro è una macchina per fare soldi, per i cittadini che abitano nella zona è un incubo. Nascono comitati che protestano per anni. Ai primi d’agosto del 1995 il presidente Formigoni, in nome dell’emergenza rifiuti, autorizza personalmente la Simec a riempire di rifiuti un nuovo lotto. Centinaia di cittadini, esasperati, organizzano una protesta popolare che, con tende e barricate, blocca i camion dell’immondizia. Denunciati per blocco stradale, sono tutti assolti dal giudice Renato Bricchetti, difficilmente etichettabile come «toga rossa», visto che nel 1994 si era candidato alle politiche per Forza Italia.

A questo punto la Regione fa dietrofront: nel febbraio 1996 Formigoni decreta la chiusura della discarica e ordina alla Simec di avviare la bonifica, garantita da circa 30 miliardi di fideiussioni depositate da Paolo Berlusconi e soci. Dopo un anno di lavori, però, il Comune di Cerro scopre che il muraglione costruito dalla Simec per contenere la montagna di rifiuti si è clamorosamente crepato. Il disastro ambientale provoca, nel febbraio 1997, una nuova rivolta dei cittadini contro la discarica. La ribellione è faticosamente placata dalla Simec con la promessa solenne di ricostruire il muraglione e rispettare l’impegno (sancito già dalla convenzione del 1990) per una completa «messa in sicurezza». Il problema ecologico è serio: la decomposizione dei rifiuti produrrà «per circa un decennio» grosse quantità di «liquido altamente inquinante» e di «biogas» simile al metano che va «captato e bruciato» per evitare «rischi di esplosione».

Avvertito di questi pericoli, Formigoni affida a un consulente della Regione, l’ingegner Mario Catania, docente universitario del Politecnico, il compito di elaborare il programma di bonifica. Ma si scatena un’incredibile confusione tra pubblico e privato, tra controllati e controllori. Il 19 novembre, per fare un solo esempio, Mario Gorla della Simec confida al dirigente Mediaset Francesco Dini: «È arrivato qui Catania dicendo papale papale: fatemi il progetto, dateci una mano a fare il progetto. E tra le righe questo mi dice: bisogna accontentare tutti i vicini, quindi Auchan». Chi è Auchan? È il gruppo della grande distribuzione che ha incredibilmente ottenuto dal Comune di Rescaldina, che confina con Cerro, la licenza di costruire un ipermercato di fianco alla maxidiscarica. La Procura ha recuperato foto aeree impressionanti: la montagna di rifiuti è a meno di 200 metri dalle mura del centro commerciale.

LA «SCENEGGIATA» CON FORMIGONI.
Il professor Catania è stato arrestato nel dicembre 2000 per un’altra inchiesta su presunte tangenti mascherate da onorari: come delegato di Formigoni alla gestione dell’emergenza-alluvioni, si sarebbe lasciato corrompere per favorire le aziende del consigliere regionale Gianluca Guarischi (Forza Italia). Ma oggi Catania è indagato anche per la discarica: Butti, il socio di Paolo Berlusconi, gli ha allungato dei soldi, sotto forma di «consulenze». In cambio, scrivono i magistrati, di «continui favoritismi». Raccontati in diretta da centinaia di intercettazioni.
Parlando con Butti di una consulenza, nel gennaio 1998, lo stesso Catania dice: «Me ne approfitterò in tutti i modi possibili e immaginabili». Subito dopo, Butti tira le somme e confida a un amico: «Il professor Catania sta lavorando per me... come tutti i grandi professori, il suo problema è chi paga». Intanto le casse della Simec sono prosciugate, perché sono spariti i 150 miliardi che la Procura considera fondi neri. Ma a Butti e Gorla viene un’idea geniale: «Finanziare la bonifica riaprendo la discarica». Così nel marzo 1998 parte la «sceneggiata» (così viene definita negli atti giudiziari). Gorla l’anticipa a Francesco Dini: «Partirà una proposta di mettere a dimora rifiuti secchi per farci dire di no, quindi dare la possibilità di vittoria all’ente pubblico, e ribaltarci sui rifiuti industriali che sono quelli sui quali noi abbiamo sempre puntato». E Dini: «Allora io inizio a fare un po’ di lavoro sulla presidenza». L’obiettivo è tenere aperta la discarica.

Peccato però che proprio allora il muro di contenimento lasci passare i suoi veleni. È emergenza. Lo capiscono anche gli uomini di Paolo Berlusconi. Il più colorito è Gorla: «Bisogna stare calmi. Se cominciamo ad agitarci noi, figurati se non hanno il diritto di agitarsi gli abitanti di Cerro, che gli pianti un milione di chili di merda...». I soci della compagnia mista Simec-Regione sono allarmati. Per la prima volta, i rapporti diventano tesi. Il 25 marzo 1998 Butti teme addirittura di essere scaricato, anche in seguito a uno «strano incontro tra Romiti e Formigoni». Reagisce progettando di giocare l’asso, di muovere un misterioso (ma poi non tanto) alleato potente: «Ne ho parlato con il nostro amico, bisognerebbe mettergli in piedi un incontro con Formigoni».

Si muove Paolo. La sua Edilnord dà una garanzia di 6 miliardi per rifare il muro che perde. Poi, il 12 giugno 1998, partono le grandi manovre su Formigoni. Dini (Mediaset) esterna a Butti (Simec): è necessario «un immediato intervento eminentemente politico ad altissimo livello... forti, caso mai, del fratello nostro amico per superare le resistenze della presidenza... Bisogna parlarne al nostro amico, magari qualcosa si muove». Paolo Berlusconi chiede subito a Dini: «Gliela faccio una telefonata al presidente o no?». Telefonate, pressioni e contatti si intensificano nei mesi successivi. Poi, nell’ottobre 1998, c’è una svolta: il Tar (il Tribunale amministrativo regionale) della Lombardia accoglie il ricorso di Auchan-Rinascente per sbloccare l’autorizzazione all’apertura dell’ipermercato (già costruito, ma ancora chiuso); e negli stessi giorni c’è un lungo «incontro diretto tra Paolo Berlusconi e Roberto Formigoni». Nessuno dei due è intercettato, per cui non si sa che cosa si siano detti. Da quel momento, comunque, è il presidente della Regione a gestire in prima persona l’emergenza-discarica. Come conferma a Paolo Berlusconi il solito Dini: «Ho visto il grande capo, che ha una gran fretta di chiudere. Ti saluta e poi ti racconterà». Berlusconi: «Perfetto».

Caduta ormai (a causa delle perdite del muro) ogni ipotesi di riapertura della discarica, iniziano mesi di trattative e di pressioni per varare un «accordo di programma» tra tutti i soggetti pubblici e privati (Comune, Provincia, Regione, Simec e Auchan) interessati al quesito più importante: chi paga le spese del disinquinamento e del recupero ambientale? Il braccio di ferro si chiude in primavera. A comunicare il risultato a Paolo Berlusconi, alle 17.02 del 26 marzo 1999, è il telefonino di Mario Gorla: «Buongiorno dottore, abbiamo finito!». E ride contento. Berlusconi: «Avete chiuso bene?». Gorla: «Abbiamo chiuso come volevamo noi... Abbiamo fatto il mille per cento degli obiettivi che ci siamo proposti ieri con gli avvocati». A informare il manager francese di Auchan, «monsieur Le Saffre», ci pensa invece Fiorenzo Tagliabue, il pierre ciellino ex portavoce di Formigoni. Le Saffre: «Tutto a posto come previsto?». Tagliabue: «Sì, sì, ho già in mano la delibera!». La novità dell’accordo è che alle spese di bonifica parteciperà anche lo Stato. Il primo a saperlo è Tagliabue, impegnato da mesi nel pressing sulla discarica. Glielo comunica un amico, un certo Sironi: «L’incontro a Roma è stato decisamente positivo». Tagliabue: «Ma quanti soldi vi danno?». Sironi: «Per tutta la Regione dovrebbero essere 110». Una manna.

Le spese del recupero ambientale, che dovevano essere tutte a carico di Berlusconi e soci, sono invece scaricate sullo Stato (10 miliardi), sulla Regione Lombardia (16 miliardi) e sul gruppo Auchan-Rinascente (13 miliardi, «condizionati al rilascio della licenza commerciale»). A opporsi («fermamente»), era rimasta soltanto la Provincia di Milano, all’epoca governata dal centrosinistra. Ma Formigoni salta l’ostacolo. Lo spiega Gorla a un suo consulente legale: «Stanotte è finita alle 3, dunque la situazione è questa: Formigoni ha dichiarato che l’accordo di programma va avanti senza la Provincia». Il blitz di Formigoni entusiasma Tagliabue, che al telefono grida: «Fantastico! Fantastico! È un colpo d’ala di Formigoni». Dieci minuti dopo, la buona novella viene annunciata al manager di Auchan. Le Saffre: «È una buona notizia». Tagliabue: «Caspita, ragazzi, che colpo!». Anche Gorla è estasiato: «Hanno deliberato l’accordo di programma... fottendosene di tutto», spiffera contento a un’amica, ridendo, il primo aprile. Poi tranquillizza Butti, che è all’estero: «Fatti una vacanza tranquillissima: hanno adottato la delibera». Il nuovo accordo di programma diventa esecutivo il 22 settembre 1999, con un decreto di Formigoni, che la Procura taccia di «pervicace volontà di salvaguardare gli interessi privati a danno di quelli pubblici e della collettività», sostenendo che «tutta l’attività della pubblica amministrazione è stata indirizzata all’assoluto favoritismo dei titolari della Simec e principalmente di Giovanni Butti e Paolo Berlusconi».

All’inchiesta sulla discarica, che lo vede indagato anche per un’ipotesi di corruzione, Formigoni ha reagito con sdegno: «Quella bonifica è il fiore all’occhiello della mia amministrazione. Questa non è giustizia: è la campagna elettorale dei magistrati». Ma, oltre che dalle intercettazioni, il «governatore» lombardo dovrà difendersi anche dalle conclusioni di un’analisi tecnica dell’accordo di programma, che la Procura ha affidato a un esperto di Diritto amministrativo. «Appare evidente», recita la perizia, «che gli obblighi posti in capo alla Simec con l’accordo di programma sono tutti ed esclusivamente obblighi che già gravavano sulla medesima società in forza della convenzione con la Regione dell’ottobre 1990». Berlusconi e soci si erano impegnati fin dall’inizio a pagare la bonifica ambientale. Anzi, scrive il perito, la Simec non aveva rispettato i patti, dunque Formigoni avrebbe dovuto incamerare nelle casse regionali le «fideiussioni per oltre 30 miliardi» garantite dalla Simec e «personalmente da Paolo Berlusconi». E invece di bloccare quei soldi, ne ha regalati altri a Berlusconi.

Questi i fatti più importanti documentati dall’inchiesta. Per sapere se Roberto Formigoni, Paolo Berlusconi e gli altri indagati meritino sanzioni penali bisognerà naturalmente aspettare la sentenza definitiva della Cassazione: se ne riparlerà verso il 2007. Nuove leggi permettendo. Comunque, Paolo Berlusconi emerge oggi come imprenditore autonomo, con i suoi contatti, le sue società, i suoi fondi neri, i suoi prestanome, i suoi rapporti politici. Finalmente non è più Berluschino. Un solo dubbio: ma sarebbe stato possibile tutto ciò, senza l’ombra del Grande Fratello?

Diario, 13 aprile 2001


Paolo Berlusconi è uscito dal processo sulla discarica – in cui era accusato di corruzione, peculato, frode nelle forniture pubbliche – con un risarcimento record, mai visto prima: 50 milioni di euro (più di 100 miliardi di lire).



Da grande sarò Berlusconi

Storia di Roberto Formigoni


Roberto Formigoni, l’uomo che aspira a diventare il successore di Silvio Berlusconi, per far rinascere, da Forza Italia, la nuova Dc, è stato rieletto presidente della Regione Lombardia alle elezioni regionali del 16 aprile 2000 con il 62,4 per cento dei voti. Un trionfo. Ha funzionato bene la grande macchina acchiappavoti di Comunione e liberazione-Compagnia delle opere e ha dato buoni risultati il patto stretto tra Berlusconi e Umberto Bossi. I leghisti, che fino a qualche mese prima delle elezioni erano i più duri oppositori del potere formigoniano e non perdevano occasione per convocare conferenze stampa in cui denunciavano i presunti abusi, hanno dimenticato in un attimo i loro attacchi e si sono stretti come un sol uomo attorno all’ex avversario.

In cambio, hanno ottenuto un Formigoni “governatore” regionale, fautore dell’autonomia lombarda, che si fa fotografare in mezzo agli altri due “governatori” del Nord, il veneto Giancarlo Galan e il piemontese Enzo Ghigo, con i quali (pur con significative resistenze di Ghigo) ha avviato la riscossa delle regioni nordiste (e poliste) contro lo Stato centralista, romano (e ulivista) culminata poi nella vittoria del centrodestra alle elezioni politiche del 2001. Ora propone allo Stato, ai ministeri, le sue riforme: sulla sanità, sulla scuola, sulla famiglia; fate come me, dice a Roma, io sono una lezione avanti...

Formigoni, dopo il suo personale trionfo elettorale, ha chiesto alla squadra di assessori che ha formato di pronunciare un «solenne giuramento», rivolto «alla Lombardia e al suo popolo». Uno strappo, se non alla Costituzione, almeno al galateo istituzionale. Realizzato oltretutto – ironia della sorte – in un giorno dalle reminiscenze patriottiche, il 24 maggio. Questa volta il Piave non ha mormorato, in compenso hanno gioito i leghisti, appena conquistati alla maggioranza. Quel giuramento è un atto simbolico quasi secessionista, ha protestato qualcuno. Ma il “governatore” è andato avanti, senza curarsi troppo degli scocciatori. Peccato che qualcosa sia comunque caduto dal cielo, a rovinargli la festa.
Il dottore che faceva i regali

Proprio nel giorno in cui giura «alla Lombardia e al suo popolo» insieme a tutti i colleghi della giunta Formigoni, l’assessore Giancarlo Abelli riceve un noioso rinvio a giudizio. I giudici di Milano gli notificano cioè la sentenza secondo cui dovrà essere processato per aver ricevuto 70 milioni come “consulenza” dal dottor Giuseppe Poggi Longostrevi, l’uomo delle ricette d’oro.
L’Italia è uno strano Paese che ha privatizzato la sanità – ma solo nel senso che a guadagnare sono i privati, mentre a pagare è la Regione, con soldi pubblici. E dottor Longostrevi, che nel suo genere era un genio, aveva escogitato soltanto un buon sistema per approfittarne: non si limitava a incentivare i medici di base a mandare i pazienti presso le sue strutture sanitarie, ma li aveva anche convinti a inviarglieli con ricette che prescrivevano esami inutili, o non rimborsabili, o più complicati e costosi del necessario, o comunque non eseguiti.
Così un fiume di soldi usciva dalle casse delle Regione e affluiva nelle sue tasche. Ma nessuno si lamentava: i pazienti erano contenti di fare esami a raffica; i medici erano felici di ricevere 70 mila lire a ricetta, più qualche regalino a Natale; le aziende di Longostrevi erano entusiaste di lavorare a pieno ritmo, sottraendo al sistema sanitario nazionale 700 milioni al mese, per molti anni. L’unica a pagare, alla fine, era la Regione. Cioè tutti. Cioè nessuno.

Mentre chi aveva scoperto la truffa, il dirigente Giuseppe Santagati, era stato come abbiamo visto licenziato, Giancarlo Abelli, amico e consulente di Poggi Longostrevi, che come minimo si è fatto scippare molti miliardi (pubblici) sotto il naso senza accorgersi di nulla, è stato premiato con una bella poltrona da assessore.
Con il suo know-how in materia, Abelli puntava naturalmente all’assessorato alla Sanità, che è tra l’altro quello che ha a disposizione il budget più mastodontico della spesa regionale. Ma ha dovuto accontentarsi, per ora, di fare l’assessore alle Politiche sociali: la Sanità infatti è già da tempo saldamente nelle mani di Carlo Borsani, di An, un altro che da anni sta in quel posto e non si accorge di niente.
Formigoni, comunque, non si è fatto certo rovinare la festa da uno stupido rinvio a giudizio: Abelli, da anni suo consulente per la Sanità, è diventato finalmente assessore.
Il sistema Guarischi

Non erano passati neppure quattro mesi dall’inedito giuramento, e sulla nuova giunta del “governatore” si è abbattuto un nuovo scandalo: il 22 settembre 2000 viene arrestato Gianluca Massimo Guarischi, coordinatore provinciale di Forza Italia e presidente della commissione Bilancio della Regione.
Finisce in carcere insieme ad altre otto persone, alti funzionari (come Mario Catania, vicecommissario per l’Emergenza) o imprenditori. Tre mesi dopo, il 13 dicembre 2000, è arrestata anche Milena Bertani, del Ccd, assessore prima ai Lavori pubblici e poi al Bilancio, privata della libertà insieme a Mario Giovanni Sfondrini, direttore generale del settore Opere pubbliche della Regione Lombardia. Un’ecatombe.

Bertani – diploma da geometra, ex segretaria della andreottiana Ombretta Fumagalli Carulli e poi esponente di rilievo del Ccd di Pierferdinando Casini – era stata scelta per il delicatissimo ruolo di assessore ai Lavori pubblici direttamente da Formigoni. Quanto a Guarischi, Formigoni da anni lo andava sostenendo, anche a dispetto della sua fama. Per esempio, lo aveva imposto come commissario straordinario dell’Ipab (un ricco ente assistenziale milanese, già retto da Matteo Carriera, un socialista che fu tra i primi arrestati di Mani pulite) anche quando Guarischi era stato vistosamente messo da parte dal sindaco di Milano, Gabriele Albertini, che lo aveva platealmente escluso dalla gestione degli enti pubblici. Qualche allocco aveva anche timidamente ricordato che su Guarischi pesava un conflitto d’interessi: politico, ma nello stesso tempo imprenditore. Formigoni va avanti come un treno: «Abbiamo controllato, tutte le imprese appartengono al padre». Ah be, allora...

Aveva dovuto sopportare non poche ironie, il povero Guarischi, raccontato dai giornali come un ragazzetto con la faccia da soap-opera, messo in politica dal padre, un costruttore a suo tempo arrestato per corruzione, per garantire continuità, dopo Mani pulite, alle aziende di famiglia. Il bel Massimo era noto al pubblico più che altro per aver condotto un programma in una tv di Berlusconi e per essere stato fidanzato della modella Celeste, uno schianto.
Ma alla fine, a dispetto di chi lo irrideva, Guarischi jr ha dimostrato di avere la stoffa del politico di razza e del manager di successo: ha infatti saputo costruire e mantenere, dopo i guai tangentizi paterni, un nuovo comitato d’affari, un sistema di corruzione complesso e articolato.
Secondo la ricostruzione dell’accusa (rappresentata dai sostituti procuratori Fabio Napoleone e Claudio Gittardi, i più attivi e silenziosi dei magistrati alle prese con la nuova Tangentopoli lombarda), Guarischi, con la complicità di Bertani, faceva i miliardi sui disastri (degli altri): frane, alluvioni, smottamenti.
Il suo sistema di relazioni e di procedure imponeva che a vincere gli appalti regionali per la ricostruzione dopo i disastri ambientali fossero le aziende di famiglia. Il metodo era semplice: Guarischi politico affidava i lavori a Guarischi imprenditore. Poi, già che c’era, truffava sui materiali: piazzava tiranti più corti del dovuto, impiantava nel terreno meno pali e di diametro più piccolo («Sui pali abbiamo fregato un trenta per cento», dice uno dei complici, intercettato dai magistrati).

Tutta la compagnia – politici, funzionari, amministratori, imprenditori – è accusata «di aver ridotto la Regione a una specie di mercatino», sintetizzano a Palazzo di giustizia. Le imputazioni ufficiali sono corruzione, frode allo Stato, associazione a delinquere: il gruppo, secondo l’accusa, aveva messo in piedi un sistema per truccare tutte le gare e controllare tutti gli appalti pubblici dei lavori regionali, dalla costruzione degli argini del torrente Seveso al ripristino delle sponde del Naviglio, dalla sistemazione delle frane in Valbondione al ristrutturazione dei torrenti in Val Tidone, fino al consolidamento dell’Adda. Guarischi nega tutto. Dichiara che tra gli imprenditori c’era soltanto un «gentlemen agreement».

In realtà, l’intervento illecito di pubblici funzionari per ottenere vantaggi era diventato per Guarischi un metodo consolidato, una consuetudine assodata. Non ne poteva più fare a meno. Tanto che la sua famiglia vi ricorreva, scrive il giudice per le indagini preliminari Alessandro Rossato, «anche per le più banali necessità». Come l’iscrizione della moglie di Guarischi, Stefania Luraschi, all’Albo degli architetti: «Si può affermare», scrive Rossato, «che il segretario della Bertani, Paolini, sia intervenuto per favorire la moglie del Guarischi, affinché questa superasse l’esame d’iscrizione all’albo. L’episodio delinea la personalità di Guarischi, sempre teso a cercare ogni tipo di favore, in questo caso per la moglie, che recentemente, anche grazie al titolo professionale conseguito in modo illecito, è stata assunta presso la Regione Lombardia».

Formigoni non si era accorto di niente? Perché proteggeva Guarischi, perfino contro il sindaco Albertini? Appena scoppiato lo scandalo, il “governatore” si è dichiarato «addolorato». Ma non per la corruzione che covava nei suoi uffici, bensì «per un arresto che va assolutamente al di là di quanto la legge prescrive»: un commento da sottile giurista.
Quando poi è arrivata l’alluvione che nell’ottobre 2000 ha fiaccato la Lombardia, il “governatore” perde un’occasione per stare zitto: «Avete visto?», dichiara. «Le opere sotto inchiesta hanno resistito, dunque sono fatte a regola d’arte». Non l’avesse mai detto: il giorno dopo, una delle opere incautamente evocate (l’argine di Crotta d’Adda) crolla.

Alla seconda tornata dello scandalo, nel dicembre 2000, quando sono arrestati Milena Bertani e Giovanni Sfondrini, Formigoni reagisce rincarando le dosi contro i magistrati: «È un atto d’intimidazione. Sproporzionato, anzi del tutto ingiustificato in base alla legge vigente».
Formigoni porta dunque tutta intera la responsabilità politica di aver scelto e sostenuto Bertani e Guarischi. Quanto a dirette responsabilità penali, il suo nome, a quanto è dato sapere finora, è entrato nelle carte di questa inchiesta soltanto per una citazione che Guarischi (intercettato) ha fatto al telefono, parlando con il superfunzionario Sfondrini: è necessario spartire la torta di un appalto con un terzo commensale, un ex deputato dc, perché «è amico di Formigoni», ordina Guarischi. «Dagli una roba da poco: accontendando il professore, io e te con Formigoni siamo a posto». Un altro funzionario regionale poi arrestato, Emilio Galli, in una telefonata (sempre intercettata) chiede: «Ma lei è intervenuto sul Presidente?» (cioè su Formigoni). E Guarischi: «Pesantissimamente».

Le Opere della Compagnia.
Qualche giornale ha tirato in ballo, a proposito degli appalti sulle sciagure in cui era specialista Guarischi, anche un ex assessore regionale, Donato Giordano, socialista poi passato a Forza Italia, dipinto come uno che di affari se ne intende. Giordano, un tempo potente e ora emarginato, ha reagito immediatamente, spiegando così ai giornali la situazione attuale in Regione: «Dietro a Guarischi c’è la Compagnia delle Opere, c’è l’assessore comunale Sergio Scalpelli, ex Pci, che si muove come una quinta colonna dentro Forza Italia. E c’è Formigoni... Io sono stato messo da parte proprio perché mi contrapponevo al loro gruppo...».
La lobby di Comunione e liberazione, attiva attraverso il braccio secolare della Compagnia delle Opere e forte di una corrente che, partito nel partito, ha conquistato gran parte del potere dentro Forza Italia in Lombardia: è questa la mente del nuovo sistema che regola gran parte dei rapporti tra politica e affari in Regione.

Una lobby trasversale, che ha cooptato al proprio interno anche gli eredi dei “miglioristi”, i nipotini dei comunisti filo-craxiani egemoni a Milano fino ai primi anni Novanta: Sergio Scalpelli, appunto, ex assessore al Comune e ora resposabile relazioni esterne di E.Biscom; Massimo Ferlini, ex assessore di Tangentopoli passato dal Pci alla presidenza della Compagnia delle Opere di Milano; Lodovico Festa, ex direttore del Moderno (giornale del Pci “migliorista” finanziato da Salvatore Ligresti, da Silvio Berlusconi e dal costruttore della Torno Angelo Simmontacchi), oggi braccio destro di Giuliano Ferrara al Foglio.
La Regione Lombardia è una grande dispensatrice di miliardi. La sola spesa sanitaria è lievitata, sotto la gestione Formigoni, di 4 mila miliardi di lire, fino a raggiungere nel 1999 la quota record di 19 mila miliardi (più di un terzo entrata nelle casse delle cliniche e dei laboratori privati).

Sulle forniture sanitarie è aperta un’altra inchiesta per appalti pilotati. Poi vi sono i servizi d’assistenza (un’altra bella fetta del budget regionale), in cui è attiva una miriade di cooperative legate a Comunione e liberazione.
Formigoni, assistito dal suo braccio destro, il direttore generale Nicola Sanese, ex deputato andreottiano diventato ormai (benché privo di mandato elettivo) una sorta di “vicegovernatore” regionale, ha dilatato di molto anche l’apparato di comunicazione della Regione, che in cinque anni è passato a costare da 5 a 17 miliardi. Ha ingaggiato come consulenti personaggi interni a Cl (come Robi Ronza, una delle menti del Meeting di Rimini) o esterni (dall’ex ambasciatore Boris Biancheri all’ex rettore dell’università di Bologna Fabio Roversi Monaco, massone). Le spese regionali sono così cresciute fino a generare un disavanzo di 1.400 miliardi, altro record di Formigoni.

Privatizzare, imperativo categorico del “governatore”, si traduce spesso nell’apportare discreti introiti alle casse degli amici di Cl e della Compagnia delle Opere, molto bravi a farsi trovare proprio al posto giusto nel momento giusto: imprenditori della sanità o dell’assistenza privata, ma anche del turismo, del settore fieristico, della comunicazione. Vi è a Milano una specie di monumento visibile alla comunicazione di marca ciellina: i caselli di Porta Venezia, in eterna ristrutturazione. La ristrutturazione più redditizia di Milano: le antiche costruzioni del dazio sono state coperte da enormi pannelli pubblicitari gestiti da Chiara e Associati, agenzia del gruppo Santa Chiara, il club ciellino animato da Marco Palmisano. Quando il casello diventa un carosello...

I grandi affari urbanistici sono un’altra partita in cui si agitano interessi pesanti. Su questi, i Comuni conservano competenze determinanti (a Milano, la poltrona di assessore all’Urbanistica è stata comunque a lungo occupata da un amico di Formigoni, Maurizio Lupi, anch’egli di Cl). Ma la Regione non rinuncia neanche in questo campo alle proprie prerogative: ultimo esempio, la miracolosa trasformazione in aree edificabili di un pezzo di Parco Sud, 5 milioni di metri quadri alle porte di Milano, destinati a passare dal verde al cemento grazie a una decisione della giunta Formigoni presa alla chetichella, il 4 agosto 2000, approfittando della generale distrazione estiva.

Sopra tutto, i miliardi Branca.
C’è più di un caso in cui Formigoni è stato chiamato direttamente in causa anche per responsabilità penali. È indagato davanti al giudice delle indagini preliminari per la gestione della società regionale Lombardia Risorse (un fallimento da 22 mila miliardi). ha ricevuto due avvisi di garanzia per l’affare della discarica di Cerro Maggiore. Ed è rinviato a giudizio, su richiesta dei magistrati Alberto Robledo e Fabio De Pasquale, per abuso patrimoniale d’ufficio nella gestione della Fondazione Bussolera-Branca. È una storia molto complicata, ma estremamente istruttiva.
Nel 1994, sentendo avvicinarsi la fine, Fernando Bussolera, ricco avvocato lombardo vedovo di Lina Branca, la padrona del Fernet, chiamò i suoi avvocati e, come nei romanzi filantropici di fine Ottocento, li incaricò di creare una fondazione che mantenesse viva la memoria sua e della moglie facendo qualcosa di buono. Due sole cose prescrisse: che la fondazione, a cui lasciava soldi, azioni e vaste tenute agricole, valorizzasse il patrimonio rurale dell’amato Oltrepò pavese; e che lasciasse assolutamente fuori dalla porta, per carità, i politici.

Povero avvocato Bussolera: nel giro di qualche anno le sue ultime volontà sono state tutte ridotte a carta straccia. Il vecchio, prima di morire, scelse i primi amministratori della fondazione. Qualcuno di questi, come il professor Ezio Lancellotti, prese molto a cuore l’incarico: doveva gestire per bene un patrimonio di ben 170 miliardi. Altri, morto il vecchio, cominciarono a darsi da fare per portare a casa qualcosa. Come in certi film americani.
Carlo Sarchi, ex manager Eni di area dc ai tempi dello scandalo Eni-Petromin, si proclamò erede di Bussolera e intentò una causa civile alla fondazione, con l’obiettivo di strappare un bel po’ di miliardi. Fabio Pierotti Cei, ex manager della Fernet Branca e poi della Fondazione Cariplo, che aveva ricevuto dal vecchio l’incarico di vendere un consistente pacchetto azionario della Fernet Branca per finanziare la fondazione, prese il 38 per cento dell’azienda, lo svendette a soli 100 miliardi e in più mise nelle sue tasche, come provvigione per la brillante operazione, il 10 per cento, cioè 10 miliardi.

Il professor Lancellotti non credeva ai suoi occhi. Gli stavano spolpando sotto gli occhi la fondazione prima ancora di farla decollare. Si oppose fieramente a Sarchi che pretendeva di diventare l’erede di Bussolera. Fece causa a Pierotti Cei chiedendogli 59 miliardi di danni per la vendita sottocosto delle azioni. E poi pretese la restituzione dei 10 miliardi di “provvigione”, oltre che di altri 870 milioni che riteneva spariti dai conti.
Dell’Oltrepò tanto caro al vecchio, naturalmente, non si interessa nessuno. Quanto ai politici, piombano come falchi a risolvere a modo loro la aggrovigliata situazione. Formigoni partecipa nell’aprile 1999 a una cruciale riunione con l’assessore regionale all’Agricoltura Francesco Fiori, il funzionario Maurizio Sala, oltre naturalmente al suo braccio destro, Nicola Maria Sanese, potentissimo direttore generale lombardo. Poi la Regione emette quattro delibere miracolose che rimettono le cose a posto: alla fondazione Bussolera-Branca è imposto di rinunciare a tutte le cause e di accontentarsi; poi di modificare lo statuto per far entrare nel consiglio d’amministrazione due nuovi consiglieri, Giulio Boscagli, cognato di Formigoni, e Niccolò Querci, all’epoca segretario particolare di Silvio Berlusconi e ora deputato di Forza Italia.
Risultato, una raffica di avvisi di garanzia: per Formigoni, Sarchi, Pierotti Cei, Fiori, Sala e Sanese. Una storia difficile da digerire.

Storie nere e rifiuti d’oro.
Prima di questo, un altro paio di avvisi di garanzia era piovuto sulla testa di Formigoni per questioni di spazzatura. Il primo, per abuso d’ufficio, è arrivato il 14 luglio 2000, mentre l’operosa Lombardia si preparava alla chiusura per ferie. Quella volta la reazione di Formigoni, reduce dalla vittoria elettorale del maggio precedente, era stata durissima: «L’attacco contro di me è tutto e solo politico. È il vergognoso colpo di coda di un sistema politico-giudiziario agonizzante, un tentativo estremo del giustizialismo comunista e centralista». Sembra di sentire Berlusconi e Bossi insieme.
I reati contestati in quell’occasione riguardano la più sporca, la più interminabile, la più intricata delle faccende politico-affaristiche degli ultimi anni in Lombardia: la gestione della discarica di Cerro Maggiore. È la maxi-pattumiera di proprietà di Paolo Berlusconi che ha raccolto per anni i rifiuti di Milano.

La super-discarica di Cerro ha attraversato tutte le stagioni, da Tangentopoli a oggi: fu al centro di una delle prime inchieste del pool milanese di Mani pulite, conclusa con la condanna definitiva di Paolo Berlusconi per una tangente di 150 milioni versati nel 1992 al tesoriere della Dc Gianstefano Frigerio (oggi Forza Italia).
Finita l’era della Dc, cominciò quella di Formigoni. Nel 1995 scoppiò in Lombardia la cosiddetta “emergenza rifiuti”: non si sapeva dove mettere tutta la spazzatura prodotta da Milano e provincia. Formigoni la indirizzò a Cerro, che invece avrebbe dovuto chiudere, e si impegnò a pagare a Berlusconi 300 milioni al giorno per altri due anni: come un titolo di Borsa, infatti, il pattume da gettare in discarica aveva più che triplicato le sue quotazioni grazie alla sbandierata “emergenza”, schizzando da 30 a 108 lire al chilo.

Nel 1996, dope l’ennesima protesta degli abitanti di Cerro, la discarica fu comunque chiusa. Ma solo nel 1999 ci fu un accordo per bonificarla. Il compito spettava ai proprietari, Berlusconi e soci, che in cinque anni d’attività avevano realizzato, secondo un rapporto della Guardia di finanza, «ricavi effettivi per almeno 240 miliardi»: più che una discarica, una miniera d’oro. Invece la proprietà (ovvero Paolo Berlusconi) non scuce una lira. Il 28 marzo 2001 arriva a Formigoni il secondo degli avvisi di garanzia per questa vicenda, questa volta per corruzione: secondo i magistrati d’accusa avrebbe permesso una strana triangolazione di miliardi, una «tangente indiretta» di 11 miliardi e 300 milioni promessa nel marzo 1999 e versata nell’estate 2000, «tale da consentire al presidente della Regione Lombardia di uscire da una situazione in grado di compromettere la propria futura credibilità politica, ma senza arrecare dispiaceri di sorta alle società del gruppo Fininvest». Insomma: Formigoni avrebbe accettato una proposta indecente dal gruppo francese Auchan, che versa i miliardi per la bonifica della discarica al posto di Paolo Berlusconi, e in cambio ottiene dal “governatore” una bella licenza per aprire un centro commerciale proprio a ridosso della pattumiera. Indagato, insieme al suo presidente, anche l’assessore regionale all’Ambiente, Franco Nicoli Cristiani, anche lui di Forza Italia.

Nel corso delle indagini è emerso anche un appunto scritto a mano, il verbale di una riunione tenutasi a Milano 2 alla presenza di Paolo Berlusconi e degli altri soci della Simec. Se è stato decifrato bene dai magistrati che indagano, il foglietto parla della costituzione, attraverso false fatture, di fondi neri all’estero per oltre 10 miliardi, preparati per pagare in nero nuove discariche e tangenti ai politici. Sul foglietto sono indicate anche alcune cifre («500 milioni», «200 milioni»...) con accanto nomi o abbreviazioni («Form», «Pozzi»...). Chi è «Form»? Chi è «Pozzi»? Hanno davvero ricevuto quei soldi?
Un Pozzi, di nome Giorgio, esponente di Forza Italia ed ex assessore regionale ai Trasporti, è indagato per tutt’altra faccenda: la trasformazione di terreni agricoli nei pressi di Lacchiarella, a sud di Milano, in preziose aree dove impiantare l’Interporto, la stazione d’incontro e scambio dei trasporti merce su camion e su rotaia. Erano terreni agricoli, marcite, risaie, campi sorvolati dai corvi (valore: 8 mila lire al metro quadrato); sono diventati preziose aree (valore: 20 mila lire al metro quadrato) su cui la Regione ha deciso di impiantare – non si sa perché e non si sa perché proprio lì – il più grande Interporto del Nord Italia.

Chi ci ha guadagnato – facendo nel momento giusto incetta di aree agricole – sono i soliti noti, i costruttori Salvatore Ligresti e Antonio D’Adamo. I magistrati vorrebbero sapere anche come è arrivato un finanziamento regionale di 2 miliardi e mezzo alla Ims, il consorzio pubblico-privato che dovrebbe realizzare l’Interporto e in cui sono rappresentati le Ferrovie, gli imprenditori privati, la Lega delle cooperative rosse.

Regione corrotta, nazione infetta.
Dunque, una folla di politici, funzionari, imprenditori è indagata a Milano e in Lombardia per varie vicende di corruzione, in diversi settori. Si fatica a tenere a mente tutti gli scandali, tutti nomi, tutte le ruberie. Roberto Formigoni, intanto, si è un po’ disamorato della politica lombarda. Scalpita, ha voglia di cambiare. Appena può fugge da Milano e compie frequenti viaggi all’estero, in Iraq, in Brasile, in Cile... Ha inaugurato una politica estera per la sua regione.
Certo è che ha comunque conservato il piglio decisionista: i suoi stessi assessori devono sottostare al suo controllo, o a quello del suo “vicegovernatore” Sanese; e il Consiglio regionale deve accettare di essere trasformato in un’assemblea senza poteri e con ben scarse possibilità di controllo su ciò che viene deciso dal presidente e dai suoi fedelissimi (in cambio, ai consiglieri hanno offerto più soldi: 63 milioni all’anno per un nuovo portaborse e 2 milioni in più di stipendio, che già si aggira sui 15 milioni al mese). Al centralismo romano, poi, il “governatore” ha sostituito un “centralismo” regionale che non lascia respiro e autonomia ai Comuni.

Intanto la secessione Formigoni l’ha già fatta. Non quella con le bandiere e gli squilli di tromba, ma quella reale, sostanziale, che ha realizzato in Lombardia sistemi di governo in contrasto con quelli nazionali: nella sanità, nell’urbanistica, nella scuola. O forse ha solo anticipato ciò che ora Silvio Berlusconi realizzerà a livello nazionale.
Ha varato il sistema sanitario lombardo, che ha trasformato le Asl in aziende che pagano le prestazioni e i servizi di ospedali pubblici e (in maniera crescente) di cliniche e laboratori privati. Ha deciso criteri di calcolo degli standard urbanistici (le aree che devono restare a verde e servizi) più flessibili e in contrasto con le leggi nazionali, tanto che per due volte la legge urbanistica regionale era stata bocciata dal governo di centrosinistra. Ha imposto una legge lombarda sui buoni-scuola che è il suo capolavoro: ha fatto passare in Consiglio regionale una legge formalmente accettabile (buoni-scuola per tutti gli studenti, per tutte le spese, in proporzione al reddito famigliare), ma poi l’ha ingessata con un regolamento attuativo che di fatto ha realizzato un finanziamento esclusivo alle scuole private, e anche per famiglie con redditi alti.

Ora molto probabilmente l’anomalia lombarda sarà sanata: le leggi nazionali si adegueranno a quelle di Formigoni. Quanto alle indagini, gli arresti, gli scandali: chi se ne ricorda più?

Aprile 2002



Formigoni e il petrolio di Saddam

Il rapporto Usa che nega le armi di distruzione di massa conferma le assegnazioni di greggio a politici di mezzo mondo. Anche al presidente lombardo, che potrebbe aver indcassato da 1 a 10 miliardi di lire


di Gianni Barbacetto


Spazzatura. Per Roberto Formigoni, presidente della Regione Lombardia, le notizie sulle assegnazioni petrolifere a lui girate dall’Iraq di Saddam Hussein sono, semplicemente, «spazzatura». Così le aveva definite, quando, nel gennaio 2004, quelle notizie erano rimbalzate in Italia dopo essere state diffuse da un quotidiano iracheno. Ma ora sono state riproposte e precisate all’interno di un rapporto ufficiale americano: quello che certifica l’inesistenza delle armi di distruzione di massa, presentato ai primi d’ottobre al Congresso degli Stati Uniti dall’ispettore Charles A. Duelfer, responsabile dell’Iraq Survey Group.

Sono 1.200 pagine, di cui una trentina dedicate agli elenchi di chi avrebbe ottenuto petrolio durante il regime di Saddam. In questi elenchi, ricavati da documenti ufficiali del ministero del Petrolio di Saddam Hussein, compaiono grandi compagnie e piccoli trader petroliferi, ma anche singole persone ed esponenti politici di una cinquantina di Paesi del mondo. Tra questi, Roberto Formigoni, che avrebbe ricevuto da Saddam 24,5 milioni di barili: la più massiccia tra le assegnazioni fatte a soggetti italiani. È una storia di guerra, pace e petrolio che vale la pena di ricostruire.

Tutto nasce con «Oil for food», il programma delle Nazioni Unite varato per addolcire l’embargo all’Iraq voluto dagli Stati Uniti dopo la prima guerra del Golfo. Dal 1996 l’Onu permette al Paese di Saddam di commercializzare quote del suo petrolio, per procurarsi cibo e medicinali. Tutto avrebbe dovuto avvenire nella massima trasparenza e sotto il controllo delle Nazioni Unite, ma così non è stato. L’Onu stabiliva ogni sei mesi le quote di greggio commercializzabile, poi però era di fatto la Somo – l’agenzia petrolifera del regime iracheno – a stabilire a chi concedere le assegnazioni. A grandi compagnie come Agip, Elf, Total. Ai colossi russi e cinesi. Ma spesso erano amici del regime che venivano in questo modo «ringraziati» per la loro vicinanza politica. Il detentore delle assegnazioni, infatti, poteva rivendere i suoi contratti a trader compiacenti e riservati, spuntando di solito robusti margini di guadagno.

Come ti aggiro l’embargo. I conti sono presto fatti. Le assegnazioni irachene erano concesse a prezzi scontati rispetto alla quotazione del «brent» sul mercato petrolifero ufficiale. Secondo un’approfondita inchiesta del Sole 24 Ore e del Financial Times firmata insieme da Claudio Gatti e Mark Turner, lo sconto concesso dalla Somo oscillava dai 2 ai 10 centesimi di dollaro a barile. Dunque 25 milioni di barili (più o meno la quota che sarebbe arrivata a Formigoni) potevano fruttare dai 500 mila ai 5 milioni di dollari (da 1 a 10 miliardi di lire del vecchio conio). In più, il prezzo di vendita poteva crescere anche di molto rispetto al prezzo d’acquisto pagato alla Somo, grazie ai rialzi di mercato nei mesi successivi all’emissione dei contratti. Così il metodo delle assegnazioni finiva per alimentare un flusso finanziario poco trasparente che andava a creare due tipi di fondi neri, fuori dal controllo dell’Onu: il primo andava nelle tasche e nei conti riservati degli «amici dell’Iraq» a cui Saddam faceva arrivare i contratti; il secondo rimpinguava direttamente le casse del regime, che pretendeva una parte dei guadagni. Questi fondi venivano usati per aggirare l’embargo, anche con l’acquisto illegale di armi. Secondo una commissione del Congresso Usa, il regime di Saddam ha accumulato fondi neri per oltre 4 miliardi di dollari.

Tra le imprese che hanno ricevuto assegnazioni petrolifere (per la cifra record di 39 milioni di barili) c’è, del resto, la Italtech, una piccola società a responsabilità limitata con sede a Livorno, fondata da Augusto Giangrandi, italiano emigrato in Cile, amico del dittatore Augusto Pinochet e grande frequentatore dei palazzi di Saddam. L’attività principale di Giangrandi non è certo quella del petroliere: è, semmai, il traffico internazionale d’armi.

Il «vecchio amico» Tareq Aziz.
Era Tareq Aziz, secondo l’inchiesta Sole-Financial Times, a gestire o comunque coordinare le assegnazioni petrolifere agli «amici» stranieri. L’ex vice-primo ministro e ministro degli Esteri di Saddam, cattolico, aveva certamente buoni rapporti con Formigoni, che negli anni dell’embargo ha calorosamente sostenuto la causa irachena, anche recandosi personalmente a Baghdad. Quando poi Tareq Aziz, nell’estremo tentativo di fermare l’attacco americano, fece l’ultimo viaggio in Italia, il 12 febbraio 2003, Formigoni fu il primo personaggio pubblico che incontrò: appena atterrato all’aeroporto di Roma, Aziz, saltato ogni cerimoniale, si diresse infatti verso un ristorante tranquillo sul litorale di Ostia, dove lo aspettava Formigoni.

Poi l’incontro ufficiale avvenne negli uffici di via del Gesù, dove la Regione Lombardia ha la sede della sua delegazione nella capitale. «My old friend», mio vecchio amico: così Tareq si rivolse al presidente lombardo, secondo le cronache dell’Ansa. Toccò infine alla scrupolosa direzione del Tg1 «ripulire» le immagini dell’incontro: nel servizio andato in onda alle 20 (lo ricorda anche l’ultimo libro di Peter Gomez e Marco Travaglio, Regime), si vede Aziz, si vede Formigoni, ma sono censurate tutte le inquadrature in cui i due sono insieme, e specialmente quella della calorosa stretta di mano. Alla vigilia di una guerra ormai imminente, meglio non far passare immagini di contatti con il «nemico».

Negli elenchi pubblicati dal rapporto Duelfer, Formigoni è associato a Cogep. Di che cosa si tratta? Di una piccola società a responsabilità limitata, la Costieri Genovesi Petroliferi, di proprietà della famiglia di Natalio Catanese. Raggiunto al telefono da Diario, Catanese si è rifiutato di rispondere a qualsiasi domanda su Formigoni e sul petrolio iracheno. L’ipotesi che trapela dal rapporto americano è comunque che Formigoni abbia avuto le assegnazioni petrolifere e poi abbia girato i contratti alla Cogep, che avrebbe provveduto a compiere materialmente le operazioni di commercializzazione del greggio.

È davvero andata così? E ci sono poi stati finanziamenti della Cogep al presidente lombardo? Per Catanese è un secco «no comment». Per Formigoni è solo «spazzatura». In mancanza di conferme dirette, si può solo cercare di capire come funzionava il meccanismo in generale. Diario lo ha verificato sentendo come si sono comportati altri due personaggi presenti, con Formigoni, nell’elenco delle assegnazioni. Sono Gian Guido Folloni e Tusio De Iuliis.

Le prime conferme.
Folloni è un ex senatore democristiano, fu ministro per i Rapporti con il Parlamento durante il governo di Massimo D’Alema e oggi è membro del dipartimento Esteri della Margherita. Aveva creato, negli anni dell’embargo, un’associazione Italia-Iraq a cui avevano aderito parlamentari di entrambi gli schieramenti. Conferma a Diario di aver avuto contatti diretti con le autorità irachene. «Abbiamo segnalato, in qualche caso, gruppi d’imprese vicine alla nostra associazione, comprese alcune che operavano in campo petrolifero».

Nel rapporto Duelfer, accanto a Folloni, che avrebbe ottenuto assegnazioni per 6,5 milioni di barili, compare anche la sigla Ips: dovrebbe trattarsi dell’azienda di Salvatore Nicotra, commerciante siciliano diventato tanto amico del regime iracheno da finanziare la costruzione di un teatro all’aperto per i ragazzi della scuola Don Bosco a Santa Maria di Licodia, un paesino in provincia di Catania. Nome ufficiale: «L’anfiteatro dei bambini di Saddam Hussein».

«Sì», ammette Folloni, «abbiamo segnalato anche Nicotra. Poi le imprese che noi segnalavamo sostenevano finanziariamente l’associazione. Con quel sostegno, abbiamo organizzato, negli anni durissimi dell’embargo, cinque voli umanitari a Baghdad, portando soprattutto medicinali».

Tusio De Iuliis è invece un abruzzese di Pescara che ha fondato l’associazione «Aiutiamoli a vivere». È di casa a Baghdad, dove si è recato più volte sia prima, sia dopo l’invasione americana. È stato lui a organizzare, poco prima dell’inizio della guerra, il viaggio in Iraq a cui ha partecipato anche la rockstar italiana Gianna Nannini. Negli elenchi americani non compare De Iuliis, ma un certo Tuzio Bolis.

De Iuliis conferma però a Diario il suo coinvolgimento nella vicenda: «Mi riempie d’onore e d’orgoglio il fatto di avere avuto delle assegnazioni. Le ho avute, certo: non dal governo iracheno, ma dall’associazione Friendship, Solidariety and Peace for Iraq. E naturalmente non mi sono messo in tasca neanche una lira. Le assegnazioni erano il riconoscimento per le azioni umanitarie e le almeno 15 missioni a Baghdad realizzate dalla mia associazione. Mi avevano comunicato l’assegnazione di 1 milione e mezzo di barili. Io non so niente di petrolio, si figuri che volevo donarlo al governo cubano. Poi mi sono fatto consigliare come fare: l’ambasciata irachena in Italia mi ha suggerito il nome di Salvatore Nicotra. Alla fine, comunque, non se n’è fatto niente, perché è scattata l’invasione americana».

Nega tutto, invece, l’altro nome che compare nel capitolo italiano del rapporto: padre Jean-Marie Benjamin, il sacerdote-musicista protagonista di battaglie contro l’embargo, che secondo il rapporto Duelfer avrebbe ricevuto 4,5 milioni di barili. È padre Benjamin ad accogliere Tareq Aziz all’aeroporto di Roma, nel febbraio 2003, e a raccontare del suo incontro riservato con Formigoni. Poi, nel pomeriggio di quello stesso giorno, Aziz incontra Folloni. In poche ore, tutta la lista italiana del rapporto Duelfer.


Diario, 29 novembre 2004

 

 


 
 
 

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