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E ora Cosa nostra chiede il conto
Leoluca Bagarella lancia un proclama
ai politici. I boss in carcere "avvertono" gli avvocati
parlamentari. Subito dopo a Marcello Dell'Utri viene data
la scorta. Dopo otto anni, la mafia vuole che siano rispettati
i patti segreti. Altrimenti sarà guerra
di Gianni Barbacetto
Le estati palermitane sono rischiose, come quelle ore in cui
non è più notte e non è ancora giorno
e gli incubi cattivi si impossessano degli insonni. Veleni,
corvi, omicidi, stragi: sempre d'estate accadono, quando lo
scirocco rallenta i movimenti e anche lo Stato si squaglia.
L'estate 2002 si è aperta con i segnali forti inviati
dai boss di Cosa nostra. 12 luglio: Leoluca Bagarella durante
un processo legge una dichiarazione in cui sostiene che i
capimafia sono "stanchi di essere strumentalizzati, umiliati,
vessati e usati come merce di scambio dalle varie forze politiche".
E protesta contro il regime carcerario duro, regolato dall'articolo
41 bis dell'ordinamento penitenziario.
Cinque giorni dopo, un gruppo di mafiosi detenuti affida al
segretario dei Radicali italiani una lettera indirizzata agli
"avvocati parlamentari": "E dove sono gli avvocati
delle regioni meridionali, che hanno difeso molti degli imputati
di mafia e ora siedono negli scranni parlamentari, e sono
nei posti apicali di molte commissioni preposte a fare queste
leggi. Loro erano i primi, quando svolgevano la professione
forense, a deprecare più degli altri l'applicazione
del 41 bis. Allora svolgevano la professione solo per far
cassa... Ora non si preoccupano...".
Due messaggi. Due avvertimenti. I capi di Cosa nostra parlano
poco, ma quando parlano, le loro parole sono pesanti come
piombo. Sono pazienti, sanno aspettare. Ma giunge un momento
in cui la pazienza ha fine, e devono parlare i fatti. La "petizione"
di Bagarella è una svolta storica: non era mai successo
che un boss facesse pubbliche dichiarazioni in aula, accennando
alle "strumentalizzazioni" delle "forze politiche".
Unico precedente, Salvatore Riina che nel maggio 1994 aveva
tuonato in aula contro "i comunista": "Ci sono
i Caselli, i Violante, poi questo Arlacchi che scrive i libri...
Ecco, secondo me il nuovo governo si deve guardare dagli attacchi
dei comunista. E la legge sui pentiti deve essere abolita,
perché sono pagati per inventare le cose...".
Da allora, silenzio. Otto anni di paziente silenzio. Altri
hanno parlato, in questi otto anni, dicendo alla tv e sui
giornali cose non dissimili, solo un po' meno sgrammaticate.
Ma oggi, evidentemente, qualcosa si sta incrinando: e tornano
le parole, i messaggi. "È Cosa nostra che fa sapere
che così non è più possibile andare avanti.
Ricorda ai politici che è tempo di mantenere i patti",
interpreta l'avvocato palermitano Francesco Crescimanno. "Avete
avuto un anno di tempo al governo, ora rispettare gli impegni
presi prima delle elezioni", chiosa il senatore della
Margherita Nando dalla Chiesa, membro della Commissione parlamentare
antimafia. "Una parte di Cosa nostra, dalla galera, ha
parlato anche ai boss liberi", spiega il magistrato Antonio
Ingroia, "per ricordare loro che non si devono dimenticare
di chi è dentro. Altrimenti potrebbero ricominciare
a parlare le armi".
Quello agli "avvocati meridionali", poi, suona come
un avvertimento ancor più diretto e inquietante: siete
entrati in Parlamento, dove si fanno le leggi; non pensate
di potervi dimenticare di noi, che aspettiamo soluzioni per
non essere sepolti in carcere da una valanga di ergastoli.
E a Palermo si gioca a stilare elenchi, di quegli "avvocati
parlamentari": Nino Mormino, Forza Italia, vicepresidente
della commissione Giustizia, difensore storico della famiglia
Madonia; Enzo Trantino, Forza Italia, difensore di Marcello
Dell'Utri; Antonio Battaglia, ex difensore di Bagarella, di
Alleanza nazionale; Enzo Fragalà, di Alleanza nazionale...
Mafia e politica: tornano, in quest'estate palermitana, i
fantasmi dei rapporti tra boss e uomini dei partiti, i contorni
incerti di accordi sotterranei, di patti sottoscritti, di
promesse da mantenere. In un Paese che non ha eguali in Occidente.
Non soltanto per il peso straordinario che vi hanno le organizzazioni
criminali, ma anche perché qui da noi sullo sfondo
resta non detto, o mai esplicitato fino in fondo
il grande imbarazzo, la grande questione irrisolta: c'è
un partito di governo che secondo alcune ipotesi investigative
(per ora senza prove certe) è nato, in Sicilia, da
un patto inconfessabile; c'è un uomo politico, Marcello
Dell'Utri, padre di quel partito, sotto processo a Palermo
per mafia; c'è un presidente del Consiglio, leader
indiscusso di quel partito, a lungo indagato come possibile
"mandante esterno" delle stragi mafiose del 1992-93.
Solo la stampa estera, nel suo squisito candore, riesce a
scrivere cose terribili senza l'imbarazzo nazionale: "Inquirenti
di Palermo sospettano che Silvio Berlusconi abbia fondato
il suo impero aziendale con il denaro della mafia", titola
il 6 luglio l'austero quotidiano tedesco Suddeutsche Zeitung.
Ombre incerte, incubi senza forma. Eppure sono questi i fantasmi
che tornano ad animare l'ennesima inquieta estate palermitana.
INTERCETTAZIONI. Era iniziata bene, la stagione. Con un colpaccio
messo a segno dagli investigatori antimafia. Agli inizi di
giugno era stato arrestato Giuseppe Salvatore Riina detto
Salvuccio, 25 anni, figlio di Totò Riina, il capo dei
capi. Salvuccio aveva messo le mani su alcuni appalti miliardari
a Palermo, Terrasini, Mazara del Vallo. Agiva attraverso un
paio di imprenditori, che a loro volta avvicinavano i politici,
perché è la politica che decide gli appalti.
Uno di questi imprenditori, Mario Fecarotta, è intercettato
mentre si rivolge con grande familiarità a un viceministro,
Gianfranco Micciché, coordinatore di Forza Italia in
Sicilia.
A "Gianfrancuccio" chiede, l'11 giugno 2001, di
intercedere per l'apertura di un conto bancario su cui avrebbero
dovuto confluire i finanziamenti pubblici per un appalto nel
porto di Palermo. "Me la fai questa cortesia, Gianfranco?".
Micciché promette di interessarsi. Poi, quando Fecarotta
viene arrestato e le intercettazioni diventano pubbliche,
scoppia la polemica: non sul fatto che un viceministro della
Repubblica sia in contatto con un socio di Riina, ma sull'utilizzo
delle intercettazioni telefoniche. Enzo Fragalà, avvocato,
ora parlamentare di Alleanza nazionale, rilascia dichiarazioni
di fuoco: "Ci troviamo, con tutta evidenza, dinanzi a
un altro uso distorto delle intercettazioni telefoniche. Occorre
intervenire subito in Parlamento affinché vengano impedite
simili azioni di abuso giudiziario per fini politici".
In realtà, l'intercettato era Fecarotta e la voce di
Micciché (parlamentare, dunque non intercettabile)
era rimasta registrata sui nastri perché chiamato da
Fecarotta. Ma subito si scatena una battaglia sulle intercettazioni
telefoniche. Anche perché negli stessi giorni due magistrati
milanesi, Fabio De Pasquale e Alfredo Robledo, che stanno
indagando su presunte evasioni fiscali e irregolarità
finanziarie nella compravendita di diritti cinematografici
della Fininvest, chiedono alla Procura di Palermo i tabulati
telefonici dell'azienda milanese, che i magistrati palermitani
hanno acquisito fin dai primi anni Novanta. De Pasquale e
Robledo affidano l'incarico di analizzarli a Gioacchino Genchi,
il superperito già attivo in tante indagini di mafia,
lo stesso che ha analizzato il traffico telefonico nelle inchieste
sulle stragi di Capaci e via D'Amelio e i contatti telefonici
tra Marcello Dell'Utri ed esponenti mafiosi.
Con tempismo perfetto, un deputato di Forza Italia, Pierantonio
Zanettin, presenta subito in Parlamento una proposta per impedire
l'uso dei tabulati telefonici nelle indagini a carico dei
parlamentari. Sarebbe la fine di tante indagini sui politici,
in corso (Gaspare Giudice, Stefano Cusumano, Giuseppe Firrarello,
Salvatore Castiglione) e future: ormai la soglia di prova
necessaria per arrivare a una condanna processuale è
diventata altissima, i "pentiti" non bastano, ci
vogliono i "riscontri", ma ecco che i più
classici dei riscontri, le intercettazioni e l'analisi dei
tabulati telefonici, vengono azzerati. Perché non anche
per noi, si saranno chiesti i boss...
ELEZIONI MAFIOSE. Domenica 14 luglio un altro politico di
Forza Italia resta impigliato nella rete dell'antimafia. La
mattina alle 10, la polizia di Palermo e Agrigento blocca
in un casolare di Santa Margherita Belice quindici persone
che avevano appena terminato di eleggere democraticamente
il nuovo capomafia delle famiglie agrigentine di Canicattì,
Favara, Burgio, Siculiana, Sambuca, Casteltermini, Cianciana.
Tra i quindici, che stavano cominciando a festeggiare la nomina
con dolci e champagne, un paio di ex politici democristiani
e soprattutto un consigliere provinciale di Forza Italia,
Giuseppe Nobile.
Il 19 luglio si ricorda la strage in cui, dieci anni fa, ha
perso la vita Paolo Borsellino. Commozione vera, qualche discorso
vuoto, e una gaffe istituzionale: alla messa in suffragio,
nella chiesa della Kalsa dove Paolo fu chierichetto, non è
presente alcun ministro. Tutti troppo impegnati in altre faccende.
Il governo, in verità, aveva delegato un sottosegretario
all'Interno, il senatore Antonio D'Alì. Ma la famiglia
aveva fatto sapere che era "persona non gradita".
La famiglia D'Alì in passato ha avuto come campiere
il vecchio boss Francesco Messina Denaro e come dipendente
agricolo suo figlio, Matteo Messina Denaro, oggi latitante
e considerato l'uomo forte della nuova Cosa nostra. Un terreno
dei D'Alì a Castelvetrano era stato ceduto a un prestanome
di Totò Riina e ora, confiscato, ospita una comunità
di Libera: inaugurata lunedì 15 luglio, alla presenza
di un altro sottosegretario all'Interno, Alfredo Mantovano.
Il collega D'Alì, quel giorno, aveva preferito aspettare
a Trapani, per non dover parlare di mafia e dei suoi ex dipendenti
su un terreno mafioso che era stato di sua proprietà.
Emerge, in questa estate italiana piena di colpi di scena,
anche una strana riunione avvenuta nel marzo dello scorso
anno, nello studio dell'avvocato (e parlamentare, ed ex sottosegretario
all'Interno) Carlo Taormina: Dell'Utri si sarebbe incontrato
con tre persone (Carmelo Canale, ex braccio destro di Borsellino,
ma poi inquisito per mafia; Fabio Lombardo, nipote del maresciallo
suicida a Palermo dopo le accuse di aver venduto informazioni
ai boss; e il colonnello dei carabinieri Michele Riccio, che
oggi ha svelato l'incontro). Ordine del giorno: cercare prove,
anche false, da portare nel processo in corso a Palermo contro
Dell'Utri.
PARLA LUCHINO. Poi, la scossa. Parla Bagarella. E "Luchino"
Bagarella non è un boss qualunque: è l'uomo
che, dopo l'arresto di Totò Riina nel gennaio 1993,
prosegue la sua strategia della "guerra allo Stato"
con le stragi a Firenze, Roma, Milano. Un duro dell'ala stragista.
Un uomo che nutre un profondo disprezzo per i politici ma,
a differenza di quel che si pensa, al momento giusto sa essere
un leader militare con cervello politico. Racconta il collaboratore
di giustizia Tullio Cannella che Bagarella diceva che perfino
Riina era "troppo buono" con i politici, che non
bisognava fidarsi troppo delle promesse di quegli ex democristiani
o ex socialisti diventati il nuovo partito, Forza Italia.
Quanto ad Andreotti, lo chiamava con disprezzo "il Gobbo"
e ripeteva al capo dei capi che bisognava "tirargli il
collo, a quello". Eppure, quando è il momento,
Luchino sa mediare, sa attendere la soluzione politica. Lo
racconta un capomafia messinese, Gaetano Costa, detenuto per
qualche tempo con Bagarella a Pianosa negli anni Ottanta.
Durante le festività natalizie del 1983, i detenuti
di quel carcere organizzano una rivolta. Bagarella dice a
Costa di lasciar perdere, perché "il Gobbo"
si sta attivando. E "quindi siamo coperti". La rivolta
è trasformata in un più tranquillo sciopero
del vitto e, dopo un paio di mesi, una quindicina di siciliani
viene effettivamente trasferita nel più comodo carcere
di Novara.
Oggi, con le sue parole, Bagarella pone fine a una confusa
fase di "dialogo", di "trattativa" tra
boss e Stato: alcuni uomini di Cosa nostra avevano accettato
colloqui investigativi, avevano ventilato possibilità
di dichiarare una generica "dissociazione" senza
però offrire contropartite, avevano avanzato richieste
d'incontrarsi in carcere per decidere una linea comune da
seguire. Questa voglia di
trattativa, culminata nella lettera agli uomini dello
Stato firmata da Pietro Aglieri, il boss della "corrente"
di Provenzano che si dà arie da teologo, non ha sortito
effetti visibili. Anche perché è stata smascherata
e bloccata da Alfonso Sabella, il magistrato palermitano che
era a capo dell'ufficio centrale ispettivo dell'amministrazione
penitenziaria.
Ora scende in campo direttamente l'ala corleonese in carcere,
con una "petizione" letta forse non a caso
in un processo che si tiene nel trapanese, terra di
Matteo Messina Denaro, il più ricco e potente dei boss
di Cosa nostra in libertà. Basta con la melina, sembra
dire ai politici, avete risolto tanti problemi vostri, avete
fatto tante leggi che azzerano i reati dei colletti bianchi,
il falso in bilancio, l'esportazione di capitali: ora pensate
anche a noi. "Cosa nostra fa sapere che è tempo
di onorare gli impegni presi", dice l'avvocaro Crescimanno.
E voi, uomini di Cosa nostra in libertà, non dimenticate
chi è in carcere, non pensate di potervi arricchire
con la nuova pioggia d'appalti in arrivo, senza risolvere
anche i problemi di chi è finito in cella.
"Nel solo biennio 2000-2001 nel distretto di Corte d'appello
di Palermo sono stati comminati ben 251 ergastoli a mafiosi",
ricorda l'ex procuratore Gian Carlo Caselli. C'è dunque
una Cosa nostra in carcere che rischia di essere sepolta a
vita in una cella. Questa Cosa nostra pretende risposte: da
Cosa nostra fuori, dai politici, dai suoi avvocati diventati
politici. Vuole, subito, un 41 bis più morbido; in
prospettiva, la revisione delle sentenze emesse prima dell'introduzione
delle nuove regole del cosiddetto "giusto processo".
Domande: ha avuto interlocutori che hanno fatto promesse o
si è solo autoconvinta di averli? E se li ha avuti,
chi sono? E se non arriveranno le risposte sperate, quale
sarà la reazione?
I CONSULENTI. Il 41 bis, in realtà, è già
annacquato rispetto all'impostazione iniziale, che isolava
completamente il detenuto per impedirgli di comunicare con
l'esterno. Lo dimostra il fatto che negli stessi giorni dai
bracci speciali di diverse carceri italiane (Novara, Cuneo,
L'Aquila, Viterbo...) escono lettere di protesta assai simili
tra loro. "Con espressioni come nei posti apicali,
che non verrebbe in mente neppure a me", dice Nando dalla
Chiesa. "Chi le suggerisce? Chi sono i consulenti dei
mafiosi in carcere? Chi elenca a Bagarella le sentenze della
Corte costituzionale che poi egli cita nella sua dichiarazione?".
Con questo 41 bis è già possibile far arrivare
fuori ordini di estorsione e perfino di morte. In un colloquio
senza vetro, nell'aprile 1998, il boss Vito Vitale diceva
al figlio Leonardo, di dieci anni, di riferire al fratello
maggiore Giovanni di procedere con un'estorsione da 700 milioni.
E poi dava il benestare a un omicidio, nei confronti della
"vacca palermitana": "La scanniamo o non la
scanniamo questa vacca?".
Ma il proclama di Bagarella non sembra comunque aver ottenuto
l'effetto sperato: "Non ci faremo intimidire", ha
risposto Berlusconi. E la Commissione antimafia si è
espressa per rendere il 41 bis non più provvisorio
e temporaneo, ma stabile e definitivo. Dunque l'uscita di
Bagarella è stata controproducente? "Ma il Parlamento
non ha ancora preso sul 41 bis la decisione definitiva",
fa notare l'avvocato Crescimanno. "Stiamo a vedere come
andrà a finire". Chi avrà la responsabilità
politica dell'applicazione concreta della norma generale?
"Del resto, anche la strage di via D'Amelio è
stata controproducente per Cosa nostra", ragiona l'avvocato
Alfredo Galasso, "eppure è stata realizzata".
Luigi Li Gotti, storico avvocato dei collaboratori di giustizia,
è convinto invece che sia in atto una manovra diversiva:
"Parlano del 41 bis per ottenere qualcos'altro. C'è
qualcosa che a noi sfugge: la posta in gioco è un'altra,
che noi non conosciamo. Forse gli affari, la spartizione della
grandi opere".
E ora che cosa succederà? C'è chi, come Antonio
Ingroia, ipotizza che stiamo arrivando a una situazione simile
a quella del 1992, quando Cosa nostra decise di fare piazza
pulita dei politici che non avevano mantenuto le promesse
o che non avevano mantenuto gli impegni che i mafiosi
si erano convinti fossero stati assunti: così furono
ammazzati Salvo Lima e Ignazio Salvo, e la mattanza avrebbe
dovuto continuare con l'uccisione di Calogero Mannino, Carlo
Vizzini e Claudio Martelli. Oggi, dieci anni dopo, qualcuno
a Palermo si chiede chi potrebbe essere il nuovo Lima. E ricomincia
il gioco lugubre del Totomorto. Li Gotti, invece, non crede
a una nuova stagione di sangue: "Oggi ci sono troppi
affari sul piatto, troppi soldi in arrivo. Non siamo, come
nel 1992, alla fine di una stagione, alla chiusura dei conti
con una classe politica, ma anzi all'inizio di una nuova era
di business. In fondo, molte risposte la mafia le ha avute,
negli scorsi anni: il centrosinistra e il centrodestra hanno
chiuso la stagione dei pentiti, varato il giusto
processo, alzato le soglie di prova necessarie a condannare.
E in Parlamento c'è anche una proposta di revisione
dei processi con sentenza definitiva...".
D'altra parte c'è chi, come Il Foglio di Giuliano Ferrara
o Il Velino di Lino Jannuzzi, ipotizza invece che la "vendetta"
di Cosa nostra potrebbe essere non di piombo, ma di carta:
qualche "falso pentito" mandato a rianimare le accuse
contro Berlusconi. Nuovi pentiti, in realtà, non ce
ne sono. C'è però chi, come Pietro Romeo, aggiunge
la sua testimonianza alle tante sulla stagione delle stragi.
Racconta, per esempio, un colloquio tra membri di Cosa nostra
a cui ha assistito: "Quello di là sopra"
diceva di continuare "a bummiare" (a mettere bombe).
Ma chi lo diceva, Berlusconi? E assicura Romeo
Gaspare Spatuzza annuì. "Tra i politici della
maggioranza ci sono linee diverse", sostiene dalla Chiesa.
"C'è chi è sinceramente contro la mafia,
c'è chi cerca una soluzione che non dispiaccia a Cosa
nostra, c'è chi vuole rompere il patto scellerato.
Magari mettendo una pietra tombale sui mafiosi dentro, per
stringere nuovi accordi con quelli fuori".
Ormai la mafia dei corleonesi, rumorosa, rozza e violenta,
potrebbe essere sacrificata, sepolta in carcere ed esibita
come trofeo per dire che Cosa nostra è sconfitta. I
figli maschi di Riina sono tutti in cella, quelli di Provenzano
studiano e si preparano per dare vita a una Cosa nostra "leggera",
capace di stare a tavola e di inserirsi nei circuiti della
politica. Ma se è così, è davvero probabile
che la vecchia mafia, che ha ormai poco da perdere, non si
lasci liquidare prima di aver usato tutte le sue armi: il
patrimonio di conoscenza (tutto ciò che sa sulle stragi)
e la potenza di fuoco (scegliendo un obiettivo diretto, un
politico; o indiretto, un cadavere eccellente per scatenare
la repressione a tutto danno degli affari di Provenzano e
della nuova mafia).
IL MALE MINORE. Il ministro delle Infrastrutture, Pietro Lunardi,
ha già detto che, in nome delle grandi opere, con la
mafia "bisogna convivere". Più recentemente,
il 10 luglio, Silvio Berlusconi ha dichiarato a Maurizio Costanzo
che "è difficilissimo realizzare le grandi opere
in Italia, ci sono i verdi, gli ambientalisti...". "E
c'è la mafia", gli ha suggerito Costanzo. "Sì",
ha concluso Berlusconi, "ma in misura minore".
Diario,
26 luglio 2002
Il
gioco grande
Dieci anni dopo la morte di Giovanni
Falcone. Le inchieste che archiviano le accuse a Berlusconi
e Dell'Utri, indagati per strage, lasciano aperte molte domande.
Inquietanti
di Gianni Barbacetto
"Si muore generalmente perché si " soli
o perché si " entrati in un gioco troppo grande".
Giovanni Falcone
Maria Falcone, nell'attesa, aveva cucinato una torta alle
fragole. Lo stesso dolce che sua madre era solita preparare,
anni prima, a lei e a suo fratello Giovanni. Ma alle ore 17,
56 minuti e 48 secondi di sabato 23 maggio 1992 gli strumenti
della stazione di rilevamento dell'Istituto nazionale di geofisica
di Monte Cammarata, in provincia di Agrigento, registrano
una scossa, localizzata a Capaci, nei pressi di Palermo. Non
è un terremoto, ma un'esplosione avvenuta al chilometro
4 dell'autostrada che unisce l'aeroporto di Punta Raisi alla
città. Una carica di oltre 500 chili di esplosivo scoppia
sotto l'asfalto mentre stanno transitando tre auto blindate.
Si apre un cratere profondo tre metri e mezzo, il piano stradale
è squarciato e sollevato e divelto per centinaia di
metri. Muoiono subito gli agenti di polizia Antonio Montinaro,
Rocco Di Cillo, Vito Schifani, che viaggiavano sulla prima
auto del piccolo corteo. Qualche ora dopo, all'ospedale, si
spengono Giovanni Falcone, che era al volante della seconda
Fiat Croma blindata, e sua moglie Francesca Morvillo, seduta
accanto a lui. Maria Falcone dice: la torta alle fragole non
la preparerò mai più.
Sono passati dieci anni. L'Italia è cambiata, è
cambiata la politica, è cambiata la mafia. Gli assassini
mafiosi di Giovanni Falcone sono stati condannati. Rimangono
invece senza risposta molte domande sul contesto della strage,
sulla possibilità che altre "entità" siano entrate
in gioco, in quel biennio terribile 1992-1993 in cui muore
Falcone, viene ucciso Paolo Borsellino, Cosa nostra cambia
alleanze, scoppiano le bombe a Firenze, Roma, Milano, si sbriciolano
i vecchi partiti, nasce un nuovo sistema politico. Ci sono
"mandanti a volto coperto" di quella strategia delle stragi?
C'è qualcuno che si è mosso accanto a Cosa nostra?
Un decennio d'indagini non ha portato ad alcuna certezza
almeno sul piano giudiziario. Ma ha accumulato una grande
quantità di materiale investigativo che ora
sul piano giornalistico, ma anche politico e storico
lascia aperte molte domande. Inquietanti. Anche l'ultima indagine
sui mandanti esterni della strage di Capaci, aperta a Caltanissetta
a carico di Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri (iscritti
per ragioni di segretezza con le sigle Alfa e Beta) è
stata
archiviata pochi giorni fa, il 3 maggio, dal giudice per
le indagini preliminari (gip) Giovanbattista Tona.
Archiviata nel novembre 1998 apprendiamo oggi
pure l'indagine segreta sulle stragi del 1993 a Firenze, Roma
e Milano disposta della Procura di Firenze a carico di Berlusconi
e Dell'Utri (iscritti con le sigle Autore 1 e Autore 2): "Per
l'insufficienza degli elementi a sostenere l'accusa in giudizio".
Eppure la lettura dei decreti d'archiviazione, invece di tranquillizzare,
finisce per accrescere le incertezze, i dubbi, le inquietudini.
Non abbiamo trovato elementi sufficienti a portare alcun indagato
eccellente in un'aula di giustizia dicono nella sostanza
i giudici ma è certo che Cosa nostra non ha
fatto tutto da sola, è sicuro che altre entità
sono entrate in gioco. Dunque gli assassini sono tra noi.
Scrive infatti il gip di Firenze: "Le indagini svolte hanno
consentito l'acquisizione di risultati significativi solo
in ordine all'avere Cosa nostra agito a seguito di input esterni".
Chi ha dato questi input? Pezzi di apparati dello Stato, gruppi
politici, imprenditori?
Berlusconi e Dell'Utri erano certamente in contatto con uomini
di Cosa nostra. E hanno "intrattenuto rapporti non meramente
episodici con i soggetti criminali cui è riferibile
il programma stragista". Dunque l'ipotesi dell'accusa ha "mantenuto
e semmai incrementato la sua plausibilità". Ciò
nonostante, i magistrati di Firenze non hanno "potuto trovare
nel termine massimo di durata delle indagini preliminari
la conferma delle chiamate de relato e delle intuizioni
logiche", cioè non hanno la prova provata di quanto
raccontato da una decina di mafiosi diventati collaboratori
di giustizia. L'archiviazione di Caltanissetta non è
più rasserenante. Riassume dieci anni d'indagini sulle
stragi e offre la sintesi finale di uno scenario inquietante:
la drammatica transizione italiana tra la "prima" e la "seconda
Repubblica" è avvenuta a colpi di bombe e di inconfessabili
trattative tra lo Stato e la criminalità organizzata.
La situazione era drammatica: il sistema politico era in crisi,
le elezioni del 5 e 6 aprile 1992 avevano punito i partiti
e mostrato la disaffezione crescente per le forze politiche
tradizionali, Mani pulite stava mettendo in luce l'enorme
corruzione italiana, la situazione del debito pubblico stava
portando il Paese verso il baratro. In questo contesto, la
più potente e ricca delle organizzazioni criminali,
Cosa nostra, decide di cambiare pelle: diventati ormai definitivi
gli ergastoli del maxiprocesso di Palermo (30 gennaio 1992),
i boss decretano di punire i vecchi alleati che non hanno
mantenuto i patti (la Dc di Giulio Andreotti e Salvo Lima)
e di cercare nuovi referenti politici. Dichiarano guerra allo
Stato, che intanto è scosso dalla crisi di Tangentopoli
e resta senza governo (Andreotti si dimette il 24 aprile 1992)
e senza presidente della Repubblica (Francesco Cossiga, sotto
minaccia d'impeachment per il caso Gladio, si dimette il 25
aprile). Cosa nostra inizia il suo attacco. Uccide quelli
che considera i "traditori": il 12 marzo 1992 il proconsole
andreottiano in Sicilia Salvo Lima e, nel settembre successivo,
Ignazio Salvo.
Poi elimina il suo nemico numero uno, colui che aveva ottenuto
gli ergastoli del maxiprocesso, e che per il futuro, andato
a Roma, al ministero della Giustizia, minaccia di fare anche
peggio. Il 19 luglio è la volta di Paolo Borsellino:
una strage controproducente per Cosa nostra, incomprensibile
senza l'intervento di qualcuno, esterno all'organizzazione,
che abbia spinto, fatto precipitare i tempi, garantito una
protezione. Infine, nel 1993, le strane stragi a Firenze,
Roma, Milano, che hanno per obiettivo monumenti e opere d'arte
e sono subito rivendicate dalla Falange armata, misteriosa
sigla che rimanda a settori dei servizi segreti.
Già alla fine degli anni Ottanta Cosa nostra aveva
dato segni di irrequietezza politica. Insoddisfatta dello
scudo fornito dalla Dc, aveva cominciato a dirottare il proprio
sostegno verso il Psi e il Partito radicale, che piacevano
ai boss "per i loro discorsi garantisti". Quando però
Claudio Martelli, eletto a Palermo anche con i voti della
mafia, diventa ministro della Giustizia, chiama al suo fianco
Falcone (febbraio 1991) e vara un decreto legge (aprile 1991)
che impedisce le scarcerazioni per decorrenza termini che
stavano per scattare, anche il Psi diventa un nemico. Totò
Riina cerca nuovi punti di riferimento politici. Dentro Cosa
nostra nasce addirittura un partito, Sicilia libera, fondato
da Tullio Cannella per conto del boss corleonese Leoluca Bagarella,
che propugna l'indipendentismo siciliano e cerca un raccordo
con una serie di "leghe del Sud", risposta meridionale al
successo della Lega di Umberto Bossi.
Ma nello stesso tempo i mafiosi coltivano rapporti, aprono
contatti con imprenditori e con uomini dello Stato. Con Raul
Gardini, che con la sua Calcestruzzi è diventato di
fatto socio di Cosa nostra. Falcone se ne accorge, e dice
in pubblico: "La mafia è entrata in Borsa". L'obiettivo
dei boss è economico (fare affari), ma anche politico:
attraverso Gardini arrivare a Bettino Craxi e fargli interrompere
la svolta antimafia del suo delfino Martelli. Questa strada
presto s'interrompe: Gardini è estromesso dalla Ferruzzi,
poi si toglie la vita; e Craxi affonda sommerso dagli avvisi
di garanzia di Mani pulite. Durano di più i contatti
con gli ambienti Fininvest, con Marcello Dell'Utri e Silvio
Berlusconi. Contatti che venivano da lontano: "I rapporti
di Cosa nostra con Dell'Utri e Berlusconi erano risalenti
nel tempo", scrive il gip di Caltanissetta, "in una prima
fase erano stati collegati con Stefano Bontate, Pietro Lo
Iacono e Girolamo Teresi della famiglia della Guadagna";
poi, nei primi anni Settanta, un uomo di Cosa nostra, Vittorio
Mangano, era stato addirittura accolto nella villa di Arcore
e, "secondo quanto raccontava, lì avevano soggiornato
anche vari latitanti, come Nino Grado, Francesco Mafara, Salvatore
Contorno, dedicandosi al traffico di droga e ai sequestri
di persona". Secondo il collaboratore di giustizia Salvatore
Cucuzza, Mangano aveva tentato addirittura il sequestro di
Luigi Berlusconi, padre di Silvio e dirigente della Banca
Rasini, poi non realizzato.
Dalle casse di Berlusconi, comunque, cominciano a uscire soldi
diretti a Palermo: prima a Bontate, ai tempi numero uno di
Cosa nostra, poi a Vittorio Teresi, poi ancora a Ignazio Pullarà,
della "famiglia" di Santa Maria di Gesù. "Gli faceva
uscire i picciuli", racconta il boss Giovanni Brusca. Versamenti
mensili, perché Cosa nostra proteggesse le antenne
tv siciliane. Brusca conferma di aver chiesto personalmente
a Mangano, negli anni Novanta, di ripristinare i suoi contatti.
"Mangano si rese disponibile", scrive il gip. "Fece diversi
viaggi a Milano per portare a termine il compito affidatogli
da Brusca che consisteva nell'avanzare a Berlusconi le richieste
che stavano a cuore all'associazione Cosa nostra. Mangano
si servì di un altro intermediario, che diceva a Brusca
di chiamarsi Roberto e che faceva "l'imprenditore all'interno
della Fininvest... aveva l'appalto delle pulizie". Chi sia
"Roberto" non si sa. Sono stati arrestati a Milano, nel marzo
1998, due imprenditori del settore pulizie, con appalti Fininvest,
contatti con Dell'Utri e strettissimi rapporti con la famiglia
Mangano, ma non è stata trovata alcuna prova che "Roberto"
sia uno di loro; inoltre la sentenza di primo grado li ha
assolti dall'accusa di associazione mafiosa. Ma Mangano aveva
certamente ottimi rapporti con gli ambienti Fininvest: Dell'Utri
ha pubblicamente confermato di aver sempre mantenuto la sua
amicizia con lui; e un collaboratorte di giustizia, Salvatore
Cocuzza, afferma che Mangano aveva addirittura comunicato
in anticipo ai boss il varo del decreto Biondi (quello passato
alla cronaca nel 1994 con il nome di "salvaladri", che avrebbe
avuto un effetto positivo anche per i mafiosi, se il governo
Berlusconi non fosse stato costretto a ritirarlo).
Ci sono altri canali aperti tra Palermo e Milano, scrive il
gip. Uno passa da Catania, dove Cosa nostra organizza attentati
alla Standa (allora posseduta da Berlusconi) non solo per
ottenere il "pizzo", ma forse anche per attivare un canale
con la Fininvest. Così, almeno, raccontano alcuni collaboratori,
ma di ciò non sono state trovate conferme. Un altro
canale passa invece attraverso Massimo Maria Berruti, "ex
ufficiale della Guardia di finanza in contatto con Totò
Di Ganci (rappresentante della famiglia di Sciacca)"
e oggi deputato di Forza Italia. Angelo Siino, ex "ministro
dei lavori pubblici" di Cosa nostra, racconta che un altro
esponente di Cosa nostra, Antonino Gioè, gli ha confidato
in carcere che Leoluca Bagarella, dopo l'arresto di Riina
nel gennaio 1993, aveva in programma attentati a monumenti
come la Torre di Pisa. La conversazione era stata interrotta
per paura di intercettazioni, ma poi Gioè aveva lasciato
a Siino nel locale docce del carcere un biglietto in cui "era
scritto che Berruti aveva detto a Bagarella di compiere azioni
eclatanti relative tra l'altro a un edificio fiorentino che
custodiva opere d'arte". Un ulteriore canale era rappresentato
dai fratelli Graviano, che secondo Cannella "si incontravano
personalmente" con Dell'Utri. Questi canali erano reali, arrivavano
davvero a Dell'Utri e Berlusconi, oppure gli uomini di Cosa
nostra, lungo la catena degli intermediari, si smarrivano
in millanterie, esagerazioni, bugie?
L'OMBRA DEI SERVIZI SEGRETI. Nella stagione delle stragi si
incontrano molti indizi anche dell'intervento di apparati
dello Stato. Le memorie dei computer di Falcone dopo la sua
morte sono misteriosamente cancellate e manomesse; sul luogo
dell'attentato viene trovato un bigliettino con un numero
di telefono del Sisde, il servizio segreto civile; al Sisde
apparteneva Bruno Contrada, di cui un nuovo "pentito", Gaspare
Mutolo, stava per parlare a Falcone; inspiegabili telefonate
avvengono, attorno alla morte di Borsellino, tra uomini di
Cosa nostra e un altro numero del Sisde; scompare da via D'Amelio
l'agenda rossa che Borsellino portava sempre con sé.
L'unico contatto apparati-mafia di cui si ha certezza è
però la "trattativa" aperta subito dopo la morte di
Falcone dai carabinieri del Ros il colonnello Mario
Mori e il capitano Giuseppe De Donno con Vito Ciancimino.
Obiettivo: la cattura di Totò Riina.
Gli uomini di Cosa nostra raccontano invece di "trattative"
più complesse con lo Stato, di un "papello" presentato
a misteriosi interlocutori con l'elenco delle richieste avanzate
per interrompere le stragi: "Erano sei o sette punti", racconta
il collaboratore di giustizia Salvatore Cancemi, "fare annullare
l'ergastolo, fare annullare la legge sui pentiti, il sequestro
dei beni e altre cose...". Dopo i primi contatti, i boss esultano:
"Si sono fatti sotto", dicono soddisfatti, "ci vuole un altro
colpetto". Ma i racconti della "trattativa" fatti dalle due
parti non coincidono: o qualcuno (magari Ciancimino) ha interrotto
la catena, non riportando fedelmente i discorsi dei carabinieri
a Cosa nostra e di Cosa nostra ai carabinieri; oppure esistono
più trattative (e in questo caso: chi altro ha trattato
con i mafiosi a nome dello Stato?).
Di certo c'è che Falcone e Borsellino sono morti e
che le bombe sono esplose. E alla fine della guerra a colpi
di attentati, l'Italia si sveglia diversa. Cosa nostra è
cambiata, diventa invisibile, la strategia stragista corleonese
sembra sconfitta, molti boss sono in carcere. Anche la politica
ha cambiato faccia e, scomparsi i partiti di governo, nel
1994 a vincere le elezioni è il nuovo partito di Berlusconi.
"Sulla vicenda del sostegno di Cosa nostra (...) a Forza Italia,
si sono raggiunti sufficienti elementi di conferma", scrive
il gip di Caltanissetta. Anche Brusca ammette di aver dato
il suo contributo. E quando Berlusconi nel 1994 arriva a Palermo
per l'ultimo comizio della campagna elettorale racconta
Cannella "Bagarella mi disse che aveva preso 'impegni
seri' con noi, intendendo con tutta Cosa nostra".
Certamente Cosa nostra pensava alla politica e cercava nuovi
referenti. Certamente li ha trovati, alla fine, in Forza Italia.
Ma ha avuto contatti fin dall'inizio con Berlusconi o Dell'Utri,
ha concordato con loro la strategia stragista che doveva dare
origine a una nuova mafia e a una nuova politica? Il giudice
lascia aperta la domanda. Afferma soltanto che non ci sono
elementi sufficienti per sostenere in un'aula di giustizia
che qualcuno ha davvero preso "impegni seri" con i mafiosi:
"Gli spunti indiziari a sostegno dell'ipotesi accusatoria
sono numerosi, ma incerti e frammentari, pertanto inidonei
a legittimare l'esercizio dell'azione penale". Indica poi
ulteriori contatti pericolosi di Dell'Utri (tra cui quelli con con
Patrick Perrin, personaggio a sua volta in contatto con Licio
Gelli e implicato in traffici di valuta, oltre che ricercato
per rapina insieme a uomini del clan Santapaola).
E sostiene che risultano "accertati rapporti di società
facenti capo al gruppo Fininvest con personaggi in varia posizione
collegati all'organizzazione Cosa nostra": il gip cita la
Coge spa (controllata dalla Paolo Berlusconi Finanziaria),
in affari in Sicilia con aziende in odore di mafia e intrecciata
societariamente con uomini considerati vicini a Cosa nostra
(come "tale Salvatore Simonetti, nato a San Giuseppe Jato");
poi elenca cinque società con sede a Palermo (Rete
Sicilia, Sicilia televisiva, Sicil tele, Trinacria tv, Crt
Sicilia color), incorporate nel 1991 nel gruppo Fininvest.
"La circostanza", scrive il gip, "rende pure plausibile che
Cosa nostra, in quel periodo fortemente radicata sul territorio
e certamente capace di condizionare le attività economiche
in esso operanti, non rimanesse inerte dinanzi all'avanzare
di una realtà imprenditoriale di quelle proporzioni,
perlopiù facente capo a un gruppo nel quale si muovevano
soggetti già considerati facilmente avvicinabili in
forza di pregressi rapporti".
I rapporti economici, continua il gip, "costituiscono dati
oggettivi che in uno agli altri elementi relativi ai
contatti e alle frequentazioni di Dell'Utri con esponenti
della stessa cosca rendono quantomeno non del tutto
implausibili né peregrine le ricostruzioni offerte
dai diversi collaboratori di giustizia, esaminate nel presente
procedimento, in base alle dichiarazioni dei quali si "
ricavato che gli odierni indagati erano considerati facilmente
contattabili dal gruppo criminale; vi è insomma da
ritenere che tali rapporti di affari con soggetti legati all'organizzazione
abbiano quantomeno legittimato agli occhi degli 'uomini d'onore'
l'idea che Berlusconi e Dell'Utri potessero divenire interlocutori
privilegiati di Cosa nostra".
Il giudice conclude "lasciando al pm le valutazioni di sua
competenza in ordine all'utilità di tali dati per individuare
eventuali ulteriori piste investigative diverse da quelle
sinora perseguite": lascia aperta la strada a ulteriori indagini,
come già è successo a Palermo con l'archiviazione
dell'inchiesta "Sistemi criminali". A dieci anni, il "gioco
grande" di cui parlava Falcone resta ancora nascosto. Rimaniamo
senza certezze sul biennio fondativo del nostro nuovo sistema
politico. Se la "prima Repubblica" si diceva nata dalla Resistenza,
la "seconda" è nata dal buco nero delle stragi.
Diario, 17 maggio 2002
Cosa
nostra, la trattativa
Una lettera del boss Pietro Aglieri
riapre il patteggiamento tra mafia e Stato. Dieci anni dopo
le stragi in cui furono uccisi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino
Cosa nostra, trattativa finale
di Gianni Barbacetto
Nel biennio 1992-93 in Italia tutto
cambia. Crolla il sistema dei partiti e scoppiano le bombe
delle stragi. In sottofondo, una trattativa segreta tra Cosa
nostra, apparati dello Stato, imprenditori del Nord. Dieci
anni dopo, i nodi di quelle trattative stanno venendo al pettine.
Quali impegni erano stati assunti? Quali promesse erano state
fatte? E ora?
Si può vederla in due modi. Uno. Cosa nostra è
sconfitta, la maggior parte dei suoi boss è in carcere
e sta per essere seppellita dagli ergastoli, quelli rimasti
liberi sono latitanti e braccati. Avviare una trattativa può
servire allo Stato per chiudere una stagione, vedere riconosciuta
la sua autorità, ottenere dopo dieci anni di
guerra la vittoria finale: la resa, lo scioglimento
dell'organizzazione criminale. Due. Cosa nostra continua la
sua attività, florida, sotterranea, sommersa. Ma ha
un problema: decine di capi sono in carcere. Deve dare loro
una via d'uscita, concludere una trattativa con lo Stato che
permetta ai boss dentro di non essere sepolti a vita in una
cella e all'organizzazione fuori di rifondarsi su basi nuove:
affari, buoni rapporti con la politica, violenza ridotta al
minimo. Una "Cosa nuova" ricca, silenziosa e invisibile. Comunque
la si guardi, in un modo o nell'altro il problema dei problemi,
il nodo dei rapporti tra mafia e Stato oggi ha un solo nome:
trattativa.
Sono passati dieci anni dalle stragi di mafia che nel 1992
hanno ucciso Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e hanno aperto
una sfida allo Stato. Una guerra fatta a colpi di tritolo,
con l'autostrada di Capaci sventrata, via D'Amelio come Beirut.
E poi i kalashnikov contro i "pentiti" e le loro famiglie
e, nel 1993, le bombe e i morti per la prima volta fuori dalla
Sicilia, a Firenze, a Roma, a Milano. Oggi, dieci anni dopo,
questa guerra è finita. Lo Stato ha reagito, ha varato
leggi più severe, ha catturato molti dei grandi capi,
li ha sottoposti in cella al regime duro, quello stabilito
dall'articolo 41 bis del regolamento carcerario. Poi la stretta
si è allentata, la memoria si è affievolita,
le maglie della legge sono diventate più larghe. E
ora, da una parte e dall'altra, c'è chi vuole trattare,
scendere a patti, trovare una via d'uscita. Le grandi manovre
sono già iniziate. Chi le conduce? Come reagisce la
politica? E come andrà a finire? Negli ultimi giorni
la cronaca di cose mafiose ha registrato due avvenimenti rilevanti:
la lettera scritta dal boss di Cosa nostra Pietro Aglieri
e la cattura (grazie a una "soffiata") di un altro boss, Antonino
Giuffrè. Molto probabilmente sono due episodi di un'unica
storia: la storia della trattativa fra Stato e Cosa nostra.
LA LETTERA. Pietro Aglieri detto u signurinu al momento dell'arresto
è stato trovato con libri di filosofia, di teologia
e perfino un altare, dove pregava e ascoltava la messa. Ora
ha ottenuto di iscriversi alla facoltà di lettere di
Roma, indirizzo teologico. Il 28 marzo 2002 ha inviato una
lettera al procuratore nazionale antimafia Piero Luigi Vigna
e, per conoscenza, al procuratore di Palermo Piero Grasso
("in modo che non ci possano essere fraintendimenti di sorta",
spiega nella missiva). È un segnale di trattativa,
fatto arrivare contemporaneamente ai mafiosi e ai politici.
Un'apertura di dialogo, una dimostrazione di disponibilità
ad aprire un patteggiamento. "Avendo più volte appreso
nel recente passato dai mezzi di informazione notizie fuorvianti
e non corrispondenti al vero relative a una mia ipotetica
dissociazione in accordo con altri, mi sono deciso a scriverle".
Aglieri ribadisce "il no deciso a soluzioni individuali come
la delazione e la dissociazione", si scaglia contro "le propalazioni
di certi pseudo collaboratori che hanno dichiarato tutto e
il contrario di tutto pur di uscire dal carcere". E ci somministra
una lezione di garantismo, proponendo invece la ricerca di
"soluzioni intelligenti e concrete": "sicuramente i risultati
sarebbero più duraturi, più profondi, più
coerenti con la Costituzione di questo Paese". "Capisco che
soluzioni alternative, che prescindano dalla collaborazione
o dalla dissociazione, siano inevitabilmente più lunghe,
più complesse e più articolate. Ma proprio per
questo abbisognerebbero di un lavoro più attento e
paziente, fatto e condotto da persone lungimiranti".
Poi Aglieri lancia la sua proposta: "Solo se si prendesse
in seria considerazione la possibilità di un ampio
confronto fra detenuti si potrà trovare qualche sbocco".
Attacca: "Non sarà con metodi o processi, che in certi
casi vanno oltre quegli stessi metodi che si dice di volere
combattere, che uno Stato laico e democratico riuscirà
a dare più sicurezza ai suoi cittadini". Infine Aglieri
si dice disponibile, nel caso non fosse riuscito a essere
sufficientemente "esaustivo ed esplicativo", a "qualsiasi
approfondimento con chiunque", in modo da evitare "fraintendimenti
di sorta" e troncare ogni "flatus vocis tendenzioso". Aglieri
invia innanzitutto un messaggio all'interno di Cosa nostra,
rivolto ai boss: ho accettato di parlare in carcere con i
magistrati, fa capire, ma "tenendo sempre presente la mia
identità"; dunque state tranquilli, rifiuto la collaborazione
(anzi, la "delazione") e perfino la dissociazione, "intesa
come metodo di accuse anche se indiretto". Però dobbiamo
trovare una via d'uscita, dunque parliamone tra noi, boss
in carcere. Questa è la vera richiesta che ora Aglieri
rivolge all'esterno, allo Stato: lasciatemi parlare con i
capi di Cosa nostra, quelli dell'ala di Bernardo Provenzano
e dei palermitani, a cui appartengo, ma anche con quelli dell'ala
degli "stragisti" di Totò Riina e dei corleonesi. Una
bella riunione della Commissione di Cosa nostra in carcere,
per decidere insieme le prossime mosse. Chiunque prenda decisioni
individuali sbaglia, rischia di passare per traditore. Prendiamola
insieme, la decisione migliore per Cosa nostra.
L'avvocato Carlo Taormina, ex sottosegretario del governo
Berlusconi, ha subito commentato la lettera con toni entusiastici:
"Lo Stato deve prendere immediatamente atto della volontà
di dissociazione che imputati e condannati per mafia vogliono
effettuare, perché questo significa inginocchiarsi
davanti alle istituzioni". Di parere opposto il procuratore
Piero Grasso: "Si potrà cominciare a parlare di resa
della mafia quando i commercianti non dovranno più
essere salassati dal racket, gli imprenditori potranno partecipare
alle gare d'appalto senza subire le prevaricazioni di imprese
più forti perché protette dalla mafia, quando
si consegneranno tutti i latitanti e verranno aperti gli arsenali
pieni di esplosivi, quando scompariranno il contrabbando e
le attività illegali, il totoscommesse, il traffico
di droga". Anche Roberto Centaro, presidente della Commissione
parlamentare antimafia, rifiuta le proposte di Aglieri: "Lo
Stato non avvia trattative con Cosa nostra. Non lo farebbe
mai, per principio, figuriamoci in questo caso in cui siamo
di fronte a un proclama svuotato di ogni contenuto".
LA "SOFFIATA". Antonino Giuffrè detto Nino Manuzza,
boss vicinissimo a Bernardo Provenzano, è stato arrestato
all'alba del 16 aprile in un ovile. Era pieno di "pizzini",
nelle tasche e perfino nelle mutande. I "pizzini" sono i foglietti
con cui i capimafia latitanti comunicano tra loro: gli sms
di Cosa nostra. Questi messaggi riguardavano soprattutto gli
appalti, gli affari, i soldi, i piccioli a cui si dedica ora
a tempo pieno l'organizzazione, chiusa la stagione delle stragi
e dei morti. Ma Giuffrè è stato bloccato dai
carabinieri a colpo sicuro, per effetto di una "soffiata".
E proprio nei giorni in cui diventava pubblica la lettera
di Aglieri. Chi ha tradito Manuzza? L'ipotesi di un investigatore
molto esperto è inquietante: è la Cosa nostra
di "quelli dentro" che manda a dire a Provenzano e a "quelli
fuori", ma anche allo Stato, che la pazienza è finita,
che devono scordarsi di pensare ai piccioli e alla politica
e dimenticare i boss in carcere, che una soluzione va trovata,
e al più presto.
Una volta, nei primi anni Novanta, Cosa nostra si divideva
tra i "corleonesi" di Totò Riina, che volevano fare
guerra allo Stato per poi trattare la pace, e i "palermitani"
che avevano seguito, ma senza entusiasmi, il progetto stragista
di Riina. Ora la divisione è un'altra: "quelli dentro",
corleonesi e palermitani, che vogliono una speranza di non
passare la vita in cella; e "quelli fuori", che vogliono una
Cosa nostra nuova, sommersa, invisibile, dentro la politica
come il topo dentro il formaggio, che non fa guerra a nessuno
ma tesse affari, accumula piccioli. La Commissione, la Cupola
dell'organizzazione, non c'è più: i suoi membri
sono quasi tutti in carcere. È sostituita da un ristretto
direttorio di cui fanno parte i latitanti superstiti, Salvatore
Lo Piccolo, Matteo Messina Denaro. E Binnu Provenzano, naturalmente:
che governa provvisoriamente Cosa nostra non per la sua forza,
per il suo esercito (Messina Denaro, per esempio, è
più forte militarmente ed economicamente), ma perché
è l'unico capo di Cosa nostra che in un momento delicato
come quello seguito alla sconfitta della strategia corleonese
delle stragi ha potuto mettere in campo l'esperienza, le conoscenze,
i rapporti, l'autorità, il prestigio necessari a tenere
insieme l'organizzazione, a evitare i conflitti, a traghettarla
verso la ricostruzione su basi nuove.
La deve riorganizzare "fuori", e questo obiettivo è
raggiunto: il controllo del territorio, le estorsioni, le
imposizioni dei subappalti gli affari insomma
continuano a pieno regime, con nuovi capi e nuovi soldati.
Ma deve anche garantire il collegamento tra "quelli fuori"
e "quelli dentro". Non deve, non può dimenticare il
popolo di Cosa nostra finito in cella, che dentro ha tanti
segreti da far tremare molti uomini della mafia e forse anche
dello Stato; e fuori ha ancora uomini capaci di uccidere,
o di far arrestare con una "soffiata". Questo è il
compito più difficile di Provenzano: tenere insieme
le due anime di Cosa nostra oggi. Se ci riesce, trovando una
"soluzione politica" per la "mafia armata" in carcere, manterrà
il comando e traghetterà l'organizzazione verso una
nuova Cosa nostra, forte e invisibile. Se non ci riuscirà,
allora si riapriranno i conflitti: "quelli fuori", i giovani
leoni degli affari, potrebbero essere tentati di abbandonare
al loro destino "quelli dentro", ma allora torneranno a cantare
i kalashnikov. C'è un altro protagonista in questa
vicenda: gli uomini della politica e dello Stato. Dieci anni
fa, Riina aveva scritto il suo "papello", la madre di tutte
le trattative, l'elenco delle cose che chiedeva allo Stato
per sospendere il suo attacco terroristico. È stato
sconfitto, ma il "papello" ha ancora una sua validità.
In parte è già stato attuato: la nuova legge
sui pentiti ha bloccato le nuove collaborazioni; il 41 bis
è molto ammorbidito...
Ma resta il problema degli ergastoli: un sei, sette "anni
di branda", ha detto una volta Riina, un uomo d'onore è
sempre pronto a farli; ma l'ergastolo no, l'ergastolo è
la fine. È proprio quando gli ergastoli del maxiprocesso
di Falcone sono diventati definitivi, alla soglia degli anni
Novanta, che Riina ha scatenato la guerra contro lo Stato.
Ora siamo a una svolta simile: a quelli del maxiprocesso si
sono aggiunti gli ergastoli per le stragi del 1992-1993 e
per altro ancora. Se qualcuno, dentro lo Stato e dentro la
politica, ha trattato dieci anni fa con gli uomini di Cosa
nostra, questo è il momento che mantenga i suoi patti.
Altrimenti è prevedibile che ci siano nuove vittime
eccellenti. Oggi siamo ai messaggi, alle lettere; domani un
nuovo Salvo Lima potrebbe restare sul marciapiede di una città
della Sicilia o del Nord. Per questo riprende vigore lo spirito
della trattativa.
LA DISSOCIAZIONE. Domanda: Aglieri è in grado di scrivere
da solo la lettera che ha firmato? La risposta è no.
Domanda successiva: ma allora chi ha scritto quella lettera?
Chi è il regista dell'"operazione trattativa"? "Non
l'ho scritta io", risponde sorridendo, ancor prima di aver
ricevuto la domanda, Rosalba Di Gregorio, avvocato di Aglieri,
ma anche molto vicina alla famiglia di Vittorio Mangano e
a Marcello Dell'Utri. Certo la lettera è arrivata al
momento giusto, per tentare di riaprire un dibattito sulla
"dissociazione" che ha già una lunga storia. Eccola.
Nella primavera del 2000 Vigna, dopo aver avviato una serie
di colloqui investigativi con capi mafiosi in carcere, scrive
al ministro della Giustizia (allora Piero Fassino) che quattro
detenuti rinchiusi a Rebibbia (Aglieri, Salvatore Buscemi,
Giuseppe Piddu Madonia, Giuseppe Farinella) chiedono di poter
incontrare altri quattro detenuti (Nitto Santapaola, Salvuccio
Madonia, Carlo Greco, Pippo Calò) per decidere la dissociazione
da Cosa nostra. Il ministro Fassino investe della questione
il Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria), diretto
in quel momento da Gian Carlo Caselli, che blocca l'operazione,
d'accordo con Alfonso Sabella, già magistrato a Palermo
con Caselli e poi da lui chiamato a dirigere l'ufficio centrale
ispettivo del Dap.
In quelle settimane del 2000, però, l'avvocato Taormina
dice al Giornale che lo Stato deve accettare la dissociazione
da Cosa nostra. E cominciano a circolare voci sulla trattativa
avviata a Rebibbia attraverso Vigna. Ne parla, per esempio,
l'avvocato Di Gregorio. La possibilità della dissociazione
comincia così a entrare nel circuito dei media. E Giovanni
Tinebra, allora procuratore di Caltanissetta, concede un'intervista
a Felice Cavallaro sul Corriere della Sera titolata così:
"Dissociazione? Ero contrario, ora non più". Nel febbraio
2001 il quotidiano la Repubblica dà la notizia che
Salvatore Biondino sarebbe stato incaricato dai boss di trattare
la resa dei carcerati. Sarebbe una grande novità, perché
Biondino vuol dire Riina, di cui è stato braccio destro
e autista fino al giorno dell'arresto. Nel novembre successivo
Sabella viene a conoscenza che proprio Biondino avrebbe fatto
richiesta di diventare "scopino", per potersi muoversi più
liberamente nel carcere di Rebibbia e avere contatti con gli
altri boss di Cosa nostra.
Il 29 novembre Sabella scrive una lettera in cui informa del
fatto Tinebra, che nel frattempo ha sostituito Caselli al
vertice del Dap. Tinebra legge la lettera il 3 dicembre 2001
e commenta: "Ma questo Sabella come l'ha saputa 'sta notizia?".
Invece di premiare l'efficienza del suo funzionario, il giorno
5 dicembre sopprime l'ufficio centrale ispettivo diretto da
Sabella. Ritenendo di essere stato punito per aver bloccato
la trattativa sulla dissociazione, Sabella scrive al nuovo
ministro della Giustizia, Roberto Castelli, che gli risponde
di tornare a fare il magistrato. Poi scrive anche al Consiglio
superiore della magistratura, che lo assegna alla Procura
di Firenze. Il 16 febbraio 2002, dopo una lettera di Tinebra
al prefetto di Firenze Achille Serra, a Sabella (che a Palermo
ha fatto arrestare Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Carlo
Greco e il figlio di Riina) viene tolta la scorta. E pensare
che gli era stata riconfermata solo pochi giorni prima, il
29 gennaio 2002, quando sulla base della circolare del ministro
Claudio Scajola le scorte erano state tolte a decine di magistrati
in tutta Italia.
IL DILUVIO UNIVERSALE. Il procuratore di Palermo Piero Grasso
è uomo dai toni pacati. Mai una parola sopra le righe.
Tanto che qualcuno dei suoi magistrati, rimpiangendo il suo
predecessore Caselli, gli rimprovera di essere perfino troppo
morbido. Ma questa volta Grasso non ha potuto evitare di alzare
la voce. A un convegno organizzato all'inizio d'aprile dai
magistrati di Spoleto ha lanciato un grido d'allarme pesantissimo:
"Non può passare il principio per il quale una maggioranza
decida di sovvertire le regole della Costituzione. Non c'è
bisogno della sfera di cristallo per prevedere che anni di
successi nella lotta contro Cosa nostra saranno presto azzerati.
Dobbiamo salvare il salvabile prima del diluvio universale".
Ha raccontato: "Un boss mafioso, benché avesse collezionato
già diversi ergastoli, parlava del suo futuro come
se fosse imminente il suo ritorno in libertà. Lo avevamo
preso per pazzo, invece i fatti gli stanno dando ragione".
I "fatti" sono una serie di leggi che in silenzio stanno sottraendo
ai magistrati gli strumenti d'indagine e stanno imponendo
ai giudici soglie più alte di prova per arrivare a
una sentenza di condanna. È diventato ricorda
Grasso sempre più difficile celebrare i processi.
E sarà sempre più arduo condannare gli imputati,
specie se sono colletti bianchi, specie se sono vicini alla
politica. Ma anche chi è già condannato ora
spera di trovare una via d'uscita: la revisione del processo.
Dopo l'approvazione delle regole del cosiddetto "giusto processo",
infatti, i mafiosi in carcere con centinaia d'ergastoli erogati
con le regole processuali precedenti, "vecchie e barbare",
cominciano a chiedere un nuovo giudizio. In Parlamento è
stata depositata una proposta di legge che concede il ricorso
alla Corte europea dei diritti dell'uomo a chi è stato
condannato prima dell'approvazione del "giusto processo".
È una proposta bipartisan: firmata da Mario Pepe, Michele
Saponara e altri nove deputati di Forza Italia, due dell'Udc,
uno di An, uno della Lega, ma anche da deputati del centrosinistra,
Giovanni Russo Spena ed Elettra Deiana di Rifondazione comunista,
Franco Grillini e Franco Angioni dei Ds, Andrea Colasio della
Margherita.
"Se questa legge passasse", commenta Grasso, "andrebbero a
revisione anche i processi sulle stragi Falcone e Borsellino
e addirittura il maxiprocesso di Palermo. Finirà che
i boss chiederanno e otterranno il risarcimento per essere
stati in cella". Non è la sola proposta di legge che
preoccupa Grasso e i magistrati antimafia. La nuova disciplina
del falso in bilancio rende più opache le società
e più difficile indagare anche sull'area grigia della
finanza, quella che ha contatti con i soldi mafiosi. Una legge
proposta da Nino Mormino (di Forza Italia) vorrebbe togliere
ai magistrati del pubblico ministero la guida della polizia
giudiziaria, dunque delle indagini. Un'altra, proposta da
Gian Franco Anedda (di An), prevede l'estensione dell'obbligo
di concedere le attenuanti e dunque potrebbe finire per impedire
che scattino le condanne all'ergastolo per i boss ancora incensurati;
e poi regalerebbe ai mafiosi due armi formidabili: la possibilità
di spostare i processi (Palermo è per definizione sede
troppo "calda") e di ricusare i giudici (sarà sufficiente
che abbiano parlato di "lotta alla mafia" in qualche scuola
o, chissà, addirittura che tengano sulla scrivania
la foto di Falcone e Borsellino). In Parlamento, dunque, la
trattativa con Cosa nostra è già a buon punto.
Diario, 26 aprile 2002
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Catalogo dei parlamentari
Deputati e senatori (appena eletti) condannati, riciclati,
candeggiati. Storie da non far sapere all'Economist
Repubblica delle Banane
Cronache di regime
........................
Vita, opere e miracoli
di Silvio
Nato davanti a una sede del Pci. Cresciuto all'ombra della
Banca Rasini (che Sindona definì "la banca della
mafia»). Palazzinaro con "buoni agganci»
nell'amministrazione. Poi la tv. I soldi. E la politica
L'odore dei soldi
Le origini (oscure) di un promettente imprenditore. Società
svizzere. Sconosciute casalinghe. Commercialisti e prestanomi.
Poi, una bizantina architettura di holding
Sull'orlo del fallimento
Debiti per 4 mila miliardi. Così la Fininvest ha rischiato
il naufragio. Poi, la quotazione in Borsa. Ovvero: come diventare
ricchi con i "comunisti» al governo.
La Fininvest ombra
Il sistema di società estere di Berlusconi. Nella Fininvest
Group B sono transitati più di mille miliardi neri.
Usati per ogni genere di operazioni. Illegali
L'ipotesi B
La drammatica transizione italiana. Che cosa c'entra Silvio
Berlusconi con le stragi del 1992 (Falcome e Borsellino) e
con quelle del 1993 a Firenze, Roma e Milano?
Milano, la seconda
generazione
La strana storia di due imprenditori nella capitale lombarda.
Molto amici di Vittorio Mangano, lo "stalliere».
Molto vicini a Marcello Dell'Utri
Forza mafia
Il partito di Berlusconi e i suoi uomini in Sicilia e il Calabria.
Le amicizie pericolose di Forza Italia nelle regioni di Musotto,
Miccich", Giudice, D'Ali, Matacena...
Nessuno mi può
giudicare
Il curriculum giudiziario completo del Cavaliere. Da un'inchiesta
per riciclaggio del 1983 a oggi. Tutte le indagini, tutti
i processi, tutte le sentenze
Dicono di lui
La stampa internazionale su Silvio Berlusconi
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