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E ora Cosa nostra chiede il conto



Leoluca Bagarella lancia un proclama ai politici. I boss in carcere "avvertono" gli avvocati parlamentari. Subito dopo a Marcello Dell'Utri viene data la scorta. Dopo otto anni, la mafia vuole che siano rispettati i patti segreti. Altrimenti sarà guerra

di Gianni Barbacetto


Le estati palermitane sono rischiose, come quelle ore in cui non è più notte e non è ancora giorno e gli incubi cattivi si impossessano degli insonni. Veleni, corvi, omicidi, stragi: sempre d'estate accadono, quando lo scirocco rallenta i movimenti e anche lo Stato si squaglia. L'estate 2002 si è aperta con i segnali forti inviati dai boss di Cosa nostra. 12 luglio: Leoluca Bagarella durante un processo legge una dichiarazione in cui sostiene che i capimafia sono "stanchi di essere strumentalizzati, umiliati, vessati e usati come merce di scambio dalle varie forze politiche". E protesta contro il regime carcerario duro, regolato dall'articolo 41 bis dell'ordinamento penitenziario.

Cinque giorni dopo, un gruppo di mafiosi detenuti affida al segretario dei Radicali italiani una lettera indirizzata agli "avvocati parlamentari": "E dove sono gli avvocati delle regioni meridionali, che hanno difeso molti degli imputati di mafia e ora siedono negli scranni parlamentari, e sono nei posti apicali di molte commissioni preposte a fare queste leggi. Loro erano i primi, quando svolgevano la professione forense, a deprecare più degli altri l'applicazione del 41 bis. Allora svolgevano la professione solo per far cassa... Ora non si preoccupano...".

Due messaggi. Due avvertimenti. I capi di Cosa nostra parlano poco, ma quando parlano, le loro parole sono pesanti come piombo. Sono pazienti, sanno aspettare. Ma giunge un momento in cui la pazienza ha fine, e devono parlare i fatti. La "petizione" di Bagarella è una svolta storica: non era mai successo che un boss facesse pubbliche dichiarazioni in aula, accennando alle "strumentalizzazioni" delle "forze politiche". Unico precedente, Salvatore Riina che nel maggio 1994 aveva tuonato in aula contro "i comunista": "Ci sono i Caselli, i Violante, poi questo Arlacchi che scrive i libri... Ecco, secondo me il nuovo governo si deve guardare dagli attacchi dei comunista. E la legge sui pentiti deve essere abolita, perché sono pagati per inventare le cose...".

Da allora, silenzio. Otto anni di paziente silenzio. Altri hanno parlato, in questi otto anni, dicendo alla tv e sui giornali cose non dissimili, solo un po' meno sgrammaticate. Ma oggi, evidentemente, qualcosa si sta incrinando: e tornano le parole, i messaggi. "È Cosa nostra che fa sapere che così non è più possibile andare avanti. Ricorda ai politici che è tempo di mantenere i patti", interpreta l'avvocato palermitano Francesco Crescimanno. "Avete avuto un anno di tempo al governo, ora rispettare gli impegni presi prima delle elezioni", chiosa il senatore della Margherita Nando dalla Chiesa, membro della Commissione parlamentare antimafia. "Una parte di Cosa nostra, dalla galera, ha parlato anche ai boss liberi", spiega il magistrato Antonio Ingroia, "per ricordare loro che non si devono dimenticare di chi è dentro. Altrimenti potrebbero ricominciare a parlare le armi".

Quello agli "avvocati meridionali", poi, suona come un avvertimento ancor più diretto e inquietante: siete entrati in Parlamento, dove si fanno le leggi; non pensate di potervi dimenticare di noi, che aspettiamo soluzioni per non essere sepolti in carcere da una valanga di ergastoli. E a Palermo si gioca a stilare elenchi, di quegli "avvocati parlamentari": Nino Mormino, Forza Italia, vicepresidente della commissione Giustizia, difensore storico della famiglia Madonia; Enzo Trantino, Forza Italia, difensore di Marcello Dell'Utri; Antonio Battaglia, ex difensore di Bagarella, di Alleanza nazionale; Enzo Fragalà, di Alleanza nazionale...

Mafia e politica: tornano, in quest'estate palermitana, i fantasmi dei rapporti tra boss e uomini dei partiti, i contorni incerti di accordi sotterranei, di patti sottoscritti, di promesse da mantenere. In un Paese che non ha eguali in Occidente. Non soltanto per il peso straordinario che vi hanno le organizzazioni criminali, ma anche perché qui da noi sullo sfondo resta – non detto, o mai esplicitato fino in fondo – il grande imbarazzo, la grande questione irrisolta: c'è un partito di governo che secondo alcune ipotesi investigative (per ora senza prove certe) è nato, in Sicilia, da un patto inconfessabile; c'è un uomo politico, Marcello Dell'Utri, padre di quel partito, sotto processo a Palermo per mafia; c'è un presidente del Consiglio, leader indiscusso di quel partito, a lungo indagato come possibile "mandante esterno" delle stragi mafiose del 1992-93. Solo la stampa estera, nel suo squisito candore, riesce a scrivere cose terribili senza l'imbarazzo nazionale: "Inquirenti di Palermo sospettano che Silvio Berlusconi abbia fondato il suo impero aziendale con il denaro della mafia", titola il 6 luglio l'austero quotidiano tedesco Suddeutsche Zeitung. Ombre incerte, incubi senza forma. Eppure sono questi i fantasmi che tornano ad animare l'ennesima inquieta estate palermitana.

INTERCETTAZIONI. Era iniziata bene, la stagione. Con un colpaccio messo a segno dagli investigatori antimafia. Agli inizi di giugno era stato arrestato Giuseppe Salvatore Riina detto Salvuccio, 25 anni, figlio di Totò Riina, il capo dei capi. Salvuccio aveva messo le mani su alcuni appalti miliardari a Palermo, Terrasini, Mazara del Vallo. Agiva attraverso un paio di imprenditori, che a loro volta avvicinavano i politici, perché è la politica che decide gli appalti. Uno di questi imprenditori, Mario Fecarotta, è intercettato mentre si rivolge con grande familiarità a un viceministro, Gianfranco Micciché, coordinatore di Forza Italia in Sicilia.

A "Gianfrancuccio" chiede, l'11 giugno 2001, di intercedere per l'apertura di un conto bancario su cui avrebbero dovuto confluire i finanziamenti pubblici per un appalto nel porto di Palermo. "Me la fai questa cortesia, Gianfranco?". Micciché promette di interessarsi. Poi, quando Fecarotta viene arrestato e le intercettazioni diventano pubbliche, scoppia la polemica: non sul fatto che un viceministro della Repubblica sia in contatto con un socio di Riina, ma sull'utilizzo delle intercettazioni telefoniche. Enzo Fragalà, avvocato, ora parlamentare di Alleanza nazionale, rilascia dichiarazioni di fuoco: "Ci troviamo, con tutta evidenza, dinanzi a un altro uso distorto delle intercettazioni telefoniche. Occorre intervenire subito in Parlamento affinché vengano impedite simili azioni di abuso giudiziario per fini politici".

In realtà, l'intercettato era Fecarotta e la voce di Micciché (parlamentare, dunque non intercettabile) era rimasta registrata sui nastri perché chiamato da Fecarotta. Ma subito si scatena una battaglia sulle intercettazioni telefoniche. Anche perché negli stessi giorni due magistrati milanesi, Fabio De Pasquale e Alfredo Robledo, che stanno indagando su presunte evasioni fiscali e irregolarità finanziarie nella compravendita di diritti cinematografici della Fininvest, chiedono alla Procura di Palermo i tabulati telefonici dell'azienda milanese, che i magistrati palermitani hanno acquisito fin dai primi anni Novanta. De Pasquale e Robledo affidano l'incarico di analizzarli a Gioacchino Genchi, il superperito già attivo in tante indagini di mafia, lo stesso che ha analizzato il traffico telefonico nelle inchieste sulle stragi di Capaci e via D'Amelio e i contatti telefonici tra Marcello Dell'Utri ed esponenti mafiosi.

Con tempismo perfetto, un deputato di Forza Italia, Pierantonio Zanettin, presenta subito in Parlamento una proposta per impedire l'uso dei tabulati telefonici nelle indagini a carico dei parlamentari. Sarebbe la fine di tante indagini sui politici, in corso (Gaspare Giudice, Stefano Cusumano, Giuseppe Firrarello, Salvatore Castiglione) e future: ormai la soglia di prova necessaria per arrivare a una condanna processuale è diventata altissima, i "pentiti" non bastano, ci vogliono i "riscontri", ma ecco che i più classici dei riscontri, le intercettazioni e l'analisi dei tabulati telefonici, vengono azzerati. Perché non anche per noi, si saranno chiesti i boss...

ELEZIONI MAFIOSE. Domenica 14 luglio un altro politico di Forza Italia resta impigliato nella rete dell'antimafia. La mattina alle 10, la polizia di Palermo e Agrigento blocca in un casolare di Santa Margherita Belice quindici persone che avevano appena terminato di eleggere democraticamente il nuovo capomafia delle famiglie agrigentine di Canicattì, Favara, Burgio, Siculiana, Sambuca, Casteltermini, Cianciana. Tra i quindici, che stavano cominciando a festeggiare la nomina con dolci e champagne, un paio di ex politici democristiani e soprattutto un consigliere provinciale di Forza Italia, Giuseppe Nobile.

Il 19 luglio si ricorda la strage in cui, dieci anni fa, ha perso la vita Paolo Borsellino. Commozione vera, qualche discorso vuoto, e una gaffe istituzionale: alla messa in suffragio, nella chiesa della Kalsa dove Paolo fu chierichetto, non è presente alcun ministro. Tutti troppo impegnati in altre faccende. Il governo, in verità, aveva delegato un sottosegretario all'Interno, il senatore Antonio D'Alì. Ma la famiglia aveva fatto sapere che era "persona non gradita". La famiglia D'Alì in passato ha avuto come campiere il vecchio boss Francesco Messina Denaro e come dipendente agricolo suo figlio, Matteo Messina Denaro, oggi latitante e considerato l'uomo forte della nuova Cosa nostra. Un terreno dei D'Alì a Castelvetrano era stato ceduto a un prestanome di Totò Riina e ora, confiscato, ospita una comunità di Libera: inaugurata lunedì 15 luglio, alla presenza di un altro sottosegretario all'Interno, Alfredo Mantovano. Il collega D'Alì, quel giorno, aveva preferito aspettare a Trapani, per non dover parlare di mafia e dei suoi ex dipendenti su un terreno mafioso che era stato di sua proprietà.

Emerge, in questa estate italiana piena di colpi di scena, anche una strana riunione avvenuta nel marzo dello scorso anno, nello studio dell'avvocato (e parlamentare, ed ex sottosegretario all'Interno) Carlo Taormina: Dell'Utri si sarebbe incontrato con tre persone (Carmelo Canale, ex braccio destro di Borsellino, ma poi inquisito per mafia; Fabio Lombardo, nipote del maresciallo suicida a Palermo dopo le accuse di aver venduto informazioni ai boss; e il colonnello dei carabinieri Michele Riccio, che oggi ha svelato l'incontro). Ordine del giorno: cercare prove, anche false, da portare nel processo in corso a Palermo contro Dell'Utri.

PARLA LUCHINO. Poi, la scossa. Parla Bagarella. E "Luchino" Bagarella non è un boss qualunque: è l'uomo che, dopo l'arresto di Totò Riina nel gennaio 1993, prosegue la sua strategia della "guerra allo Stato" con le stragi a Firenze, Roma, Milano. Un duro dell'ala stragista. Un uomo che nutre un profondo disprezzo per i politici ma, a differenza di quel che si pensa, al momento giusto sa essere un leader militare con cervello politico. Racconta il collaboratore di giustizia Tullio Cannella che Bagarella diceva che perfino Riina era "troppo buono" con i politici, che non bisognava fidarsi troppo delle promesse di quegli ex democristiani o ex socialisti diventati il nuovo partito, Forza Italia. Quanto ad Andreotti, lo chiamava con disprezzo "il Gobbo" e ripeteva al capo dei capi che bisognava "tirargli il collo, a quello". Eppure, quando è il momento, Luchino sa mediare, sa attendere la soluzione politica. Lo racconta un capomafia messinese, Gaetano Costa, detenuto per qualche tempo con Bagarella a Pianosa negli anni Ottanta. Durante le festività natalizie del 1983, i detenuti di quel carcere organizzano una rivolta. Bagarella dice a Costa di lasciar perdere, perché "il Gobbo" si sta attivando. E "quindi siamo coperti". La rivolta è trasformata in un più tranquillo sciopero del vitto e, dopo un paio di mesi, una quindicina di siciliani viene effettivamente trasferita nel più comodo carcere di Novara.

Oggi, con le sue parole, Bagarella pone fine a una confusa fase di "dialogo", di "trattativa" tra boss e Stato: alcuni uomini di Cosa nostra avevano accettato colloqui investigativi, avevano ventilato possibilità di dichiarare una generica "dissociazione" senza però offrire contropartite, avevano avanzato richieste d'incontrarsi in carcere per decidere una linea comune da seguire. Questa voglia di trattativa, culminata nella lettera agli uomini dello Stato firmata da Pietro Aglieri, il boss della "corrente" di Provenzano che si dà arie da teologo, non ha sortito effetti visibili. Anche perché è stata smascherata e bloccata da Alfonso Sabella, il magistrato palermitano che era a capo dell'ufficio centrale ispettivo dell'amministrazione penitenziaria.

Ora scende in campo direttamente l'ala corleonese in carcere, con una "petizione" letta – forse non a caso – in un processo che si tiene nel trapanese, terra di Matteo Messina Denaro, il più ricco e potente dei boss di Cosa nostra in libertà. Basta con la melina, sembra dire ai politici, avete risolto tanti problemi vostri, avete fatto tante leggi che azzerano i reati dei colletti bianchi, il falso in bilancio, l'esportazione di capitali: ora pensate anche a noi. "Cosa nostra fa sapere che è tempo di onorare gli impegni presi", dice l'avvocaro Crescimanno. E voi, uomini di Cosa nostra in libertà, non dimenticate chi è in carcere, non pensate di potervi arricchire con la nuova pioggia d'appalti in arrivo, senza risolvere anche i problemi di chi è finito in cella.

"Nel solo biennio 2000-2001 nel distretto di Corte d'appello di Palermo sono stati comminati ben 251 ergastoli a mafiosi", ricorda l'ex procuratore Gian Carlo Caselli. C'è dunque una Cosa nostra in carcere che rischia di essere sepolta a vita in una cella. Questa Cosa nostra pretende risposte: da Cosa nostra fuori, dai politici, dai suoi avvocati diventati politici. Vuole, subito, un 41 bis più morbido; in prospettiva, la revisione delle sentenze emesse prima dell'introduzione delle nuove regole del cosiddetto "giusto processo". Domande: ha avuto interlocutori che hanno fatto promesse o si è solo autoconvinta di averli? E se li ha avuti, chi sono? E se non arriveranno le risposte sperate, quale sarà la reazione?

I CONSULENTI. Il 41 bis, in realtà, è già annacquato rispetto all'impostazione iniziale, che isolava completamente il detenuto per impedirgli di comunicare con l'esterno. Lo dimostra il fatto che negli stessi giorni dai bracci speciali di diverse carceri italiane (Novara, Cuneo, L'Aquila, Viterbo...) escono lettere di protesta assai simili tra loro. "Con espressioni come nei posti apicali, che non verrebbe in mente neppure a me", dice Nando dalla Chiesa. "Chi le suggerisce? Chi sono i consulenti dei mafiosi in carcere? Chi elenca a Bagarella le sentenze della Corte costituzionale che poi egli cita nella sua dichiarazione?". Con questo 41 bis è già possibile far arrivare fuori ordini di estorsione e perfino di morte. In un colloquio senza vetro, nell'aprile 1998, il boss Vito Vitale diceva al figlio Leonardo, di dieci anni, di riferire al fratello maggiore Giovanni di procedere con un'estorsione da 700 milioni. E poi dava il benestare a un omicidio, nei confronti della "vacca palermitana": "La scanniamo o non la scanniamo questa vacca?".

Ma il proclama di Bagarella non sembra comunque aver ottenuto l'effetto sperato: "Non ci faremo intimidire", ha risposto Berlusconi. E la Commissione antimafia si è espressa per rendere il 41 bis non più provvisorio e temporaneo, ma stabile e definitivo. Dunque l'uscita di Bagarella è stata controproducente? "Ma il Parlamento non ha ancora preso sul 41 bis la decisione definitiva", fa notare l'avvocato Crescimanno. "Stiamo a vedere come andrà a finire". Chi avrà la responsabilità politica dell'applicazione concreta della norma generale? "Del resto, anche la strage di via D'Amelio è stata controproducente per Cosa nostra", ragiona l'avvocato Alfredo Galasso, "eppure è stata realizzata". Luigi Li Gotti, storico avvocato dei collaboratori di giustizia, è convinto invece che sia in atto una manovra diversiva: "Parlano del 41 bis per ottenere qualcos'altro. C'è qualcosa che a noi sfugge: la posta in gioco è un'altra, che noi non conosciamo. Forse gli affari, la spartizione della grandi opere".

E ora che cosa succederà? C'è chi, come Antonio Ingroia, ipotizza che stiamo arrivando a una situazione simile a quella del 1992, quando Cosa nostra decise di fare piazza pulita dei politici che non avevano mantenuto le promesse – o che non avevano mantenuto gli impegni che i mafiosi si erano convinti fossero stati assunti: così furono ammazzati Salvo Lima e Ignazio Salvo, e la mattanza avrebbe dovuto continuare con l'uccisione di Calogero Mannino, Carlo Vizzini e Claudio Martelli. Oggi, dieci anni dopo, qualcuno a Palermo si chiede chi potrebbe essere il nuovo Lima. E ricomincia il gioco lugubre del Totomorto. Li Gotti, invece, non crede a una nuova stagione di sangue: "Oggi ci sono troppi affari sul piatto, troppi soldi in arrivo. Non siamo, come nel 1992, alla fine di una stagione, alla chiusura dei conti con una classe politica, ma anzi all'inizio di una nuova era di business. In fondo, molte risposte la mafia le ha avute, negli scorsi anni: il centrosinistra e il centrodestra hanno chiuso la stagione dei pentiti, varato il giusto processo, alzato le soglie di prova necessarie a condannare. E in Parlamento c'è anche una proposta di revisione dei processi con sentenza definitiva...".

D'altra parte c'è chi, come Il Foglio di Giuliano Ferrara o Il Velino di Lino Jannuzzi, ipotizza invece che la "vendetta" di Cosa nostra potrebbe essere non di piombo, ma di carta: qualche "falso pentito" mandato a rianimare le accuse contro Berlusconi. Nuovi pentiti, in realtà, non ce ne sono. C'è però chi, come Pietro Romeo, aggiunge la sua testimonianza alle tante sulla stagione delle stragi. Racconta, per esempio, un colloquio tra membri di Cosa nostra a cui ha assistito: "Quello di là sopra" diceva di continuare "a bummiare" (a mettere bombe). Ma chi lo diceva, Berlusconi? E – assicura Romeo – Gaspare Spatuzza annuì. "Tra i politici della maggioranza ci sono linee diverse", sostiene dalla Chiesa. "C'è chi è sinceramente contro la mafia, c'è chi cerca una soluzione che non dispiaccia a Cosa nostra, c'è chi vuole rompere il patto scellerato. Magari mettendo una pietra tombale sui mafiosi dentro, per stringere nuovi accordi con quelli fuori".

Ormai la mafia dei corleonesi, rumorosa, rozza e violenta, potrebbe essere sacrificata, sepolta in carcere ed esibita come trofeo per dire che Cosa nostra è sconfitta. I figli maschi di Riina sono tutti in cella, quelli di Provenzano studiano e si preparano per dare vita a una Cosa nostra "leggera", capace di stare a tavola e di inserirsi nei circuiti della politica. Ma se è così, è davvero probabile che la vecchia mafia, che ha ormai poco da perdere, non si lasci liquidare prima di aver usato tutte le sue armi: il patrimonio di conoscenza (tutto ciò che sa sulle stragi) e la potenza di fuoco (scegliendo un obiettivo diretto, un politico; o indiretto, un cadavere eccellente per scatenare la repressione a tutto danno degli affari di Provenzano e della nuova mafia).

IL MALE MINORE. Il ministro delle Infrastrutture, Pietro Lunardi, ha già detto che, in nome delle grandi opere, con la mafia "bisogna convivere". Più recentemente, il 10 luglio, Silvio Berlusconi ha dichiarato a Maurizio Costanzo che "è difficilissimo realizzare le grandi opere in Italia, ci sono i verdi, gli ambientalisti...". "E c'è la mafia", gli ha suggerito Costanzo. "Sì", ha concluso Berlusconi, "ma in misura minore".

Diario, 26 luglio 2002



Il gioco grande

Dieci anni dopo la morte di Giovanni Falcone. Le inchieste che archiviano le accuse a Berlusconi e Dell'Utri, indagati per strage, lasciano aperte molte domande. Inquietanti

di Gianni Barbacetto

"Si muore generalmente perché si " soli
o perché si " entrati in un gioco troppo grande".
Giovanni Falcone


Maria Falcone, nell'attesa, aveva cucinato una torta alle fragole. Lo stesso dolce che sua madre era solita preparare, anni prima, a lei e a suo fratello Giovanni. Ma alle ore 17, 56 minuti e 48 secondi di sabato 23 maggio 1992 gli strumenti della stazione di rilevamento dell'Istituto nazionale di geofisica di Monte Cammarata, in provincia di Agrigento, registrano una scossa, localizzata a Capaci, nei pressi di Palermo. Non è un terremoto, ma un'esplosione avvenuta al chilometro 4 dell'autostrada che unisce l'aeroporto di Punta Raisi alla città. Una carica di oltre 500 chili di esplosivo scoppia sotto l'asfalto mentre stanno transitando tre auto blindate. Si apre un cratere profondo tre metri e mezzo, il piano stradale è squarciato e sollevato e divelto per centinaia di metri. Muoiono subito gli agenti di polizia Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo, Vito Schifani, che viaggiavano sulla prima auto del piccolo corteo. Qualche ora dopo, all'ospedale, si spengono Giovanni Falcone, che era al volante della seconda Fiat Croma blindata, e sua moglie Francesca Morvillo, seduta accanto a lui. Maria Falcone dice: la torta alle fragole non la preparerò mai più.

Sono passati dieci anni. L'Italia è cambiata, è cambiata la politica, è cambiata la mafia. Gli assassini mafiosi di Giovanni Falcone sono stati condannati. Rimangono invece senza risposta molte domande sul contesto della strage, sulla possibilità che altre "entità" siano entrate in gioco, in quel biennio terribile 1992-1993 in cui muore Falcone, viene ucciso Paolo Borsellino, Cosa nostra cambia alleanze, scoppiano le bombe a Firenze, Roma, Milano, si sbriciolano i vecchi partiti, nasce un nuovo sistema politico. Ci sono "mandanti a volto coperto" di quella strategia delle stragi? C'è qualcuno che si è mosso accanto a Cosa nostra? Un decennio d'indagini non ha portato ad alcuna certezza – almeno sul piano giudiziario. Ma ha accumulato una grande quantità di materiale investigativo che ora – sul piano giornalistico, ma anche politico e storico – lascia aperte molte domande. Inquietanti. Anche l'ultima indagine sui mandanti esterni della strage di Capaci, aperta a Caltanissetta a carico di Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri (iscritti per ragioni di segretezza con le sigle Alfa e Beta) è stata archiviata pochi giorni fa, il 3 maggio, dal giudice per le indagini preliminari (gip) Giovanbattista Tona.

Archiviata nel novembre 1998 – apprendiamo oggi – pure l'indagine segreta sulle stragi del 1993 a Firenze, Roma e Milano disposta della Procura di Firenze a carico di Berlusconi e Dell'Utri (iscritti con le sigle Autore 1 e Autore 2): "Per l'insufficienza degli elementi a sostenere l'accusa in giudizio". Eppure la lettura dei decreti d'archiviazione, invece di tranquillizzare, finisce per accrescere le incertezze, i dubbi, le inquietudini. Non abbiamo trovato elementi sufficienti a portare alcun indagato eccellente in un'aula di giustizia – dicono nella sostanza i giudici – ma è certo che Cosa nostra non ha fatto tutto da sola, è sicuro che altre entità sono entrate in gioco. Dunque gli assassini sono tra noi. Scrive infatti il gip di Firenze: "Le indagini svolte hanno consentito l'acquisizione di risultati significativi solo in ordine all'avere Cosa nostra agito a seguito di input esterni". Chi ha dato questi input? Pezzi di apparati dello Stato, gruppi politici, imprenditori?

Berlusconi e Dell'Utri erano certamente in contatto con uomini di Cosa nostra. E hanno "intrattenuto rapporti non meramente episodici con i soggetti criminali cui è riferibile il programma stragista". Dunque l'ipotesi dell'accusa ha "mantenuto e semmai incrementato la sua plausibilità". Ciò nonostante, i magistrati di Firenze non hanno "potuto trovare – nel termine massimo di durata delle indagini preliminari – la conferma delle chiamate de relato e delle intuizioni logiche", cioè non hanno la prova provata di quanto raccontato da una decina di mafiosi diventati collaboratori di giustizia. L'archiviazione di Caltanissetta non è più rasserenante. Riassume dieci anni d'indagini sulle stragi e offre la sintesi finale di uno scenario inquietante: la drammatica transizione italiana tra la "prima" e la "seconda Repubblica" è avvenuta a colpi di bombe e di inconfessabili trattative tra lo Stato e la criminalità organizzata.

La situazione era drammatica: il sistema politico era in crisi, le elezioni del 5 e 6 aprile 1992 avevano punito i partiti e mostrato la disaffezione crescente per le forze politiche tradizionali, Mani pulite stava mettendo in luce l'enorme corruzione italiana, la situazione del debito pubblico stava portando il Paese verso il baratro. In questo contesto, la più potente e ricca delle organizzazioni criminali, Cosa nostra, decide di cambiare pelle: diventati ormai definitivi gli ergastoli del maxiprocesso di Palermo (30 gennaio 1992), i boss decretano di punire i vecchi alleati che non hanno mantenuto i patti (la Dc di Giulio Andreotti e Salvo Lima) e di cercare nuovi referenti politici. Dichiarano guerra allo Stato, che intanto è scosso dalla crisi di Tangentopoli e resta senza governo (Andreotti si dimette il 24 aprile 1992) e senza presidente della Repubblica (Francesco Cossiga, sotto minaccia d'impeachment per il caso Gladio, si dimette il 25 aprile). Cosa nostra inizia il suo attacco. Uccide quelli che considera i "traditori": il 12 marzo 1992 il proconsole andreottiano in Sicilia Salvo Lima e, nel settembre successivo, Ignazio Salvo.

Poi elimina il suo nemico numero uno, colui che aveva ottenuto gli ergastoli del maxiprocesso, e che per il futuro, andato a Roma, al ministero della Giustizia, minaccia di fare anche peggio. Il 19 luglio è la volta di Paolo Borsellino: una strage controproducente per Cosa nostra, incomprensibile senza l'intervento di qualcuno, esterno all'organizzazione, che abbia spinto, fatto precipitare i tempi, garantito una protezione. Infine, nel 1993, le strane stragi a Firenze, Roma, Milano, che hanno per obiettivo monumenti e opere d'arte e sono subito rivendicate dalla Falange armata, misteriosa sigla che rimanda a settori dei servizi segreti.

Già alla fine degli anni Ottanta Cosa nostra aveva dato segni di irrequietezza politica. Insoddisfatta dello scudo fornito dalla Dc, aveva cominciato a dirottare il proprio sostegno verso il Psi e il Partito radicale, che piacevano ai boss "per i loro discorsi garantisti". Quando però Claudio Martelli, eletto a Palermo anche con i voti della mafia, diventa ministro della Giustizia, chiama al suo fianco Falcone (febbraio 1991) e vara un decreto legge (aprile 1991) che impedisce le scarcerazioni per decorrenza termini che stavano per scattare, anche il Psi diventa un nemico. Totò Riina cerca nuovi punti di riferimento politici. Dentro Cosa nostra nasce addirittura un partito, Sicilia libera, fondato da Tullio Cannella per conto del boss corleonese Leoluca Bagarella, che propugna l'indipendentismo siciliano e cerca un raccordo con una serie di "leghe del Sud", risposta meridionale al successo della Lega di Umberto Bossi.

Ma nello stesso tempo i mafiosi coltivano rapporti, aprono contatti con imprenditori e con uomini dello Stato. Con Raul Gardini, che con la sua Calcestruzzi è diventato di fatto socio di Cosa nostra. Falcone se ne accorge, e dice in pubblico: "La mafia è entrata in Borsa". L'obiettivo dei boss è economico (fare affari), ma anche politico: attraverso Gardini arrivare a Bettino Craxi e fargli interrompere la svolta antimafia del suo delfino Martelli. Questa strada presto s'interrompe: Gardini è estromesso dalla Ferruzzi, poi si toglie la vita; e Craxi affonda sommerso dagli avvisi di garanzia di Mani pulite. Durano di più i contatti con gli ambienti Fininvest, con Marcello Dell'Utri e Silvio Berlusconi. Contatti che venivano da lontano: "I rapporti di Cosa nostra con Dell'Utri e Berlusconi erano risalenti nel tempo", scrive il gip di Caltanissetta, "in una prima fase erano stati collegati con Stefano Bontate, Pietro Lo Iacono e Girolamo Teresi della famiglia della Guadagna"; poi, nei primi anni Settanta, un uomo di Cosa nostra, Vittorio Mangano, era stato addirittura accolto nella villa di Arcore e, "secondo quanto raccontava, lì avevano soggiornato anche vari latitanti, come Nino Grado, Francesco Mafara, Salvatore Contorno, dedicandosi al traffico di droga e ai sequestri di persona". Secondo il collaboratore di giustizia Salvatore Cucuzza, Mangano aveva tentato addirittura il sequestro di Luigi Berlusconi, padre di Silvio e dirigente della Banca Rasini, poi non realizzato.

Dalle casse di Berlusconi, comunque, cominciano a uscire soldi diretti a Palermo: prima a Bontate, ai tempi numero uno di Cosa nostra, poi a Vittorio Teresi, poi ancora a Ignazio Pullarà, della "famiglia" di Santa Maria di Gesù. "Gli faceva uscire i picciuli", racconta il boss Giovanni Brusca. Versamenti mensili, perché Cosa nostra proteggesse le antenne tv siciliane. Brusca conferma di aver chiesto personalmente a Mangano, negli anni Novanta, di ripristinare i suoi contatti. "Mangano si rese disponibile", scrive il gip. "Fece diversi viaggi a Milano per portare a termine il compito affidatogli da Brusca che consisteva nell'avanzare a Berlusconi le richieste che stavano a cuore all'associazione Cosa nostra. Mangano si servì di un altro intermediario, che diceva a Brusca di chiamarsi Roberto e che faceva "l'imprenditore all'interno della Fininvest... aveva l'appalto delle pulizie". Chi sia "Roberto" non si sa. Sono stati arrestati a Milano, nel marzo 1998, due imprenditori del settore pulizie, con appalti Fininvest, contatti con Dell'Utri e strettissimi rapporti con la famiglia Mangano, ma non è stata trovata alcuna prova che "Roberto" sia uno di loro; inoltre la sentenza di primo grado li ha assolti dall'accusa di associazione mafiosa. Ma Mangano aveva certamente ottimi rapporti con gli ambienti Fininvest: Dell'Utri ha pubblicamente confermato di aver sempre mantenuto la sua amicizia con lui; e un collaboratorte di giustizia, Salvatore Cocuzza, afferma che Mangano aveva addirittura comunicato in anticipo ai boss il varo del decreto Biondi (quello passato alla cronaca nel 1994 con il nome di "salvaladri", che avrebbe avuto un effetto positivo anche per i mafiosi, se il governo Berlusconi non fosse stato costretto a ritirarlo).

Ci sono altri canali aperti tra Palermo e Milano, scrive il gip. Uno passa da Catania, dove Cosa nostra organizza attentati alla Standa (allora posseduta da Berlusconi) non solo per ottenere il "pizzo", ma forse anche per attivare un canale con la Fininvest. Così, almeno, raccontano alcuni collaboratori, ma di ciò non sono state trovate conferme. Un altro canale passa invece attraverso Massimo Maria Berruti, "ex ufficiale della Guardia di finanza in contatto con Totò Di Ganci (rappresentante della famiglia di Sciacca)" e oggi deputato di Forza Italia. Angelo Siino, ex "ministro dei lavori pubblici" di Cosa nostra, racconta che un altro esponente di Cosa nostra, Antonino Gioè, gli ha confidato in carcere che Leoluca Bagarella, dopo l'arresto di Riina nel gennaio 1993, aveva in programma attentati a monumenti come la Torre di Pisa. La conversazione era stata interrotta per paura di intercettazioni, ma poi Gioè aveva lasciato a Siino nel locale docce del carcere un biglietto in cui "era scritto che Berruti aveva detto a Bagarella di compiere azioni eclatanti relative tra l'altro a un edificio fiorentino che custodiva opere d'arte". Un ulteriore canale era rappresentato dai fratelli Graviano, che secondo Cannella "si incontravano personalmente" con Dell'Utri. Questi canali erano reali, arrivavano davvero a Dell'Utri e Berlusconi, oppure gli uomini di Cosa nostra, lungo la catena degli intermediari, si smarrivano in millanterie, esagerazioni, bugie?

L'OMBRA DEI SERVIZI SEGRETI. Nella stagione delle stragi si incontrano molti indizi anche dell'intervento di apparati dello Stato. Le memorie dei computer di Falcone dopo la sua morte sono misteriosamente cancellate e manomesse; sul luogo dell'attentato viene trovato un bigliettino con un numero di telefono del Sisde, il servizio segreto civile; al Sisde apparteneva Bruno Contrada, di cui un nuovo "pentito", Gaspare Mutolo, stava per parlare a Falcone; inspiegabili telefonate avvengono, attorno alla morte di Borsellino, tra uomini di Cosa nostra e un altro numero del Sisde; scompare da via D'Amelio l'agenda rossa che Borsellino portava sempre con sé. L'unico contatto apparati-mafia di cui si ha certezza è però la "trattativa" aperta subito dopo la morte di Falcone dai carabinieri del Ros – il colonnello Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno – con Vito Ciancimino. Obiettivo: la cattura di Totò Riina.

Gli uomini di Cosa nostra raccontano invece di "trattative" più complesse con lo Stato, di un "papello" presentato a misteriosi interlocutori con l'elenco delle richieste avanzate per interrompere le stragi: "Erano sei o sette punti", racconta il collaboratore di giustizia Salvatore Cancemi, "fare annullare l'ergastolo, fare annullare la legge sui pentiti, il sequestro dei beni e altre cose...". Dopo i primi contatti, i boss esultano: "Si sono fatti sotto", dicono soddisfatti, "ci vuole un altro colpetto". Ma i racconti della "trattativa" fatti dalle due parti non coincidono: o qualcuno (magari Ciancimino) ha interrotto la catena, non riportando fedelmente i discorsi dei carabinieri a Cosa nostra e di Cosa nostra ai carabinieri; oppure esistono più trattative (e in questo caso: chi altro ha trattato con i mafiosi a nome dello Stato?).

Di certo c'è che Falcone e Borsellino sono morti e che le bombe sono esplose. E alla fine della guerra a colpi di attentati, l'Italia si sveglia diversa. Cosa nostra è cambiata, diventa invisibile, la strategia stragista corleonese sembra sconfitta, molti boss sono in carcere. Anche la politica ha cambiato faccia e, scomparsi i partiti di governo, nel 1994 a vincere le elezioni è il nuovo partito di Berlusconi. "Sulla vicenda del sostegno di Cosa nostra (...) a Forza Italia, si sono raggiunti sufficienti elementi di conferma", scrive il gip di Caltanissetta. Anche Brusca ammette di aver dato il suo contributo. E quando Berlusconi nel 1994 arriva a Palermo per l'ultimo comizio della campagna elettorale – racconta Cannella – "Bagarella mi disse che aveva preso 'impegni seri' con noi, intendendo con tutta Cosa nostra".

Certamente Cosa nostra pensava alla politica e cercava nuovi referenti. Certamente li ha trovati, alla fine, in Forza Italia. Ma ha avuto contatti fin dall'inizio con Berlusconi o Dell'Utri, ha concordato con loro la strategia stragista che doveva dare origine a una nuova mafia e a una nuova politica? Il giudice lascia aperta la domanda. Afferma soltanto che non ci sono elementi sufficienti per sostenere in un'aula di giustizia che qualcuno ha davvero preso "impegni seri" con i mafiosi: "Gli spunti indiziari a sostegno dell'ipotesi accusatoria sono numerosi, ma incerti e frammentari, pertanto inidonei a legittimare l'esercizio dell'azione penale". Indica poi ulteriori contatti pericolosi di Dell'Utri (tra cui quelli con con Patrick Perrin, personaggio a sua volta in contatto con Licio Gelli e implicato in traffici di valuta, oltre che ricercato per rapina insieme a uomini del clan Santapaola).

E sostiene che risultano "accertati rapporti di società facenti capo al gruppo Fininvest con personaggi in varia posizione collegati all'organizzazione Cosa nostra": il gip cita la Coge spa (controllata dalla Paolo Berlusconi Finanziaria), in affari in Sicilia con aziende in odore di mafia e intrecciata societariamente con uomini considerati vicini a Cosa nostra (come "tale Salvatore Simonetti, nato a San Giuseppe Jato"); poi elenca cinque società con sede a Palermo (Rete Sicilia, Sicilia televisiva, Sicil tele, Trinacria tv, Crt Sicilia color), incorporate nel 1991 nel gruppo Fininvest. "La circostanza", scrive il gip, "rende pure plausibile che Cosa nostra, in quel periodo fortemente radicata sul territorio e certamente capace di condizionare le attività economiche in esso operanti, non rimanesse inerte dinanzi all'avanzare di una realtà imprenditoriale di quelle proporzioni, perlopiù facente capo a un gruppo nel quale si muovevano soggetti già considerati facilmente avvicinabili in forza di pregressi rapporti".

I rapporti economici, continua il gip, "costituiscono dati oggettivi che – in uno agli altri elementi relativi ai contatti e alle frequentazioni di Dell'Utri con esponenti della stessa cosca – rendono quantomeno non del tutto implausibili né peregrine le ricostruzioni offerte dai diversi collaboratori di giustizia, esaminate nel presente procedimento, in base alle dichiarazioni dei quali si " ricavato che gli odierni indagati erano considerati facilmente contattabili dal gruppo criminale; vi è insomma da ritenere che tali rapporti di affari con soggetti legati all'organizzazione abbiano quantomeno legittimato agli occhi degli 'uomini d'onore' l'idea che Berlusconi e Dell'Utri potessero divenire interlocutori privilegiati di Cosa nostra".

Il giudice conclude "lasciando al pm le valutazioni di sua competenza in ordine all'utilità di tali dati per individuare eventuali ulteriori piste investigative diverse da quelle sinora perseguite": lascia aperta la strada a ulteriori indagini, come già è successo a Palermo con l'archiviazione dell'inchiesta "Sistemi criminali". A dieci anni, il "gioco grande" di cui parlava Falcone resta ancora nascosto. Rimaniamo senza certezze sul biennio fondativo del nostro nuovo sistema politico. Se la "prima Repubblica" si diceva nata dalla Resistenza, la "seconda" è nata dal buco nero delle stragi.

Diario, 17 maggio 2002




Cosa nostra, la trattativa

Una lettera del boss Pietro Aglieri riapre il patteggiamento tra mafia e Stato. Dieci anni dopo le stragi in cui furono uccisi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino Cosa nostra, trattativa finale

di Gianni Barbacetto

Nel biennio 1992-93 in Italia tutto cambia. Crolla il sistema dei partiti e scoppiano le bombe delle stragi. In sottofondo, una trattativa segreta tra Cosa nostra, apparati dello Stato, imprenditori del Nord. Dieci anni dopo, i nodi di quelle trattative stanno venendo al pettine. Quali impegni erano stati assunti? Quali promesse erano state fatte? E ora?

Si può vederla in due modi. Uno. Cosa nostra è sconfitta, la maggior parte dei suoi boss è in carcere e sta per essere seppellita dagli ergastoli, quelli rimasti liberi sono latitanti e braccati. Avviare una trattativa può servire allo Stato per chiudere una stagione, vedere riconosciuta la sua autorità, ottenere – dopo dieci anni di guerra – la vittoria finale: la resa, lo scioglimento dell'organizzazione criminale. Due. Cosa nostra continua la sua attività, florida, sotterranea, sommersa. Ma ha un problema: decine di capi sono in carcere. Deve dare loro una via d'uscita, concludere una trattativa con lo Stato che permetta ai boss dentro di non essere sepolti a vita in una cella e all'organizzazione fuori di rifondarsi su basi nuove: affari, buoni rapporti con la politica, violenza ridotta al minimo. Una "Cosa nuova" ricca, silenziosa e invisibile. Comunque la si guardi, in un modo o nell'altro il problema dei problemi, il nodo dei rapporti tra mafia e Stato oggi ha un solo nome: trattativa.

Sono passati dieci anni dalle stragi di mafia che nel 1992 hanno ucciso Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e hanno aperto una sfida allo Stato. Una guerra fatta a colpi di tritolo, con l'autostrada di Capaci sventrata, via D'Amelio come Beirut. E poi i kalashnikov contro i "pentiti" e le loro famiglie e, nel 1993, le bombe e i morti per la prima volta fuori dalla Sicilia, a Firenze, a Roma, a Milano. Oggi, dieci anni dopo, questa guerra è finita. Lo Stato ha reagito, ha varato leggi più severe, ha catturato molti dei grandi capi, li ha sottoposti in cella al regime duro, quello stabilito dall'articolo 41 bis del regolamento carcerario. Poi la stretta si è allentata, la memoria si è affievolita, le maglie della legge sono diventate più larghe. E ora, da una parte e dall'altra, c'è chi vuole trattare, scendere a patti, trovare una via d'uscita. Le grandi manovre sono già iniziate. Chi le conduce? Come reagisce la politica? E come andrà a finire? Negli ultimi giorni la cronaca di cose mafiose ha registrato due avvenimenti rilevanti: la lettera scritta dal boss di Cosa nostra Pietro Aglieri e la cattura (grazie a una "soffiata") di un altro boss, Antonino Giuffrè. Molto probabilmente sono due episodi di un'unica storia: la storia della trattativa fra Stato e Cosa nostra.

LA LETTERA. Pietro Aglieri detto u signurinu al momento dell'arresto è stato trovato con libri di filosofia, di teologia e perfino un altare, dove pregava e ascoltava la messa. Ora ha ottenuto di iscriversi alla facoltà di lettere di Roma, indirizzo teologico. Il 28 marzo 2002 ha inviato una lettera al procuratore nazionale antimafia Piero Luigi Vigna e, per conoscenza, al procuratore di Palermo Piero Grasso ("in modo che non ci possano essere fraintendimenti di sorta", spiega nella missiva). È un segnale di trattativa, fatto arrivare contemporaneamente ai mafiosi e ai politici. Un'apertura di dialogo, una dimostrazione di disponibilità ad aprire un patteggiamento. "Avendo più volte appreso nel recente passato dai mezzi di informazione notizie fuorvianti e non corrispondenti al vero relative a una mia ipotetica dissociazione in accordo con altri, mi sono deciso a scriverle". Aglieri ribadisce "il no deciso a soluzioni individuali come la delazione e la dissociazione", si scaglia contro "le propalazioni di certi pseudo collaboratori che hanno dichiarato tutto e il contrario di tutto pur di uscire dal carcere". E ci somministra una lezione di garantismo, proponendo invece la ricerca di "soluzioni intelligenti e concrete": "sicuramente i risultati sarebbero più duraturi, più profondi, più coerenti con la Costituzione di questo Paese". "Capisco che soluzioni alternative, che prescindano dalla collaborazione o dalla dissociazione, siano inevitabilmente più lunghe, più complesse e più articolate. Ma proprio per questo abbisognerebbero di un lavoro più attento e paziente, fatto e condotto da persone lungimiranti".

Poi Aglieri lancia la sua proposta: "Solo se si prendesse in seria considerazione la possibilità di un ampio confronto fra detenuti si potrà trovare qualche sbocco". Attacca: "Non sarà con metodi o processi, che in certi casi vanno oltre quegli stessi metodi che si dice di volere combattere, che uno Stato laico e democratico riuscirà a dare più sicurezza ai suoi cittadini". Infine Aglieri si dice disponibile, nel caso non fosse riuscito a essere sufficientemente "esaustivo ed esplicativo", a "qualsiasi approfondimento con chiunque", in modo da evitare "fraintendimenti di sorta" e troncare ogni "flatus vocis tendenzioso". Aglieri invia innanzitutto un messaggio all'interno di Cosa nostra, rivolto ai boss: ho accettato di parlare in carcere con i magistrati, fa capire, ma "tenendo sempre presente la mia identità"; dunque state tranquilli, rifiuto la collaborazione (anzi, la "delazione") e perfino la dissociazione, "intesa come metodo di accuse anche se indiretto". Però dobbiamo trovare una via d'uscita, dunque parliamone tra noi, boss in carcere. Questa è la vera richiesta che ora Aglieri rivolge all'esterno, allo Stato: lasciatemi parlare con i capi di Cosa nostra, quelli dell'ala di Bernardo Provenzano e dei palermitani, a cui appartengo, ma anche con quelli dell'ala degli "stragisti" di Totò Riina e dei corleonesi. Una bella riunione della Commissione di Cosa nostra in carcere, per decidere insieme le prossime mosse. Chiunque prenda decisioni individuali sbaglia, rischia di passare per traditore. Prendiamola insieme, la decisione migliore per Cosa nostra.

L'avvocato Carlo Taormina, ex sottosegretario del governo Berlusconi, ha subito commentato la lettera con toni entusiastici: "Lo Stato deve prendere immediatamente atto della volontà di dissociazione che imputati e condannati per mafia vogliono effettuare, perché questo significa inginocchiarsi davanti alle istituzioni". Di parere opposto il procuratore Piero Grasso: "Si potrà cominciare a parlare di resa della mafia quando i commercianti non dovranno più essere salassati dal racket, gli imprenditori potranno partecipare alle gare d'appalto senza subire le prevaricazioni di imprese più forti perché protette dalla mafia, quando si consegneranno tutti i latitanti e verranno aperti gli arsenali pieni di esplosivi, quando scompariranno il contrabbando e le attività illegali, il totoscommesse, il traffico di droga". Anche Roberto Centaro, presidente della Commissione parlamentare antimafia, rifiuta le proposte di Aglieri: "Lo Stato non avvia trattative con Cosa nostra. Non lo farebbe mai, per principio, figuriamoci in questo caso in cui siamo di fronte a un proclama svuotato di ogni contenuto".

LA "SOFFIATA". Antonino Giuffrè detto Nino Manuzza, boss vicinissimo a Bernardo Provenzano, è stato arrestato all'alba del 16 aprile in un ovile. Era pieno di "pizzini", nelle tasche e perfino nelle mutande. I "pizzini" sono i foglietti con cui i capimafia latitanti comunicano tra loro: gli sms di Cosa nostra. Questi messaggi riguardavano soprattutto gli appalti, gli affari, i soldi, i piccioli a cui si dedica ora a tempo pieno l'organizzazione, chiusa la stagione delle stragi e dei morti. Ma Giuffrè è stato bloccato dai carabinieri a colpo sicuro, per effetto di una "soffiata". E proprio nei giorni in cui diventava pubblica la lettera di Aglieri. Chi ha tradito Manuzza? L'ipotesi di un investigatore molto esperto è inquietante: è la Cosa nostra di "quelli dentro" che manda a dire a Provenzano e a "quelli fuori", ma anche allo Stato, che la pazienza è finita, che devono scordarsi di pensare ai piccioli e alla politica e dimenticare i boss in carcere, che una soluzione va trovata, e al più presto.

Una volta, nei primi anni Novanta, Cosa nostra si divideva tra i "corleonesi" di Totò Riina, che volevano fare guerra allo Stato per poi trattare la pace, e i "palermitani" che avevano seguito, ma senza entusiasmi, il progetto stragista di Riina. Ora la divisione è un'altra: "quelli dentro", corleonesi e palermitani, che vogliono una speranza di non passare la vita in cella; e "quelli fuori", che vogliono una Cosa nostra nuova, sommersa, invisibile, dentro la politica come il topo dentro il formaggio, che non fa guerra a nessuno ma tesse affari, accumula piccioli. La Commissione, la Cupola dell'organizzazione, non c'è più: i suoi membri sono quasi tutti in carcere. È sostituita da un ristretto direttorio di cui fanno parte i latitanti superstiti, Salvatore Lo Piccolo, Matteo Messina Denaro. E Binnu Provenzano, naturalmente: che governa provvisoriamente Cosa nostra non per la sua forza, per il suo esercito (Messina Denaro, per esempio, è più forte militarmente ed economicamente), ma perché è l'unico capo di Cosa nostra che in un momento delicato come quello seguito alla sconfitta della strategia corleonese delle stragi ha potuto mettere in campo l'esperienza, le conoscenze, i rapporti, l'autorità, il prestigio necessari a tenere insieme l'organizzazione, a evitare i conflitti, a traghettarla verso la ricostruzione su basi nuove.

La deve riorganizzare "fuori", e questo obiettivo è raggiunto: il controllo del territorio, le estorsioni, le imposizioni dei subappalti – gli affari insomma – continuano a pieno regime, con nuovi capi e nuovi soldati. Ma deve anche garantire il collegamento tra "quelli fuori" e "quelli dentro". Non deve, non può dimenticare il popolo di Cosa nostra finito in cella, che dentro ha tanti segreti da far tremare molti uomini della mafia e forse anche dello Stato; e fuori ha ancora uomini capaci di uccidere, o di far arrestare con una "soffiata". Questo è il compito più difficile di Provenzano: tenere insieme le due anime di Cosa nostra oggi. Se ci riesce, trovando una "soluzione politica" per la "mafia armata" in carcere, manterrà il comando e traghetterà l'organizzazione verso una nuova Cosa nostra, forte e invisibile. Se non ci riuscirà, allora si riapriranno i conflitti: "quelli fuori", i giovani leoni degli affari, potrebbero essere tentati di abbandonare al loro destino "quelli dentro", ma allora torneranno a cantare i kalashnikov. C'è un altro protagonista in questa vicenda: gli uomini della politica e dello Stato. Dieci anni fa, Riina aveva scritto il suo "papello", la madre di tutte le trattative, l'elenco delle cose che chiedeva allo Stato per sospendere il suo attacco terroristico. È stato sconfitto, ma il "papello" ha ancora una sua validità. In parte è già stato attuato: la nuova legge sui pentiti ha bloccato le nuove collaborazioni; il 41 bis è molto ammorbidito...

Ma resta il problema degli ergastoli: un sei, sette "anni di branda", ha detto una volta Riina, un uomo d'onore è sempre pronto a farli; ma l'ergastolo no, l'ergastolo è la fine. È proprio quando gli ergastoli del maxiprocesso di Falcone sono diventati definitivi, alla soglia degli anni Novanta, che Riina ha scatenato la guerra contro lo Stato. Ora siamo a una svolta simile: a quelli del maxiprocesso si sono aggiunti gli ergastoli per le stragi del 1992-1993 e per altro ancora. Se qualcuno, dentro lo Stato e dentro la politica, ha trattato dieci anni fa con gli uomini di Cosa nostra, questo è il momento che mantenga i suoi patti. Altrimenti è prevedibile che ci siano nuove vittime eccellenti. Oggi siamo ai messaggi, alle lettere; domani un nuovo Salvo Lima potrebbe restare sul marciapiede di una città della Sicilia o del Nord. Per questo riprende vigore lo spirito della trattativa.

LA DISSOCIAZIONE. Domanda: Aglieri è in grado di scrivere da solo la lettera che ha firmato? La risposta è no. Domanda successiva: ma allora chi ha scritto quella lettera? Chi è il regista dell'"operazione trattativa"? "Non l'ho scritta io", risponde sorridendo, ancor prima di aver ricevuto la domanda, Rosalba Di Gregorio, avvocato di Aglieri, ma anche molto vicina alla famiglia di Vittorio Mangano e a Marcello Dell'Utri. Certo la lettera è arrivata al momento giusto, per tentare di riaprire un dibattito sulla "dissociazione" che ha già una lunga storia. Eccola. Nella primavera del 2000 Vigna, dopo aver avviato una serie di colloqui investigativi con capi mafiosi in carcere, scrive al ministro della Giustizia (allora Piero Fassino) che quattro detenuti rinchiusi a Rebibbia (Aglieri, Salvatore Buscemi, Giuseppe Piddu Madonia, Giuseppe Farinella) chiedono di poter incontrare altri quattro detenuti (Nitto Santapaola, Salvuccio Madonia, Carlo Greco, Pippo Calò) per decidere la dissociazione da Cosa nostra. Il ministro Fassino investe della questione il Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria), diretto in quel momento da Gian Carlo Caselli, che blocca l'operazione, d'accordo con Alfonso Sabella, già magistrato a Palermo con Caselli e poi da lui chiamato a dirigere l'ufficio centrale ispettivo del Dap.

In quelle settimane del 2000, però, l'avvocato Taormina dice al Giornale che lo Stato deve accettare la dissociazione da Cosa nostra. E cominciano a circolare voci sulla trattativa avviata a Rebibbia attraverso Vigna. Ne parla, per esempio, l'avvocato Di Gregorio. La possibilità della dissociazione comincia così a entrare nel circuito dei media. E Giovanni Tinebra, allora procuratore di Caltanissetta, concede un'intervista a Felice Cavallaro sul Corriere della Sera titolata così: "Dissociazione? Ero contrario, ora non più". Nel febbraio 2001 il quotidiano la Repubblica dà la notizia che Salvatore Biondino sarebbe stato incaricato dai boss di trattare la resa dei carcerati. Sarebbe una grande novità, perché Biondino vuol dire Riina, di cui è stato braccio destro e autista fino al giorno dell'arresto. Nel novembre successivo Sabella viene a conoscenza che proprio Biondino avrebbe fatto richiesta di diventare "scopino", per potersi muoversi più liberamente nel carcere di Rebibbia e avere contatti con gli altri boss di Cosa nostra.

Il 29 novembre Sabella scrive una lettera in cui informa del fatto Tinebra, che nel frattempo ha sostituito Caselli al vertice del Dap. Tinebra legge la lettera il 3 dicembre 2001 e commenta: "Ma questo Sabella come l'ha saputa 'sta notizia?". Invece di premiare l'efficienza del suo funzionario, il giorno 5 dicembre sopprime l'ufficio centrale ispettivo diretto da Sabella. Ritenendo di essere stato punito per aver bloccato la trattativa sulla dissociazione, Sabella scrive al nuovo ministro della Giustizia, Roberto Castelli, che gli risponde di tornare a fare il magistrato. Poi scrive anche al Consiglio superiore della magistratura, che lo assegna alla Procura di Firenze. Il 16 febbraio 2002, dopo una lettera di Tinebra al prefetto di Firenze Achille Serra, a Sabella (che a Palermo ha fatto arrestare Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Carlo Greco e il figlio di Riina) viene tolta la scorta. E pensare che gli era stata riconfermata solo pochi giorni prima, il 29 gennaio 2002, quando sulla base della circolare del ministro Claudio Scajola le scorte erano state tolte a decine di magistrati in tutta Italia.

IL DILUVIO UNIVERSALE. Il procuratore di Palermo Piero Grasso è uomo dai toni pacati. Mai una parola sopra le righe. Tanto che qualcuno dei suoi magistrati, rimpiangendo il suo predecessore Caselli, gli rimprovera di essere perfino troppo morbido. Ma questa volta Grasso non ha potuto evitare di alzare la voce. A un convegno organizzato all'inizio d'aprile dai magistrati di Spoleto ha lanciato un grido d'allarme pesantissimo: "Non può passare il principio per il quale una maggioranza decida di sovvertire le regole della Costituzione. Non c'è bisogno della sfera di cristallo per prevedere che anni di successi nella lotta contro Cosa nostra saranno presto azzerati. Dobbiamo salvare il salvabile prima del diluvio universale". Ha raccontato: "Un boss mafioso, benché avesse collezionato già diversi ergastoli, parlava del suo futuro come se fosse imminente il suo ritorno in libertà. Lo avevamo preso per pazzo, invece i fatti gli stanno dando ragione".

I "fatti" sono una serie di leggi che in silenzio stanno sottraendo ai magistrati gli strumenti d'indagine e stanno imponendo ai giudici soglie più alte di prova per arrivare a una sentenza di condanna. È diventato – ricorda Grasso – sempre più difficile celebrare i processi. E sarà sempre più arduo condannare gli imputati, specie se sono colletti bianchi, specie se sono vicini alla politica. Ma anche chi è già condannato ora spera di trovare una via d'uscita: la revisione del processo. Dopo l'approvazione delle regole del cosiddetto "giusto processo", infatti, i mafiosi in carcere con centinaia d'ergastoli erogati con le regole processuali precedenti, "vecchie e barbare", cominciano a chiedere un nuovo giudizio. In Parlamento è stata depositata una proposta di legge che concede il ricorso alla Corte europea dei diritti dell'uomo a chi è stato condannato prima dell'approvazione del "giusto processo". È una proposta bipartisan: firmata da Mario Pepe, Michele Saponara e altri nove deputati di Forza Italia, due dell'Udc, uno di An, uno della Lega, ma anche da deputati del centrosinistra, Giovanni Russo Spena ed Elettra Deiana di Rifondazione comunista, Franco Grillini e Franco Angioni dei Ds, Andrea Colasio della Margherita.

"Se questa legge passasse", commenta Grasso, "andrebbero a revisione anche i processi sulle stragi Falcone e Borsellino e addirittura il maxiprocesso di Palermo. Finirà che i boss chiederanno e otterranno il risarcimento per essere stati in cella". Non è la sola proposta di legge che preoccupa Grasso e i magistrati antimafia. La nuova disciplina del falso in bilancio rende più opache le società e più difficile indagare anche sull'area grigia della finanza, quella che ha contatti con i soldi mafiosi. Una legge proposta da Nino Mormino (di Forza Italia) vorrebbe togliere ai magistrati del pubblico ministero la guida della polizia giudiziaria, dunque delle indagini. Un'altra, proposta da Gian Franco Anedda (di An), prevede l'estensione dell'obbligo di concedere le attenuanti e dunque potrebbe finire per impedire che scattino le condanne all'ergastolo per i boss ancora incensurati; e poi regalerebbe ai mafiosi due armi formidabili: la possibilità di spostare i processi (Palermo è per definizione sede troppo "calda") e di ricusare i giudici (sarà sufficiente che abbiano parlato di "lotta alla mafia" in qualche scuola o, chissà, addirittura che tengano sulla scrivania la foto di Falcone e Borsellino). In Parlamento, dunque, la trattativa con Cosa nostra è già a buon punto.


Diario, 26 aprile 2002




 
 
 

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Nato davanti a una sede del Pci. Cresciuto all'ombra della Banca Rasini (che Sindona definì "la banca della mafia»). Palazzinaro con "buoni agganci» nell'amministrazione. Poi la tv. I soldi. E la politica

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Le origini (oscure) di un promettente imprenditore. Società svizzere. Sconosciute casalinghe. Commercialisti e prestanomi. Poi, una bizantina architettura di holding

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Debiti per 4 mila miliardi. Così la Fininvest ha rischiato il naufragio. Poi, la quotazione in Borsa. Ovvero: come diventare ricchi con i "comunisti» al governo.

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