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E ora il «lodo Gasparri»

Dopo aver risolto il suo primo problema (i processi) ottenendo l'impunità con il «lodo Schifani», ora passa a occuparsi del suo secondo problema (le tv). Con la legge Gasparri, che lascia a Berlusconi tutte le sue reti e anzi gli permette di crescere ancora. Ai danni della Rai e della stampa.


Governare conviene: rende più ricchi. È il caso dell’imprenditore Silvio Berlusconi, che da quando nel 2001 è diventato presidente del Consiglio ha visto schizzare verso l’alto gli utili della sua principale azienda, Mediaset (di cui controlla direttamente il 48 per cento, senza alcuna legge, pure promessa, che disciplini il conflitto d’intessi). L’utile di Mediaset è stato di 418,1 milioni di euro nel 2001, è salito a 497,1 nel 2002. Nel 2003 gli affari stanno andando ancora meglio: nel primo trimestre l’utile Mediaset ha raggiunto quota 191,1 milioni di euro, un bel 5,8 per cento in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (180,6).

L’uomo più ricco d’Italia
è recentemente passato alla cassa, come hanno scoperto Mario Gerevini e Vittorio Malagutti del Corriere della sera: qualche mese fa ha intascato 194,4 milioni di euro (per capirci, circa 376 miliardi di lire). Lo ha fatto, a partire dall’ottobre 2002, attraverso un’operazione di buy back (acquisto di azioni proprie), ritirando i soldoni dalle famose 20 holding che controllano la Fininvest (che controlla Mediaset).

Da dove arriva la ricchezza
dell’imprenditore Silvio Berlusconi? Principalmente dalla raccolta di pubblicità televisiva. Arrivato a palazzo Chigi nella primavera 2001, Berlusconi godeva già di una situazione monopolistica impensabile nel resto del mondo occidentale (ma non nella Russia dell’amico Putin, o nell’Iraq del nemico Saddam): controllava tre reti, quelle che raccolgono la stragrande maggioranza degli spot, in un Paese in cui la tv assorbe gran parte delle risorse pubblicitarie, togliendole a quotidiani, periodici, affissioni, radio, cinema... In Italia finisce in spot più della metà degli investimenti pubblicitari (per la precisione: almeno il 57 per cento), contro il 23 per cento della Germania, il 33,5 della Gran Bretagna, il 34,5 della Francia, il 38 degli Stati Uniti, il 41 della Spagna (fonte Zenith Media-The Economist).

Una volta arrivato al governo
– e acquisito dunque il controllo politico dell’altra grande azienda che raccoglie spot, la Rai – le cose per Berlusconi hanno cominciato ad andare ancor meglio. È iniziata una doppia erosione: gli inserzionisti pubblicitari hanno aumentato gli investimenti su Mediaset, diminuendo quelli sulla Rai e sui quotidiani. Nel 2001, Telecom ha tolto alla Rai ben 77,5 miliardi di lire, 20 la Nestlè, 9 la Fiat. Effetto della crisi, della generale frenata degli investimenti pubblicitari, della recessione, dell’11 settembre? Sì, ma a Mediaset Telecom ha tolto soltanto 40 miliardi, mentre la Fiat ha addirittura aumentato il budget per le reti di Berlusconi di 7 miliardi, la Nestlé di 5. Enel ha dato il 70 per cento del proprio budget a Mediaset e solo il 30 alla Rai. Unilever ha investito 154 miliardi sulle reti di Berlusconi, solo 61 su quelle Rai...
Ecco un bell’esempio di conflitto d’interessi: gli imprenditori italiani e le multinazionali attive in Italia, dovendo scegliere, finiscono per privilegiare le tv del presidente del Consiglio. Nel 2002 e 2003 la tendenza si conferma: i big spender della pubblicità, che fino al 2000 dividevano i loro investimenti 50 e 50 tra Rai e Mediaset, oggi danno oltre il 60 per cento a Mediaset e meno del 40 alla Rai.

Rilevante anche l’erosione ai quotidiani.
Nel periodo ottobre 2002-marzo 2003, confrontato con lo stesso periodo dell’anno precedente, Barilla toglie il 86,8 per cento ai giornali, aumentando invece del 20,6 l’investimento su Mediaset; meno 65,8 dalla Martini&Rossi, che alle reti di Berlusconi ha dato un più 65,4. Ferrero: meno 64,5 ai quotidiani, più 3 a Mediaset. Procter&Gamble: meno 90,5 ai giornali, più 37 a Canale 5, Retequattro e Italia 1 (dati Nielsen, elaborazione Margherita).

Ora arriva la legge Gasparri,
che dovrebbe mettere finalmente ordine nel sistema televisivo. Ma altro che ordine: la Gasparri peggiora le già pessime condizioni del mercato italiano. Il politico Berlusconi, nei due campi che gli stanno a cuore (giustizia e tv) è davvero efficiente: dopo aver azzerato i suoi processi e conquistato (con il «lodo Maccanico» diventato «lodo Schifani») l’immunità, ora si avvia a sistemare l’impero. Deve farlo con una (ennesima) legge su misura e (di nuovo) con i tempi obbligati: entro il 31 dicembre 2003. Entro quella data, infatti, Retequattro dovrebbe assolutamente andare sul satellite, come stabilito dalla Corte costituzionale, a cui non sono piaciute le calende greche stabilite, ai bei tempi del governo dell’Ulivo, dalla legge Maccanico (ancora tu?).

Ma ecco arrivare lo Schifani delle tv
, il ministro Maurizio Gasparri. Ed ecco la geniale invenzione distillata questa volta nei laboratori del Biscione: il Sic. È perfino meglio del semestre italiano di guida dell’Europa: il Sic, «Sistema integrato delle comunicazioni», è una specie di grande oceano, o di continente sconosciuto, o di galassia, o di buco nero, di cui nessuno conosce i confini. È il nuovo universo di riferimento su cui calcolare i limiti antitrust. Fino a oggi, sono chiari: nessun operatore può controllare più di due (due!) reti televisive, non può assorbire più del 30 per cento delle risorse pubblicitarie totali.

Limiti non rispettati, ma chiari.
Permetterebbero perfino di aprire il mercato ad altri operatori televisivi, lascerebbero più risorse ai giornali. Invece, con il «lodo Gasparri», queste barriere sono abbattute: ogni operatore deve solo stare attento a non superare il 20 per cento del Sic. Ma quanto è grande questo Sic? Non si sa. Comprende certamente televisione, editoria, telecomunicazioni, libri. E poi anche il canone Rai, la pubblicità nazionale e locale, le sponsorizzazioni, le televendite, le promozioni, gli abbonamenti a pay tv. Ma forse anche le sponsorizzazioni, le pubbliche relazioni, il direct marketing. E il cinema? E le spese per le fiere?

Insomma: la galassia,
come ogni galassia, ha confini incerti. Chi li stabilisce? Berlusconi (in quanto imprenditore o in quanto presidente del Consiglio, non sappiamo più) ha buoni margini per dilatarli a piacere. Una cifra che è stata fatta, comunque, è 25 miliardi di euro. Se questo è il Sic, il 20 per cento è 5 miliardi di euro. Risultato: Mediaset non solo non dovrà vendere niente, non dovrà mandare Retequattro sul satellite (alla faccia della Corte costituzionale), ma potrà ancora crescere. La moltiplicazione miracolosa dei canali (come quella dei pani e dei pesci) grazie alla tecnologia digitale (di cui per ora non si vede un granché) salverà intanto i canali Mediaset e i suoi fatturati. Poi renderà possibile l’acquisizione (anche palese) di altri media, giornali, radio e via enumerando. E legittimerà la crescita bulimica della raccolta pubblicitaria (magari per le nuove tv satellitari di Murdoch).

Una volta la Fininvest
aveva i suoi lobbisti che lavoravano a Roma per ottenere leggi favorevoli alle tv di Berlusconi. Oggi Mediaset ha un intero partito, Forza Italia. Anzi, un'intera coalizione (Gasparri è di An). Tutti impegnati a far passare la nuova legge. Ma non solo. Capita anche che un senatore, Luigi Grillo, presidente dell'ottava commissione di Palazzo Madama, spinga per presentare un suo emendamento alla Gasparri: per scorporare le telepromozioni dal tetto (18 per cento) dell'affollamento pubblicitario orario. Detta così sembra una diavoleria tecnica, ma invece è una misura molto concreta: poter aggiungere ai canali di Berlusconi, già affollatissimi di spot, anche le telepromozioni, porterebbe a Mediaset almeno 300 milioni di euro all'anno. Grazie Grillo.

Enrico Manca, che ora presiede
un fantomatico istituto che documenta «l’innovazione multimediale», ha dichiarato al Corriere di considerare le contestazioni al Santissimo Sic «una battaglia di retroguardia: non si può mettere le brache al mercato per combattere Mediaset». Se ne intende: quand’era presidente Rai, negli anni Ottanta, smise di fare concorrenza alla Fininvest e aprì certi strani conti in Svizzera, con risparmi della mamma, gestiti da un avvocato di Berlusconi di nome Cesare Previti. Casi del destino.

Vent’anni dopo, il cerchio
si chiude. E una legge, il «lodo Gasparri», cerca definitivamente di mettere una pietra (tombale) sulla libertà d’informazione. Ma no, non solo: sulla concorrenza e il libero mercato della comunicazione in Italia.

Diario, 27 giugno 2003


Silvio l'acchiappatutto


In un'Italia restata senza centro economico-finanziario, Berlusconi occupa gli spazi. I protagonisti della Gasparri: da Giancarlo Innocenzi a Luigi Grillo, fino a Deborah Bergamini. Tronchetti Provera prigioniero, Luca di Montezemolo battagliero


Anche Geronimo Stilton,
il topo made in Italy più amato dai bambini, è finito nelle mani di Silvio Berlusconi. Negli anni Ottanta, Silvio fece la sua prima crociata in nome dei Puffi: ma quella fu un’ideona per trovare consenso di massa contro i pretori d’assalto, che volevano spegnere le sue tv (lo imponeva la legge d’allora, finché l’amico Bettino non trovò il modo di salvare reti e Puffi). Oggi Berlusconi ha di molto alzato il livello dello scontro: le crociate le fa contro la magistratura tutta, Cassazione compresa, ed eventualmente le accenna contro l’Islam e i dittatori nemici dell’«amico Bush»; e mentre con una manina compra la Piemme, la casa editrice del topo mangiaformaggio, diventando praticamente monopolista nell’editoria per bambini, con l’altra (una manona) porta a casa la legge Gasparri, diventando praticamente monopolista nel settore televisivo.

Ora, dopo il voto favorevole del Senato,
toccherà alla Camera l’approvazione definitiva. E poi Berlusconi sarà davvero l’inarrestabile padrone delle tv. Solo quello? La verità è perfino più cruda. In un’Italia ormai senza centro industriale-economico-finanziario, Berlusconi sta occupando gli spazi. Bei tempi, quando c’erano Gianni Agnelli ed Enrico Cuccia. Fiat e Mediobanca stavano lì, come la Terra ai tempi di Tolomeo, e tutto il resto girava attorno sotto gli occhi vigili del grande vecchio di via Filodrammatici. Pensate che perfino il direttore del Corriere della sera, a quei tempi, veniva scelto tra Torino e Milano, e non a Roma. Ora gli hanno dedicato una piazzetta, a Cuccia, ma la sua Mediobanca, la Mediobanca, è soltanto una delle tante banche d’affari, affaticata oltretutto da contese e bufere. Quanto alla Fiat, beh, conviene sospendere il giudizio. Restare in silenzio. Come di fronte a un augusto paziente in prognosi riservata.

Bene, potrebbe dire un fan
del libero mercato: finalmente l’Italia è diventata adulta, è entrata nell’era di un capitalismo policentrico e battagliero. No. Il capitalismo italiano resta asfittico e arcaico, il sistema industriale anzi è oggi più in difficoltà di ieri, l’Italia continua a perdere per strada settori industriali (l’auto, dopo la chimica, la siderurgia...). E perde colpi anche nei campi dove si è innovato (la telefonia, per esempio: c’era una volta Omnitel, ora inglobata dalla britannica Vodafone). In questo clima, in controtendenza, c’è un imprenditore bulimico che guadagna, compra, s’espande. È Silvio Berlusconi. L’aria di Roma gli ha sempre fatto bene: lì, e non a Milano, è nata negli anni Settanta la sua Fininvest; lì, da quando è presidente del Consiglio, incrementa i suoi affari.

IL PRECEDENTE.
«Da quando sono a Palazzo Chigi non mi occupo delle mie aziende», ha più volte ripetuto. Peccato che lo smentiscano alcuni testimoni dall’interno di Mediaset. «Ho continuato a parlare con Berlusconi della questione Spagna fino all’estate del 1994», racconta invece Oliver Novick, direttore Corporate development. «Le indicazioni per l’acquisto dei diritti tv continuavano a venire da Arcore», aggiunge Marina Camana, ex segretaria del capo della Silvio Berlusconi Communications, Carlo Bernasconi. Nel 1994, Berlusconi era diventato per la prima volta capo del governo. Quelle due testimonianze ora riposano nel faldone di due magistrati milanesi, Fabio De Pasquale e Alfredo Robledo, che indagano su una storia di diritti televisivi comprati e venduti con un complicato giro di società off shore. Risultato: prezzi gonfiati di oltre 170 milioni di dollari. Conseguenza: iscrizione di Silvio Berlusconi nel registro degli indagati per i reati di frode fiscale e falso in bilancio. In compagnia di dirigenti Mediaset, banchieri svizzeri e consulenti d’affari che dovranno rispondere alle accuse, oltre che di falso in bilancio e frode fiscale, anche di riciclaggio.

È l’ultima indagine aperta su Berlusconi,
di cui si è saputo soltanto a metà giugno. Ma potrebbe diventare cruciale perché, mentre gli eventuali reati fiscali commessi tra il 1995 e il 2000 sono stati azzerati grazie al condono inventato da Giulio Tremonti (ex consulente tributario di Berlusconi diventato suo ministro dell’Economia), quelli del 1994 sono rimasti scoperti e perseguibili. E, secondo i magistrati, «nei conti Mediaset, a partire dal 1994, è stato sensibilmente alterato il valore del patrimonio della società con specifico riferimento ai diritti di trasmissione televisiva». Poiché quelle «sensibili alterazioni» hanno necessariamente influenzato, a catena, anche i bilanci successivi al 1994, ne consegue che «nel 1996 Mediaset», secondo De Pasquale e Robledo, «è stata quotata in Borsa sulla base di una falsa rappresentazione della consistenza patrimoniale della società».

Un’accusa che, in un Paese normale,
farebbe tremare, insieme, Piazza Affari e Palazzo Chigi. In Italia, niente. I sismografi non registrano la minima scossa. Tranne una piccola mossa del ministro della Giustizia, ingegner Roberto Castelli: il blocco delle rogatorie che i due incauti magistrati avevano inoltrato verso gli Stati Uniti. Avevano già in tasca il biglietto aereo per volare a Hollywood, a interrogare i responsabili delle Majors (Warner Bros, Paramount, Columbia Tristar, 20° Century Fox, Mca Universal Studios) che avevano venduto a misteriose società delle Isole Vergini i film poi miracolosamente arrivati (a prezzi maggiorati) a Mediaset. Ma De Pasquale e Robledo sono rimasti a Milano. In attesa degli eventi. Bloccati, almeno per ora, i pericoli che vengono dal passato, una piccola ma agguerrita schiera di persone si è messa al lavoro per preparare il futuro. Con una legge nuova di zecca, chiamata legge Gasparri.

PERSONAGGI & INTERPRETI.
Lui, il ministro delle Comunicazioni Maurizio Gasparri, ha confessato serenamente di non capirci un granché di televisioni, affollamenti e spot (sarà per questo che gli hanno dato il ministero?). Ha assicurato però di aver passato l’estate 2002 a studiare il problema. Ed effettivamente in autunno ha tirato fuori dal cilindro la sua proposta, poi passata al Parlamento.
Più ferrato in materia è il suo sottosegretario, Giancarlo Innocenzi, che di tv ha sempre vissuto. Una storia italiana: comincia come dipendente Fininvest, uomo di Berlusconi, vicino a Marcello Dell’Utri; poi si mette in proprio, ma sempre in orbita Fininvest, e fonda la società di produzione Horizon. Già nel 1994 Berlusconi lo porta con sé a Roma, in Parlamento, sui banchi occupati dai neoeletti di Forza Italia. Lo sanno, in anticipo, anche certi amici degli amici siciliani: in un’indagine antimafia svolta a Catania, viene intercettato Aldo Papalia, massone, ben inserito nel mondo catanese degli affari, della politica, dello spettacolo e della mafia. Una telefonata del 20 febbraio 1994 tra Papalia e il suo socio Franco La Rosa, intercettata dalla Direzione investigativa antimafia, è un esempio da manuale di commistione tra affari e politica. I due saltano dalle considerazioni sulla campagna elettorale in corso ai business che hanno in comune. «Sono stato con Giancarlo Innocenzi. Presto sarà onorevole», dice Papalia. Poi passa a parlare di un affare con la partecipazione, tra gli altri, di Adnan Khashoggi. Infine si torna alla politica: Marcello Dell’Utri, dice La Rosa, ha dei problemi per via di certe fatture false (è infatti sotto indagine a Torino e a Milano). «Ma sono tutte stronzate»: il nuovo governo dovrà «mettere un freno alla magistratura». Papalia glielo conferma: dopo la vittoria «faranno delle belle cose». Infine si torna a parlare di tonnellate di burro, di consegne di pasta. Appena chiusa la conversazione, Papalia chiama Alberto Dell’Utri, gemello di Marcello: «Con l’affare della pasta guadagneremo qualche miliardino», gli dice. Poi via, a parlare di liste elettorali in Sicilia.

Innocenzi, intanto, è passato da Publitalia
a Forza Italia ed è entrato in Parlamento. E quando Berlusconi conquista per la seconda volta Palazzo Chigi, è promosso sottosegretario nel ministero che più sta a cuore a Berlusconi (con quello della Giustizia). Poiché gli sembrava brutto continuare a dirigere la Horizon, la passa al figlio Gianclaudio. Anche perché nel frattempo la Horizon è passata a produrre film per la Rai (Ics, Bartali...). Liberato – almeno formalmente – dal suo piccolo conflitto d’interessi, lavora alacremente per varare la legge più utile per il suo (ex?) datore di lavoro.

Un altro uomo molto attivo nel ramo
è il senatore Luigi Grillo. Democristiano ligure – ma da sempre grande nemico di un altro democristiano ligure di nome Claudio Scajola, oltre che di Giulio Tremonti – viene eletto nel 1994 nelle file del Partito popolare (alleato del centrosinistra). Al momento del voto di fiducia al primo governo Berlusconi, però, si assenta dall’aula. Nicola Mancino, capogruppo del Ppi al Senato, lo sospende dal partito. Lui non fa una piega e passa al gruppo misto. Poi, in silenzio, si mette a lavorare con Cesare Previti (con i figli dell’avvocato fonda Azzurra, società di certificazione per le imprese che partecipano alle gare pubbliche). Per Berlusconi diventa una specie di cacciatore di teste, specializzato nello scegliere e piazzare nelle ex partecipazioni statali i manager di nomina governativa. Nel 2001, passato ormai ufficialmente a Forza Italia, diventa presidente della commissione Lavori pubblici e relatore in Senato della legge sulle tv. In questa autorevole veste, è illuminato da un’idea geniale: inserire nella Gasparri un emendamento che vale almeno 75 milioni di euro all’anno (circa 150 miliardi di lire, anche se qualche addetto ai lavori lo valuta il doppio). L’emendamento Grillo scorpora le telepromozioni dal resto degli spot: così l’affollamento orario per le reti Mediaset (18 per cento) può aumentare aggiungendo i siparietti delle telepromozioni.

Il bello della legge Gasparri
è che pensa in grande, come è abituato a fare il padrone di Mediaset e di Forza Italia: rilancia, aumenta la scala di riferimento. I limiti antitrust, per esempio: sono stabiliti al 20 per cento del numero dei canali e delle risorse. Ma il numero dei canali è moltiplicato all’infinito dall’introduzione del digitale (che chissà quando arriverà). E le risorse sono allargate a una torta immensa che Berlusconi e Innocenzi hanno battezzato Sic («Sistema integrato delle comunicazioni») e che Grillo chiama, più prosaicamente, «il montepremi»: comprende televisione, editoria, telecomunicazioni, libri, pubblicità, promozioni, sponsorizzazioni... Una torta da almeno 25 miliardi di euro, il cui 20 per cento è 5 miliardi di euro. Così Mediaset non solo non dovrà mandare Retequattro sul satellite entro il 31 dicembre 2003 (come aveva intimato la Corte costituzionale), ma potrà crescere ancora: del 30 per cento, azzarda qualche esperto del settore. E poi eventualmente acquisire nuove tv, e giornali, e aziende di comunicazione. Altro che Geronimo Stilton: il topo è solo una piccola ciliegina sulla torta, o un granellino in una grande, immensa forma di formaggio.

RAI, DI NIENTE, DI MENO.
Chissà se tra i personaggi di questa commedia (o tragedia) è possibile inserire anche Deborah Bergamini. Indimenticabile (ma solo per i cultori del genere) protagonista di Zombi 3, regia di Lucio Fulci, ha poi lasciato il cinema, restando però nel giro: per qualche tempo è l’assistente di Berlusconi, oggi è dirigente del marketing Rai. Un disastro, ma non può certo essere tutta colpa di Deborah: il 2003 chiuderà prevedibilmente con un secco meno 10 per cento nei ricavi della Sipra, la concessionaria che raccoglie pubblicità per la tv pubblica. Meno spettatori, meno spot, la Rai affonda. Tanto che due senatori di An nei giorni della Gasparri hanno fatto votare, a futura memoria, un ordine del giorno che impegna il governo a istituire la cassa integrazione per i dipendenti dell’azienda in esubero: in caso di una ormai non improbabile «riorganizzazione produttiva».

Il colpo di grazia alla Rai
arriverà con l’attuazione della Gasparri, che la privatizza, ma nella maniera peggiore: uccidendola come forte azienda pubblica e impedendole però di diventare un forte concorrente privato. Nessuno potrà comprare più dell’1 per cento e il controllo resterà di fatto nelle mani dei politici: quale imprenditore potrà mai essere così pazzo da buttare i propri soldi in un’azienda in crisi e senza avere alcun potere di gestione? Se poi qualcuno avesse ancora qualche dubbio, gli passerà sapendo che alla Rai è fatto obbligo di attivare al più presto otto canali digitali, che dovranno coprire entro il 2004 il 50 per cento del territorio nazionale, il 70 per cento entro il 2005. Un investimento enorme in un momento di crisi, anzi: un’emorragia che potrebbe essere mortale.

Intanto Mediaset si è portata avanti:
l’azienda di Berlusconi, attraverso Rti, ha negli ultimi mesi fatto un silenzioso ma poderoso shopping, comprando per 100 milioni di euro una serie di piccole tv in tutta Italia. Frequanze di Quadrifoglio tv, Sei Milano, Videofirenze, Telegrosseto, Tva, Antenna Sicilia... Così a ottobre sarà già pronto il primo «multiplex» italiano, cioè la prima piattaforma per costruire una rete digitale terrestre: firmata Mediaset, che ne ha allo studio una seconda. Intanto Rai e La7 stanno a guardare. Il digitale moltiplica i canali quasi all’infinito, ma i siti per creare un «multiplex» infiniti non sono. Potrebbe finire che chi voglia averne uno sia costretto a passare per le reti Mediaset...

TRONCHETTI PRIGIONIERO.
Il nuovo centro si chiama, dunque, Berlusconi. Lo sa bene Marco Tronchetti Provera, che sulla carta sarebbe un potente operatore della telefonia con la possibilità di espandersi nella tv (controlla già La7), ma in pratica è prigioniero di quel centauro che è al contempo padrone delle tv e padrone della politica e dunque può scrivere le regole a cui Tronchetti dovrà attenersi. Non solo. Per ridurre l’indebitamento contratto per scalare Telecom, Tronchetti ha realizzato una fusione di Olivetti in Telecom. Con il risultato di essere più esposto alle scalate: se ieri la sua società Olimpia controllava il 28 per cento di Olivetti che controllava il 56 per cento di Telecom, oggi Olimpia controlla direttamente soltanto un debole 10 per cento di Telecom.

Intanto, mentre tutti guardano
alle telecomunicazioni, l’impero Berlusconi si rafforza anche nel settore bancario, assicurativo e finanziario. Nessuno, tranne qualche operatore, ha notato un’apparente incongruenza: in Mediolanum (controllata al 35 per cento dalla Fininvest di Berlusconi) nel 2002 sono diminuiti i capitali affidati in gestione, ma ciò nonostante, e con i mercati in discesa, è aumentata la redditività: grazie a un discutibile aumento delle commissioni di performance. Ma chi ha la forza di contestarlo a un’azienda del presidente del Consiglio?

Di fronte a tanta voracità,
qualche imprenditore comincia a dare segni d’impazienza. Tra questi, perfino Cesare Romiti e gli editori di giornali, preoccupati dalla fuga della pubblicità dai quotidiani (oltre che dalla Rai e dalle piccole tv private) verso Mediaset. Dopo l’emendamento sulle telepromozioni, il presidente della Federazione degli editori, Luca di Montezemolo, reagisce: «È una pagina nera per l’informazione». Mediaset risponde con durezza: «Maestro della disinformazione». I fronti non sono ancora definiti, ma la guerra è iniziata.

Diario, 25 luglio 2003



 

 
 
 

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