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Digitale, la grande truffa

Approvata la legge Gasparri. Da oggi l'informazione è più debole, il duopolio collusivo Rai-Fininvest più forte, l'Italia meno libera.


Preparatevi a una storia a cannocchiale, o a matrioska, o a scatole cinesi. Insomma, a tante storie una dentro l’altra. È naturale, visto che l’argomento è la televisione: tv generalista, palinsesto onnivoro, commistione di generi, storie disparate. Troverete dunque, dentro questa storia fatta di storie, santi e truffatori, politici e mafiosi, venditori di materassi e macellai, Maurizia Paradiso e Maurizio Gasparri, Paolo Romani e Antonio Marano, Flavio Cattaneo e Lucia Annunziata, e perfino Renato D’Andria (il faccendiere di Telekom Serbia). Ma tutto ben collegato, una scatola dentro l’altra, come in un palinsesto fatto bene. Tutto tenuto insieme dai soldi, dalla politica, dal potere.

Il punto di partenza è una data: 31 dicembre 2003. Entro la mezzanotte dell’ultimo dell’anno, insieme ai botti e ai tappi delle bottiglie di spumante, dovrebbe saltare Retequattro. Sì, Mediaset dovrebbe buttare dalla finestra, oltre ai piatti vecchi e ai programmi che non hanno avuto successo, anche la rete di Emilio Fede. O meglio, dovrebbe spararla sul satellite, insieme ai fuochi artificiali della mezzanotte. Cioè condannarla alla marginalità, all’uscita dal mercato. Lo stabilisce, fin dal 1994, una sentenza della Corte costituzionale. Ebbene, si è mai vista una cosa simile? Tagliare del 30 per cento le reti, ridurre di un terzo le tv di Berlusconi? Tre erano e tre devono restare. Solo così funziona alla perfezione la distribuzione (politica e di marketing) del pubblico e la conseguente raccolta pubblicitaria.

Ecco allora che si mette in moto una poderosa macchina da guerra per impedire l’esilio su un lontano satellite, per bloccare la trasformazione di Retequattro in stella filante e di Emilio Fede in tricche-tracche. L’hanno chiamata riforma di sistema, o legge Gasparri. Certo, ha ambizioni più generali: già che ci siamo ridisegna tutto il panorama dei media in Italia, consolida il monopolio di Mediaset, dà qualche botta alla Rai. Ma l’innesco della bomba è lì, in quella data, in quella notte di Capodanno da festeggiare a champagne per la più grande delle vittorie, non da subire come la prima delle sconfitte.

STALIN & LA DIGITALIZZAZIONE FORZATA.
E dunque: come si fa a far diventare carta straccia una sentenza della Corte costituzionale, mantenendo tre reti tre nelle mani di Silvio Berlusconi? Semplice: moltiplicando i canali, facendoli diventare così numerosi da rendere (apparentemente) senza senso la barriera antitrust dei due canali e non di più. Niente di nuovo, intendiamoci: già negli anni Novanta il presunto diritto a possederne tre era rivendicato da Berlusconi in nome di una torta da dividere composta da 12 canali. Il mondo di Berlusconia funziona così: dal particolare al generale, prima viene la Santissima Trinità dei Canali Fininvest, poi ci si inventa l’universo di riferimento in grado di giustificarla. Che poi nei Paesi civili europei come la Francia o la Spagna non si possa possedere più di un canale, è una bazzecola da non tenere in alcuna considerazione.

Dunque, moltiplicare i canali. Come? Con un salto nel futuro. Con l’introduzione forzata del digitale terrestre. Cioè una nuova tecnologia (digitale anziché analogica) che migliora la qualità di ricezione, ma soprattutto permette di ricevere centinaia di canali. Tutto questo, però, solo dopo aver cambiato il parco televisori e la foresta di antenne italiane: gli esperti prevedono che per la trasformazione ci vogliano almeno dieci anni. Ma i nostri liberisti e ultraliberisti sembrano tanto Stalin, quello dell’industrializzazione forzata. Oggi Berlusconi-Baffone (nascosto dietro il ministro Maurizio Gasparri, che di queste cose poverino non capisce niente, e lo ha anche confessato in qualche intervista, assicurando che si sarebbe messo a studiare) impone la Nuova Politica Tecnologica, la Grande Marcia nel Futuro: digitale terrestre per tutti. A tappe forzate.

Il mercato non ne sente il bisogno? Non importa: lo si impone per legge. I telespettatori continueranno ancora per un decennio a sedersi davanti ai loro amati apparecchi analogici e non hanno alcuna voglia di cambiare televisori e antenne? Non importa: per chi trasmette, il digitale sarà comunque obbligatorio. Entro il 1 gennaio 2004 (il giorno dopo l’altra data-limite, quella dettata dalla Corte costituzionale) tutte le reti tv devono coprire almeno il 50 per cento della popolazione italiana con trasmissioni in digitale. Il 70 per cento entro il 2005. Devono, altrimenti saranno confinate nella Siberia delle tv.

Il governo Berlusconi ha trovato perfino il tempo (e i soldi) per inserire nella Finanziaria 120 milioni di euro d’incentivi a comprare televisori digitali (più degli investimenti per la scuola): un tempo si premiava chi dava Balilla alla Patria, oggi chi offre teleschermi al Biscione. (A proposito, Sony, Philips e compagnia continuano e continueranno a produrre i televisori analogici. Come faranno i nostri liberisti a imporre al signor Sony di cambiare strategia e spacciare tv digitali a buon prezzo?).

A ogni buon conto Mediaset – che, come dire, era già preparata – nei mesi scorsi ha fatto un ricco shopping di frequenze e ha già brillantemente raggiunto gli obiettivi imposti dal Partito Post-catodico del Futuro. Anche La 7, malgrado le sue gambette da nano, si sta impegnando valorosamente. Telecom, che la controlla, ha già portato a casa 120 frequenze e relativi ripetitori. La Rai invece annaspa. Durante la corsa verso il Sol dell’Avvenire è inciampata e caduta. Ma il suo direttore generale Flavio Cattaneo ha garantito che ce la farà. E in un comunicato diffuso dall’Ansa alle ore 19,27 del 21 ottobre 2003 ha trionfalmente annunciato di aver raggiunto l’obiettivo: «Il consiglio d’amministrazione della Rai, su proposta del direttore generale, ha approvato all’unanimità le proposte irrevocabili di vendita presentate da Telecampione 6 Milano, che copre Milano e Genova, e Teleliguria, che è ricevibile in quasi tutta la Liguria. La Rai ha così superato l’obiettivo del 50 per cento di copertura della popolazione previsto per il primo multiplex del digitale televisivo terrestre».

Inciso: nella legge Gasparri (che sarebbe più appropriato chiamare legge Berlusconi, ma allora non la distingueremmo da tante altre) salta anche un altro limite antitrust, quello che avrebbe potuto far posto ad altri operatori imponendo un limite nell’occupazione delle risorse, innanzitutto pubblicitarie. Niente: in casa Berlusconi hanno inventato il Sic («Sistema integrato delle comunicazioni») e hanno suggerito, come limite – scusate la parola – antitrust, il 20 per cento del Sic medesimo. Ma lo hanno fatto così elastico e accogliente, questo Sic, da contenere di tutto (televisione, editoria, telecomunicazioni, libri, pubblicità, promozioni, sponsorizzazioni...). Il senatore Luigi Grillo, relatore in Senato della legge sulle tv, lo chiama affettuosamente «il montepremi»: una torta immensa di almeno 25 miliardi di euro. Il suo 20 per cento è 5 miliardi di euro. Buone notizie: Mediaset potrà crescere ancora. E vincere. Fine dell’inciso, torniamo alle scatole cinesi.

Dunque: per non perdere Retequattro bisogna passare al digitale; per passare al digitale bisogna imporlo per legge, perché il mercato non se lo fila per niente; per imporlo bisogna obbligare le tv esistenti a comprare, e in fretta, frequenze. E qui arriva il bello. E si entra nel vivo della storia, con la Rai che deve spendere le sue non molte risorse per fare shopping di tv locali. Ma prima di arrivare al bello, a Maurizia Paradiso, a Paolo Romani, ai macellai e materassai trasformati in editori televisivi, è necessario fermarsi un attimo: comprare frequenze? Ma com’è possibile comprare e vendere frequenze? Un tempo era vietato, vietatissimo. Le frequenze, cioè l’etere, sono un bene pubblico, come l’aria che respiriamo. Come le spiagge. I bagnini non se le possono vendere (per ora). Ebbene, oggi non solo è possibile comprare e vendere l’etere, ma è addirittura diventato obbligatorio. Il via libera lo ha dato una legge (la numero 66, recitano gli esperti) varata nel 2001. Dal governo Amato, ministro delle Comunicazioni Salvatore Cardinale, sottosegretario Vincenzo Vita. Cioè dal centrosinistra, che invece non aveva fatto una legge sulle tv, né sul conflitto d’interessi, né sulle rogatorie, né... Ma chiudiamo subito questa scatola cinese, sennò chissà dove finiremmo.

Quella delle frequenze è una storia strana, anzi incredibile: sono di chi le ha abusivamente occupate, ai tempi (eroici) in cui era proibito ai privati fare radio e tv. Chi ha avuto la passione di inventarsi un’emittente, o la forza di piazzare sulla stessa frequenza un trasmettitore più potente di quello del primo che aveva solo la passione, dopo anni di Far West ha potuto concorrere alla lotteria del piano di ripartizione delle frequenze che, tra pressioni politiche e svolazzar di bustarelle, ha sanato la primigenia occupazione abusiva e assegnato le frequenze medesime a chi le aveva occupate. Formidabili quegli anni: la stanza dove era depositata la documentazione proveniente delle tv private, al ministero delle Poste e telecomunicazioni, era chiusa a chiave e la chiave l’aveva in tasca un uomo Fininvest, il mitico ingegner Mezzetti. Non solo: un brillante giovanotto di nome Davide Giacalone, dopo aver scritto la legge Mammì e il piano delle frequenze, si è tolto il vestito di uomo di governo e ha indossato il blazer blu di consulente Fininvest (compenso ricevuto: 600 milioni).

LA VENDITA DELLE INDULGENZE. In quegli anni eroici, comunque, almeno un obbligo c’era: le frequenze non si potevano vendere, perché sono un bene pubblico, non roba privata. Ora, per salvare Retequattro, anche questa norma è saltata. Chi ha saputo resistere, magari trasmettendo per ore pornopubblicità di telefoni erotici o di sexyshop, oggi ha finalmente l’occasione di portare a casa dei bei soldi. Si vende, si può vendere, si deve comprare. I bagnini piccoli possono arricchirsi vendendo le loro spiaggette (che poi non sarebbero loro), perché un certo numero di bagnini grossi deve mettere insieme molti chilometri di spiaggia, entro il 1 gennaio 2004. In realtà non sono proprio le frequenze a essere comprate, bensì i «rami d’azienda», con impianti di trasmissione e relative frequenze: ma questa è solo ipocrisia, ciò che interessa e passa di mano sono proprio le frequenze. Se non vi piace l’esempio delle spiagge, che non calza proprio alla perfezione perché l’etere non è di sabbia, potete saltare a un’altra riflessione. Ma perché invece di permettere, anzi obbligare, il mercatino delle frequenze, lo Stato non ha preso e ridistribuito le frequenze libere? Così almeno la Rai, che è l’emittente pubblica, non sarebbe stata costretta a svenarsi distribuendo soldi ai padroncini delle tv locali per comprare l’etere, cioè una cosa pubblica. Ci sono frequenze libere? Sì, suggerisce Rosario Pacini, il direttore di Rete A: sono le due reti terrestri di Telepiù che, ora che la pay tv è passata sul satellite, dovrebbero essere liberate; e le due reti di televendite (Telemarket e Hse) che hanno avuto la possibilità di trasmettere per tre anni ma ora, come Telepiù, dovrebbero trasferire sul satellite quadri, tappeti e pentole e lasciar libere le loro frequenze terrestri. Invece: le televendite continuano e Murdoch, che si è comprato Telepiù, si è tenuto anche le frequenze terrestri.

È chiaro che la buona idea di Pacini ormai è irrealizzabile. Troppo tardi. Il mercatino delle frequenze è già cominciato, anzi è già quasi finito. Alla Rai costerà, a cose fatte, circa 120 milioni di euro, e saranno soldi persi, sottratti a cose più importanti (fare bei programmi, per esempio, inventare contenuti, fornire servizi) e regalati a signori che hanno capitalizzato oggi una loro vecchia occupazione abusiva di etere. Lo Stato diventa, tecnicamente, ricettatore: ricompra, attraverso la Rai, roba rubata. Non gioielli, ma frequenze. E per di più paga ai privati roba sua. Da non credere. Come se i parcheggiatori abusivi fossero autorizzati a vendere allo Stato le piazze in cui si sono insediati. In queste storie c’è materiale per Dario Fo, oltre che per Marco Paolini. E speriamo che l’Economist non le venga mai a sapere...



IL MERCATINO DELLE FREQUENZE.
Qui dobbiamo aprire una nuova parentesi, o una nuova scatola cinese. Ricordate che cosa successe nel 2001? Il governo Berlusconi, appena arrivato, bloccò un affare che la Rai stava concludendo: la vendita del 49 per cento di Rai Way agli americani della Crown Castle. Che cos’è Rai Way? Per Gasparri è una canzone di Frank Sinatra, per tutti gli altri è la consociata Rai che controlla gli impianti di trasmissione. Quella che oggi si deve svenare per comperare le frequenze. Se l’affare con gli americani fosse andato in porto, non solo si sarebbe realizzato un pezzo di vera privatizzazione della Rai, ma sarebbero entrati in cassa 400 milioni di euro, con cui la Rai avrebbe potuto farne tre, di shopping per il digitale. Oppure molte altre cose più utili. Invece la Rai oggi serve sottomessa ai partiti e incapace di fare concorrenza a Mediaset. Ma richiudiamo subito questa scatola, perché ci porterebbe molto, molto lontano.

Torniamo invece all’allegro mercatino delle frequenze. Flashback. 29 luglio 2003. Forse contando sulla disattenzione estiva, il direttore generale della Rai Flavio Cattaneo presenta al consiglio d’amministrazione un elenco di 39 emittenti locali disposte a vendere le loro frequenze per l’emozionante avventura del digitale terrestre. Richieste: 123 milioni di euro. Prezzo alto, perché invece di 1 euro per abitante raggiunto dalla relativa frequenza, le tv tentano il colpaccio e di euro ne chiedono 2, 3, perfino 10. E poi è tutto da verificare che sia vero il numero degli abitanti raggiunti... Il cda dà a Cattaneo una delega a trattare, ma la presidente Lucia Annunziata lo gela: gli raccomanda di stare attento a non trattare acquisizioni di tv possedute da politici. Il riferimento è a Lombardia 7, fondata da Paolo Romani, oggi parlamentare di Forza Italia.

Al successivo incontro del cda, il 7 agosto, Cattaneo lima la sua proposta, lascia a casa l’elenco delle 39 tv e chiede di essere autorizzato a trattare almeno un accordo pilota, limitato alle frequenze di un’emittente veneta, TvSet. Il giorno prima aveva incontrato un certo Giuseppe Ruffoni, responsabile di quella emittente, che lo aveva convinto a chiudere in fretta l’affare. Annunziata insiste: fa notare che TvSet ha sede a Cinisello Balsamo, proprio come la tv di Romani. Nel dubbio, tutto si blocca, rimandato a settembre.

A Cattaneo il colpo non è riuscito. E il giorno di Ferragosto la vicenda esplode come una bomba: Paolo Biondani sul Corriere della sera racconta a tutti che cos’è davvero TvSet, l’affare del cuore di Flavio Cattaneo. TvSet Veneto e Lombardia 7 tv non solo hanno la stessa sede, non solo sono controllate dalle stesse persone, ma queste sono anche sotto inchiesta a Monza, Bologna e Bergamo per bancarotta, associazione a delinquere, false fatture, riciclaggio, falso in bilancio. «Nasce indagata la tv del futuro», scrive Biondani. E l’affare naufraga per sempre. Ma raccontiamola dall’inizio, questa brutta storia.

PAOLO ROMANI, POLITICA E TV.
La vicenda nasce a Bologna, quasi per caso. Qui un pugno di uomini della Guardia di finanza che fanno il loro lavoro con passione s’imbatte in una fattura (per la riparazione di un’auto, un’Audi A4) che non li convince: troppo alta. Fanno qualche indagine e scoprono un genio: Giovanni Sarti, quarantenne, super villa sulle colline di Bologna e tenuta a Capoverde. Sarti era un mago, sapeva estrarre miliardi dalla carta. Nel vero senso della parola: vendeva carta, piccoli foglietti pieni di numeri. Insomma produceva fatture (false, naturalmente, per servizi mai prestati) che intestava a decine di aziende del nord Italia.

Queste pagavano, così potevano iscrivere a bilancio l’uscita e abbattere le tasse. I soldi, dopo un gran giro di conti, finivano in qualche banca svizzera, trasformati in fondi neri a disposizione del padrone o manager dell’azienda. Tranne un 20 per cento trattenuto da Sarti per il disturbo. La sua «cartiera» produceva a pieno ritmo, con soddisfazione dei numerosi clienti e ottimi profitti per lui. Intendiamoci, questa non è l’unica «cartiera» in giro, ma Giovanni Sarti era a suo modo un artista. Una delle sue idee più brillanti era fatturare costosissime pagine di pubblicità sulle riviste di bordo delle compagnie aeree americane. Naturalmente in America non ne sapevano nulla, ma lui ai suoi clienti mandava la fattura e anche il giustificativo: la rivista della United Airlines Emisphere, a cui strappava la copertina e la sostituiva con una taroccata, fatta ristampare con le pubblicità delle aziende italiane sue clienti. Geniale.

Fatto sta che indagando sul giro delle false fatture di Sarti, le Fiamme gialle bolognesi risalgono a Lombardia Pubblicità srl, un’azienda che raccoglie pubblicità, ma fa anche la «cartiera» di fatture gonfiate. È la concessionaria di una tv locale, Lombardia 7, che dopo qualche anno di difficoltà dichiara bancarotta. Il fallimento arriva sul tavolo di un magistrato della procura di Monza, Walter Mapelli, che incarica di condurre le indagini – anzi, di continuarle – i finanzieri di Bologna, Seconda Compagnia, che già sapevano tutto di Giovanni Sarti il genio e molto di Lombardia Pubblicità.

Così Mapelli e i finanzieri ricostruiscono la storia di Lombardia 7. Ebbe un certo successo, nei primi anni Novanta, sotto la guida di Paolo Romani. È un pioniere, Romani, un protagonista dell’era corsara della tv privata. A metà degli anni Settanta aveva messo in piedi, con Marco Taradash, Tele Livorno. Era stato vicino a Nichi Grauso, in Sardegna, ai tempi eroici di Videolina. Era diventato editore di Millecanali, rivista specializzata per l’emittenza radiotelevisiva. Negli anni Ottanta aveva lavorato per Alberto Peruzzo al lancio di Rete A. Poi lo aveva chiamato Salvatore Ligresti a guidare Telelombardia, da cui era uscito per mettersi in proprio, con Lombardia 7.

Sotto la sua guida, la rete acquista una sua visibilità. Produce un telegiornale, ha una redazione di cinque giornalisti. Il programma forte di Lombardia 7 è però «Vizi privati», strip caserecci condotti da una scatenata Maurizia Paradiso. Con l’ingovernabile Maurizia, Romani finisce per litigare e la leggenda dice che lo scontro sia stato fisico e doloroso. Ma Romani, che era un giovane liberale, resta folgorato sulla via di Arcore e nel 1994 segue Berlusconi in Forza Italia. È subito eletto deputato. Si trasferisce a Roma, abbandona la tv al suo destino e, almeno formalmente, nel 1996 la cede. Ha venduto davvero? Nel mondo delle private c’è chi ne dubita, chi sussurra di falsa vendita, di accordi di portage. Al momento dell’accordo, i nuovi gestori di Lombardia 7, Gianni Alvisini e Mauro Ferraris, cedono a Romani un’auto e s’impegnano a versargli 10 milioni al mese, fino ad arrivare a 250. Un giovane giornalista che ha lavorato a Lombardia 7 racconta a Diario che almeno fino al 1997 Romani veniva «in visita» alla tv ed era ancora considerato il «padrone» a tutti gli effetti. E certamente resta, almeno fino al 12 gennaio 1998, legale rappresentante di una società ben più essenziale in questa storia, Lombardia Pubblicità, di cui risulta ancor oggi azionista e proprietario del 5 per cento. All’assemblea sociale straordinaria del febbraio 2001, Romani si è fatto rappresentare da Mariano Bertelli, tre mesi dopo arrestato per bancarotta a Firenze. Di un’altra società coinvolta nel giro delle fatture allegre, Vacanze 2000, Romani è ancor oggi socio.

Un elemento di continuità tra la vecchia e la nuova Lombardia 7 c’è: è Alessandro Piccoli, l’amministratore della tv, uomo-ombra di Romani. Le carte comunque dicono che il 5 giugno 1996 Lombardia Comunicazione srl, la società che controlla Lombardia 7 tv srl, viene venduta a Gianni Alvisini. La tv non è in grande salute, anzi, a dirla tutta è carica di debiti. Ma nel dicembre 1997 i nuovi padroni risolvono a loro modo il problema. Smembrano la tv: i debiti li lasciano alla vecchia società, che viene posta in liquidazione e si avvia serena verso il fallimento; la parte sana (con le frequenze) viene invece venduta. La compra, per circa 3,5 miliardi di lire, una società appositamente approntata che si chiama Telegestioni srl e che, in realtà, è controllata dallo stesso gruppo di Alvisini, attraverso Gianantonio Arnoldi, pezzo grosso di Forza Italia a Bergamo.

Arnoldi, titolare della concessionaria di pubblicità Gipielle, era già entrato nel mondo delle tv grazie a un colpo basso. Aveva messo gli occhi su una tv bresciana non florida, ma ricca della dote di tre frequenze ottenute dal ministero: Teleleonessa, messa in piedi da un religioso, padre Narciso Barlera, che aveva passione per la comunicazione, ma non grande dimestichezza con i conti. Con molte promesse e grandi sorrisi, Arnoldi aveva alla fine scippato Teleleonessa al suo amministratore, Edoardo Bertola, e l’aveva portata sotto l’ombrello di Telegestioni.

Così il gruppo di persone che controlla Telegestioni mette insieme, con incredibili giri di soldi e spericolate operazioni finanziarie, un buon numero di tv locali: Teleleonessa, Lombardia 7, poi arriveranno TvSet Veneto, Euromixer tv, Tele Lupa, Canale 10 di Napoli. Delle tv in sé, dei palinsesti, dei programmi, dei tg, all’allegra combriccola non interessa un fico secco. Al gruppo stanno a cuore solo due cose: le frequenze, bene prezioso che prima o poi si vende bene (e avevano ragione: è arrivata la Gasparri!); e la pubblicità, attraverso cui, con un giro di fatture false, ricavano parecchi miliardi. Valigiate di soldi approdavano in Svizzera, dove erano gestite da S.A., un cittadino elvetico in passato già coinvolto in vicende di riciclaggio, traffici d’armi, rapporti con mafiosi. Era il custode del malloppo all’estero.

Il metodo usato dal gruppo di Telegestioni era lo stesso di Giovanni Sarti il genio, con in più la possibilità di utilizzare le tv. La concessionaria televisiva (Lombardia Pubblicità) fatturava miliardi alle aziende (tra cui Foppapedretti) per spot, televendite, sponsorizzazioni. Poi, con un giro vizioso, restituiva circa il 70 per cento. Le aziende lo imboscavano, evadendo il fisco e creando fondi neri. A Lombardia Pubblicità restavano attaccati dei bei soldi, che i ragazzi della combriccola facevano sparire con una girandola di passaggi di società. Una parte di questi soldi (oltre 2 miliardi di lire) li investono in una villa stile Beverly Hills sulle colline bolognesi, piena di telecamere nascoste (intelligence o luci rosse?). Anche gli spot di Radio Dimensione Suono subivano il trattamento: venivano fatturati da Lombardia Pubblicità, che con la radio non c’entrava niente, e poi, a catena, dalla concessionaria di Rds, la General Advertising. Alla fine i costi degli spot lievitavano di oltre quattro volte il valore reale della pubblicità su Rds, ma con l’accordo delle aziende, che incameravano preziose fatture da esibire al fisco e poi si vedevano restituire i soldi in nero.

Il gruppo riesce a razziare parecchi miliardi (almeno 81 tra il 1997 e il 2001) con il sistema delle false fatture fatte girare vorticosamente da una società all’altra, tanto da far venire il capogiro a chiunque cerchi di capire. Poi fa sparire i documenti contabili e porta al fallimento prima Lombardia 7, che «salta» nel 1999 lasciando debiti per oltre 12 miliardi di lire, poi anche Rtv Produzioni di Padova, che s’inabissa nel luglio 2000. Risultato: intervengono tre procure della Repubblica, quella di Bergamo, quella di Monza, quella di Bologna.

Chi sono i ragazzi della combriccola? Gianni Alvisini il manovratore, Alessandro Piccoli il contabile, Gianantonio Arnoldi il politico, ma anche Mauro Ferraris il pubblicitario, Giuseppe Ruffoni il macellaio, Salvatore Cingari la vecchia volpe, Massimo Stella il commercialista, Giacomo Commendatore il materassaio. Ruffoni è l’uomo che s’incontra con Cattaneo: a nome della società Telenord srl, gli chiede 7,5 milioni di euro per le frequenze di TvSet (scontabili fino a 3,5 milioni). Per quelle di Lombardia 7 aveva tentato il colpo pretendendo invece altri 24 milioni di euro, anche se «scontabili del 70 per cento», ammette Cattaneo.

Chi è Ruffoni? Di mestiere sarebbe macellaio: socio finanziatore della «Macelleria del Portico» e della «Bottega della carne equina» a San Felice sul Panaro, provincia di Modena. Ma ha avuto gran successo anche nel settore televisivo, a giudicare dai miliardi raccolti. Suo compito è soprattutto quello di «procacciare i clienti nei cui confronti vengono emesse le fatture sovradimensionate», scrivono gli investigatori della Guardia di finanza. Ma il vero capo è Giacomo Commendatore. È lui il «proprietario effettivo delle società Telegestioni, Euromixer e Telenord. È il Commendatore che traccia le strategie generali di sviluppo delle società, affidando agli altri associati il compito di porlo materialmente in essere». Ruffoni, in fondo, è solo «il fido esecutore degli ordini impartiti dal Commendatore». Questi, invece, «sin dalla costituzione diventa di fatto il socio di maggioranza di Telegestioni (60 per cento delle quote), mentre il 40 per cento originariamente in mani di Ferraris e Alvisini, gli viene ceduto in seguito». Entrato nel giro come cliente delle tv (per le televendite dei suoi materassi Eminflex), diventa il padrone di fatto e si muove per «costituire un polo televisivo attraverso l’acquisizione di varie televisioni locali».

ANDARE AI MATERASSI.
L’impero ereditato da Giacomo Commendatore, il leader italiano dei materassi, comprende la Eminflex e la Permaflex, l’azienda per cui lavorava Licio Gelli. L’azienda di materassi più telepubblicizzata d’Italia ha alle spalle una storia intricata. Lo zio di Giacomo Commendatore, Carmelo, si è fatto 13 anni di galera per sequestro di persona, realizzato nel 1971 in concorso con Luciano Liggio. Fino al 1982 a tenere i conti dell’azienda era uno strano contabile: Giacomo Riina, zio di Totò Riina. E negli anni Novanta un rapporto investigativo sosteneva che la Eminflex realizzasse riciclaggio di denaro sporco: accusa mai provata e dunque caduta (dei Commendatore, Diario ha scritto nell’ottobre 2001: un'inchiesta di Giuseppe Bascietto). Malgrado il suo ruolo così centrale, il giudice per le indagini preliminari ha respinto la richiesta d’arresto per Commendatore, come anche per Ruffoni e Stella. In cella finiscono soltanto Piccoli, Alvisini e Ferraris. Quest’ultimo, fisico da giocatore di rugby, è nipote del sindaco di Bergamo, Cesare Veneziani, di Forza Italia. Era anche console onorario dell’Uganda, ma non gli è servito a evitare l’arresto. Gli altri protagonisti di questa vicenda sono Salvatore Cingari, siciliano trapiantato a Genova, pioniere della tv privata e gran conoscitore del business delle frequenze, vecchio proprietario di Telemixer. Massimo Stella è il commercialista che «si occupava di gestire di fatto e in maniera sicuramente occulta gran parte delle società cosiddette infragruppo, ufficialmente amministrate da prestanomi, pluripregiudicati e altri personaggi per lo più stranieri che, una volta terminato il ciclo di utilizzo delle società, scomparivano così come le scritture contabili».

È citato nei verbali anche Antonio Marano, il leghista direttore di Raidue, un tempo proprietario di una tv privata di Varese chiamata Rete 55. «Voglio altresì riferire», dichiara Mauro Ferraris al magistrato, «che Alvisini mi aveva incaricato di pagare in nero un certo Marano Antonio, per crediti da lui suppostamente vantati in relazione alla cessione nei primi anni Novanta di Rete 55 a Lombardia 7 tv».

E Paolo Romani? È diventato un personaggio politico importante: deputato azzurro dal 1994, è coordinatore di Forza Italia in Lombardia, presidente della commissione parlamentare sulle Comunicazioni e membro della commissione di vigilanza sulla Rai. Oggi è indagato per bancarotta fraudolenta e false fatture, ma è prevedibile che esca indenne dall’inchiesta, anche per effetto della nuova legge berlusconiana sul falso in bilancio. In un Paese normale il suo coinvolgimento in questa vicenda sarebbe sufficiente a renderlo «unfit» (inadatto) alla politica. Ma siamo in Italia, dunque farà ancora carriera.
Su Romani, il direttore generale della Rai Flavio Cattaneo, sentito come persona informata sui fatti dal magistrato di Monza Walter Mapelli il 25 agosto 2003, ha raccontato la sua versione: «Il consiglio d’amministrazione della Rai mi raccomandò, per ragioni d’opportunità, di fare attenzione a trattare acquisizioni di emittenti con quote azionarie di personaggi politici». Attorno a Lombardia 7 ruotano ben due parlamentari di Forza Italia, Paolo Romani e Gianantonio Arnoldi. «Annunziata mi chiese rassicurazioni sul fatto che Romani fosse estraneo a questa televisione». E Cattaneo che cosa fa? «Mi premurai di telefonargli per assicurarmi che lui fosse da tempo estraneo alla televisione; circostanza che mi fu confermata».

C’è poi anche un filone nero, un cono d’ombra, in questa storia a mille facce. La Guardia di finanza, che intercettava le telefonate di un indagato, lo sente dire: «Le alte sfere si son rotte i coglioni perché ’ste grandi carte non le hanno». Che spiegazione dare di questa frase? Chi sono «le alte sfere»? E poi: «Quello mette a posto tutto». Chi è «quello»?

Uno dei motivi per cui Commendatore non viene arrestato è che, prima della decisione del giudice, la Guardia di finanza (ma un settore diverso da quello che stava svolgendo le indagini di polizia giudiziaria) capita alla Eminflex per una verifica fiscale: una manna piovuta dal cielo, perché gli avvocati di Commendatore possono sostenere che non si riesce a inquinare le prove con la Finanza in casa, e dunque sono cadute le esigenze di custodia cautelare.

E c’è anche un tentativo di corruzione. Forse. L’avvocato di Alvisini e Ferraris, Alberto Volpini, chiede un incontro riservato a un maresciallo della Guardia di finanza e gli fa uno strano discorso: «Mi hanno detto che non ho capito un cazzo di tutta questa vicenda. Mi hanno detto di dirvi di Sandokan, che voi avreste capito, e la cosa si sarebbe potuta aggiustare». Poi Volpini alza il pollice: «Mi hanno detto che ci sarebbe questo, di là, per voi». Il maresciallo risponde stilando un rapporto al magistrato: «Di là veniva inteso come una disponibilità di 1 miliardo di lire in Svizzera». E chi è Sandokan?

Nella vicenda di Lombardia 7 entra anche il faccendiere di Telekom Serbia, Renato D’Andria, considerato uno degli inquinatori della commissione parlamentare. Il 30 ottobre 2001 si riuniscono a Roma Ruffoni, la moglie di D’Andria (in rappresentanza del marito, che allora era in carcere) e un suo avvocato, Quirino Mancini. Argomento trattato: la vendita di Canale 10, una tv napoletana controllata da D’Andria e in seguito effettivamente passata al gruppo Ruffoni-Commendatore.

Come finirà questa complicatissima storia? Sugli affari truffaldini del gruppo Commendatore-Ruffoni si pronunceranno i giudici, anche se la nuova legge sul falso in bilancio darà una mano agli indagati. Quanto alla Truffa Grande, quella delle frequenze, andrà prevedibilmente avanti fino al compimento, con buona pace del liberismo, del pluralismo e del mercato.


Diario, 31 ottobre 2003


Gasparri 2 la vendetta

Approvata alla Camera la legge Gasparri che sancisce il monopolio tv di Berlusconi. Dopo la bocciatura di Ciampi, ritocchi minimi o addirittura peggiorativi. Il digitale? Politicamente è un grande imbroglio, tecnologicamente nasce già vecchio



Approvata alla Camera, mercoledì 24 marzo 2004, la legge Gasparri bis, che deve salvare la posizione dominante di Mediaset – cioè di Silvio Berlusconi – sul mercato televisivo e pubblicitario. Ora toccherà al Senato: Berlusconi vuole andare alle elezioni con questo problema risolto. Tra breve, dunque, la Gasparri, ritoccata dopo la bocciatura del Capo dello Stato, diventerà legge della Repubblica. Così sarà aggirato l’obbligo, imposto dalla Corte costituzionale per garantire il pluralismo e il mercato, di ridurre a due le reti Mediaset. Il pluralismo infatti, secondo la geniale trovata del geniale inventore della geniale Gasparri, sarà d’ora in poi garantito dal Digitale Terrestre, che al pari del Comunismo, del Federalismo e dell’Elisir di lunga vita, risolve ogni problema e sconfigge ogni male.

Canali a volontà, canali per tutti, a decine, a centinaia. Con qualità digitale. Che senso ha porre limiti, esiliare il povero Emilio Fede sul satellite? I canali saranno moltiplicati, non ridotti. Bene: peccato che il Digitale Terrestre, come il Sacro Graal, sia piuttosto imprendibile, sfuggente, evanescente. Nessun apparecchio televisivo digitale ha per ora fatto capolino nei negozi, e tantomeno nelle case degli italiani. E nessun nuovo canale tv è nato per arricchire l’offerta del Sacro Digitale. Saranno i soliti, vecchi canali via etere a essere ripetuti anche con tecnologia digitale, tanto per far finta che la Gasparri abbia un senso. Quanto ai canali davvero nuovi, saranno quelli satellitari. Ma quelli non hanno alcun bisogno di Gasparri, basta una parabola e un decoder.

Quando il presidente della Repubblica ha rinviato alle Camere la nuova legge sulle tv già approvata dal Parlamento, ha chiesto di sanare almeno le anomalie più macroscopiche. Che cosa ha fatto, allora, la maggioranza? Il Sic (il sistema intergrato delle comunicazioni, il paniere da cui calcolare il limite antitrust del 20 per cento) è stato leggermente ritoccato: hanno tolto quattro spiccioli, i proventi da editoria libraria e musicale, la produzione di programmi tv. Resta tutto il resto, con possibilità per la già monopolistica Mediaset di diventare ancor più monopolistica, di crescere ancora. Il Sic resta comunque un oceano di 50 mila miliardi di lire, permettendo alle tv di Berlusconi di espandersi ancora di un buon 30 per cento.

In compenso, nella nuova versione dell’ineffabile legge è silenziosamente caduto un codicillo, quello che stabiliva un altro limite antitrust: nessuno può raccogliere più del 30 per cento del mercato pubblicitario. Caduto. Scomparso. A Publitalia si sono subito rimboccati le maniche.

Quanto al controllo del pluralismo, la povera Authority potrà scendere in campo a fine maggio, ma solo per controllare tre dati, stabiliti dalla stessa furbissima Gasparri: uno, se nei negozi sono in vendita i decoder per il digitale terrestre, e se l’offerta è a prezzi accessibili; due, se la copertura virtuale del digitare terrestre ha superato il 50 per cento della popolazione italiana; tre, se c’è offerta di programmi nuovi. Tranquilli: fin da ora possiamo dire che tutto è a posto. Obiettivi raggiunti. I decoder nei negozi ci sono, i prezzi sono buoni, il 50 per cento virtuale è stato raggiunto, i programmi non saranno proprio nuovi nuovi (saranno quelli del digitale satellitare ripetuti anche per il digitale terrestre) ma insomma prima nel terrestre non c’erano. E poi si può sempre costringere la povera Rai a svenarsi per produrre qualche programma (Rai Utile...) che nessuno vedrà.
La mancanza di sanzioni per chi sgarra, lamentata da quel briccone del Capo dello Stato nella prima versione della Gasparri, è stata risolta affidando all’Authority il potere di sanzionare chi viola la legge, ma non prima del luglio 2005: dunque c’è oltre un anno di Far West in cui Mediaset potrà fare ciò che vorrà e consolidare la propria posizione dominante.

I decoder, comunque, nei negozi ci sono, e costano poco. Anche perché il governo – che fa fatica a trovare soldi per la scuola, la ricerca, le pensioni – per aiutare a vendere i decoder i soldi li ha trovati e li ha stanziati nella Finanziaria. Così oggi chi va in un negozio di materiale elettronico trova l’apparecchio Access Media (pubblicizzato nel sito Mediaset) alla modica cifra di 49 euro. Un’offertona. Anche grazie al contributo di 150 euro che il governo generosamente concede (con soldi di tutti) a chi compra il decoder offerto da Mediaset per permettere a Mediaset di non perdere Retequattro.

Ma poi i decoder sono arrivati nelle case degli italiani? Non importa, basta che siano in negozio. In effetti ne sono stati venduti pochini, 280 mila, cifra che si raggiunge se si sommano tutti i tipi di decoder presenti sul mercato. Quelli pubblicizzati sui canali Mediaset sono prodotti dalla multinazionale Adb, che ne ha venduti 35 mila. Meglio (52 mila) ha fatto Access Media, pubblicizzata sul sito Mediaset, che offre il prezzo migliore, l’offertona di 49 euro.

Ma il dato più significativo è un altro. Dei 280 mila decoder venduti, la metà, 140 mila, sono decoder Fastweb: con il digitale terrestre non c’entrano un fico, non utilizzano l’etere, ma il filo del telefono, la fibra ottica, la banda larga. Servono insomma a portarsi a casa la tv via internet. E questo la dice lunga su come sta orientandosi il mercato: il digitale terrestre nasce già superato dalla effettivamente più avanzata internet tv.
Lo conferma a Diario anche Rick Smith, vice presidente della Adb Europa: «I futuri obiettivi in tutta Europa vedono come “video medium” la banda larga. Stiamo lavorando per migliorare la qualità della tecnologia per la compressione dei dati in modo da poter sviluppare questo canale per l’uso pratico della tv».

Anche Telecom, con Valentino Rossi, sta correndo nella stessa direzione. Sta pubblicizzando con grande energia e forti investimenti «Rosso Alice» e sta potenziando gratuitamente ai suoi utenti la banda minima (aumentandola da 256 a 640 K e preparandosi a ulteriori massicci potenziamenti). Così offrirà ai clienti la tv, sia pur «on demand», sui computer di chi ha attivato una connessione Adsl. Il che vuole dire milioni di utenti già pronti domani a usufruire del nuovo medium.
Povero digitale terrestre: nasce già vecchio. Ma fa tanto, tanto bene a Berlusconi.

Di Gianni Barbacetto. Ha collaborato Giorgio Sebastiano
Diario, 26 marzo 2004








 
 
 

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