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Sfida
alla democrazia
Dopo la sentenza della Cassazione/1
Silvio Berlusconi, con un video messaggio di sapore golpista,
attacca i giudici, non riconosce la divisione dei poteri
della democrazia liberale, chiede l'impunità, si
appella al «popolo» e si prepara al «giudizio
di Dio»
Nelle grandi occasioni, Silvio Berlusconi si
mette i capelli, fa mettere la calza sullobiettivo
del suo cameraman personale e produce la videocassetta a
cui affida il suo messaggio. E successo nel 1994 per
la sua «discesa in campo», si è ripetuto
il 29 gennaio 2003 dopo la bocciatura della Cassazione.
Il messaggio è di guerra: la magistratura (tutta,
a questo punto, non solo i pm, non solo i giudici di Milano,
non solo le «toghe rosse», ma anche la Suprema
corte di cassazione) è un nemico politico. Io, eletto
dal popolo, non mi faccio giudicare da chi ha vinto un concorso
e solo per questo indossa una toga dice Berlusconi
, voglio essere giudicato «dai miei pari»
(un collegio di industrialotti della Brianza?).
Parole drammatiche, di chi sa di essere in grave difficoltà,
di chi ora caduta la barriera di salvataggio inventata
dai fidi Cirami, Ghedini e Pecorella teme di essere
condannato. Parole inquietanti, che stracciano il principio
delluguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla
legge, che chiedono limpunità per i potenti,
come per i sovrani medioevali. Unimpunità stracciata
nel 1993, dopo Mani pulite, non dai giudici come
dice mentendo Berlusconi ma da mozioni parlamentari
firmate da Umberto Bossi, Roberto
Maroni, Roberto Castelli luna, Gianfranco
Fini, Maurizio Gasparri, Ignazio La Russa laltra.
Dei sei firmatari, cinque oggi sono ministri di Berlusconi.
E relatore della legge costituzionale che abrogò
limmunità parlamentare non era un pericoloso
comunista, ma un parlamentare democristiano di nome
Carlo Casini. «Il principio del princeps
legibus solutus è medioevale e quindi superato»,
sostenne Casini in Parlamento il 12 maggio 1993. «Se
vi è istanza di eguaglianza, quindi, essa deve riguardare
in primo luogo gli autori della legge».
Oggi Berlusconi, dopo aver reso politico il suo personale
(i suoi reati da industriale brianzolo sono diventati questione
di Stato; e così a difenderlo non ci sono soltanto
i suoi avvocati, impiegati e consulenti, ma anche quattro
o cinque partiti e mezzo Parlamento), ora mette in contrapposizione
il consenso e la legge, e chiede il «giudizio
di Dio»: leventuale condanna non conta, perché
ha ricevuto linvestitura dal popolo, che in caso di
nuove elezioni potrebbe riconfermargliela, facendo morire
lo Stato di diritto e il rispetto per la legge.
Che lui parli così, è terribile e golpista,
ma spiegabile: ne va della sua vita, della sua immagine,
dlla sua libertà. Più tremendo è che
nessuno, tra i suoi, si alzi a dire: ma i giudici romani
li hai corrotti o no? e se sì, fatti da parte, perché
altrimenti porti la democrazia alla morte; anche gli eletti
del popolo sono sottoposti alla legge, i voti non possono
essere garanzia dimpunità, salvacondotto per
ladri, corruttori, evasori fiscali, magari anche soci di
malavitosi e mafiosi.
La verità è che questo nodo andava tagliato
prima. Il problema, in Paesi normali, si risolve prima che
lindagato diventi condannato. La questione dovrebbe
essere definita per via politica e morale e civile, prima
di diventare giudiziaria e penale e istituzionale: i cittadini,
correttamente informati, in Paesi civili solitamente non
danno i loro voti a ladri, corrotti, amici di mafiosi; e
se lo fanno, solitamente una volta scoperto lo scandalo
tolgono il consenso che avevano dato. Da noi è diverso,
non so più se anche per diffusa immoralità,
certamente per impossibilità ad avere uninformazione
corretta. Chi controlla (grazie a leggi su misura) per decenni
la tv, si costruisce unimmagine a prova di scandalo.
Ma i suoi, i suoi che sanno, quelli che sono nel suo schieramento
ma sono davvero liberali, perché lasciano che la
democrazia vada verso il baratro?
Dopo la sentenza della Cassazione/2
TANTO CIRAMI PER
NULLA
Silvio Berlusconi non riconosce i suoi giudici,
chiede l'impunità, si prepara al «giudizio
di Dio»
«Causae habent sua sidera»
(«Ogni causa ha le sue stelle»).
Cesare Previti
Gli è andata male. È
andata proprio male a Cesare Previti, lAvvocato,
e a Silvio Berlusconi, il Cliente. Un anno di lavoro, sedute
parlamentari a tempi contingentati, leggi su misura, con
conseguente indignazione nel Paese e nascita di un nuovo
movimento. E, alla fine, una sentenza della Suprema corte
di cassazione rende tutto vano: i processi di Milano resteranno
a Milano.
Tra qualche settimana terminerà quello che ha come
imputato Previti, tra qualche mese quello che vede alla
sbarra anche Berlusconi. Se le sentenze saranno di condanna,
lItalia sperimenterà (ancora una volta) una
situazione inedita: avrà un presidente del Consiglio
alle soglie del semestre di guida italiana dellUnione
europea, alla vigilia di una guerra con una grave
condanna penale sul capo. Il personale è politico,
diceva uno slogan «di movimento» degli anni
Settanta. Silvio Berlusconi è riuscito oggi a realizzare
quello slogan. Il suo personale la possibile condanna
nel processo a Milano è diventato politico.
Le istituzioni democratiche sono state coinvolte nelle private
vicende penali di un cittadino, un imprenditore di successo
che poi è approdato alla politica: può lItalia,
quinta o sesta o settima potenza del mondo, avere un presidente
del Consiglio condannato da un tribunale per aver corrotto
i giudici e comprato sentenze?
Dietro il castello di carte delle motivazioni presentate
dalla difesa sua e del coimputato Previti per spostare il
processo a Brescia pinocchietti di legno portati
in aula da mansuete signore; stralunati cantastorie che
strimpellano ballate in piazza Duomo; perfino le foto di
unimpiegata del tribunale (in bikini su una spiaggia
greca, in aula dietro Previti e Berlusconi), affisse casualmente
sotto una frase di Platone che stava lì da 10 anni
cè questa semplice, terribile domanda:
possiamo permetterci di avere un premier condannato per
corruzione giudiziaria?
Una domanda che profuma di ricatto alla democrazia. E pensare
che Francesco Saverio Borrelli, da procuratore della Repubblica
di Milano, aveva lanciato alla politica un avvertimento
già nel dicembre 1993, quando la vecchia politica
era stata azzerata e la nuova doveva ancora affermarsi.
In unintervista al Corriere della sera che gli sarà
a lungo rimproverata e che oggi risuona profetica, disse:
«Sappiamo che certe coincidenze possono provocare
sconquassi, ma che possiamo farci? Io credo proprio niente.
E vorrei rilanciare la palla sullaltra sponda, a chi
farà politica domani. Quelli che si vogliono candidare
si guardino dentro. Se sono puliti, vadano avanti tranquilli.
Ma chi sa di avere scheletri nellarmadio, vergogne
del passato, apra larmadio e si tiri da parte. Tiratevi
da parte, dico io, prima che arriviamo noi». Linvito
non fu ascoltato. E ora siamo qui a subirne le conseguenze.
Resistere, resistere, resistere? Il procuratore
generale della Cassazione, pur chiedendo di non spostare
i processi, ha rimproverato a Borrelli di aver pronunciato
un discorso politico, quando ha invitato a «resistere,
resistere, resistere»; e ha sostenuto che Palavobis
e Girotondi hanno effettivamente incrinato la serenità
ambientale a Milano perché chiedevano la condanna
degli imputati. Bisognerebbe rileggere il discorso dinaugurazione
dellanno giudiziario 2002, quello davvero pronunciato,
per capire che Borrelli invitava i cittadini (non i magistrati)
a «resistere», come aveva scritto non un pericoloso
comunista, ma il presidente del Consiglio della linea del
Piave, Vittorio Emanuele Orlando, in una cartolina inviata
nel 1918 al padre, Manlio Borrelli, magistrato a Firenze.
E a «resistere» non contro il governo, ma contro
il crollo del senso morale, propiziato da leggi sulla giustizia
varate anche da governi dellUlivo.
Quanto ai Girotondi, non hanno mai chiesto la condanna di
un imputato, ma semplicemente il suo trattamento alla pari
degli altri imputati, dunque la possibilità di processarlo,
senza leggi su misura: in difesa del principio costituzionale
secondo cui «la legge è uguale per tutti».
Se la Cassazione avesse deciso che basta una manifestazione
contro la corruzione per rendere una città off limits
per i processi sulla corruzione, allora nessun processo
di mafia si sarebbe potuto più celebrare a Palermo,
dove ogni tanto qualche manifestazione antimafia si fa ancora.
Del resto, è ostile al capo del governo una città
in cui sindaco, presidente della Provincia e presidente
della Regione sono tutti espressi dal Polo? È ostile
un tribunale che ha già assolto in diversi processi
il «governatore» Roberto Formigoni, il senatore
Marcello DellUtri e (per altre vicende) lo stesso
Berlusconi?
Ma questi fatti, semplici e incontrovertibili fatti, il
procuratore generale della Suprema corte ha mostrato di
non conoscerli. Ciò nonostante, le Sezioni riunite
hanno respinto la richiesta degli imputati. I giudici si
erano trovati davanti, pesante come un macigno, la domanda-trabocchetto:
può un Paese democratico permettersi di avere il
suo presidente del Consiglio condannato per un grave reato?
Questa questione, a dar retta alle indiscrezioni circolate
negli ambienti politici romani, era stata posta anche dal
Quirinale, preoccupato per la stabilità istituzionale.
Nei documenti ufficiali, però, la domanda era rimasta
sempre tra le righe, mai esplicitata nelle carte inviate
in Cassazione per chiedere lo spostamento del processo da
Milano.
Era ben articolata invece in pubbliche interviste rilasciate
da più dun esponente della maggioranza di governo.
Gaetano Pecorella, parlamentare nello schieramento del Berlusconi
politico e avvocato difensore del Berlusconi imputato, lha
ripetuta, sul Corriere della sera, il giorno prima di andare
alla fatale udienza della Cassazione: «Sarà
una decisione talmente rilevante, forse per la storia stessa
del Paese...». Attenti, dunque, supremi giudici. La
vostra decisione segnerà non solo il destino di un
processo, ma quello di un Paese.
I giudici hanno respinto al mittente questa preoccupazione
politica. E hanno giudicato sui fatti: non ci sono, a Milano,
«gravi situazioni locali, tali da turbare lo svolgimento
del processo e non altrimenti eliminabili», come recita
la legge Cirami sul legittimo sospetto. Non ci sono, a Milano,
situazioni che «pregiudicano la libera determinazione
delle persone che partecipano al processo, ovvero la sicurezza
o lincolumità pubblica». Dunque, niente
trasferimento a Brescia né a Perugia, i processi
restino a Milano e si concludano come i giudici decideranno
di concluderli.
Le buone stelle di Previti. «Causae abent
sua sidera»: «Ogni causa ha le sue stelle»,
dice un vecchio motto latino. Lavvocato Cesare Previti
lo ha ripetuto, in unintervista a Repubblica, il giorno
stesso in cui la Cassazione si è riunita per decidere
dei suoi processi milanesi. Se ne intende, di stelle, e
di come si può intervenire per renderle più
propizie, se è vero ciò che laccusa
gli addebita: aver pagato miliardi per comprare sentenze
favorevoli ai suoi clienti (il petroliere Nino Rovelli,
leditore Silvio Berlusconi...).
La decisione della Cassazione del 28 gennaio 2003 è
latto finale di una storia iniziata il 21 novembre
1994, giorno della consegna a Berlusconi dellinvito
a comparire davanti alla Procura di Milano. Berlusconi era
da qualche mese, per la prima volta, presidente del Consiglio.
Il pool di Mani pulite, Antonio Di Pietro in testa, lo accusò
di aver pagato tangenti a uomini della guardia di finanza,
per ammorbidire controlli fiscali. Subito si scatenò
la reazione: è un attacco politico dissero
i sostenitori del premier contro chi ha vinto le
elezioni del 27 marzo 1994. Eppure i fatti, nel 1994, erano
ancora chiari: nessun attacco al Berlusconi politico, linchiesta
sulle tangenti alla guardia di finanza era nata per caso
(un giovane vicebrigadiere era andato dai magistrati a riferire
che i colleghi gli avevano passato una mazzetta) e il Berlusconi
imprenditore finito nellinchiesta era soltanto uno
degli oltre 600 indagati (da Alberto Falk a Guido Roberto
Vitale, da Giorgio Armani a Gianfranco Ferrè, passando
per leditore di Tex Willer...
Berlusconi, del resto, era da pochi mesi «sceso in
campo» dichiarandosi, almeno in pubblico, entusiasta
di Mani pulite: «La vecchia classe politica è
stata travolta dai fatti e superata dai tempi», aveva
scandito nel discorso del 26 gennaio 1994 in cui aveva annunciato,
via videocassetta, la sua decisione di candidarsi alle elezioni.
In quel messaggio («LItalia è il Paese
che amo...») prendeva atto dell«autoaffondamento
dei vecchi governanti, schiacciati» non dal complotto
dei giudici, ma «dal peso del debito pubblico e del
sistema del finanziamento illegale dei partiti». E,
dopo aver vinto le elezioni, aveva addirittura chiesto a
due magistrati del pool, Antonio Di Pietro e Piercamillo
Davigo, di entrare nel suo primo governo, come ministri
dellInterno e della Giustizia. Il 6 febbraio 1994,
alla prima convention dei club di Forza Italia a Roma, aveva
gridato: «Basta con la vecchia politica, noi vogliamo
una politica diversa, nuova, pulita! Siamo lItalia
che risparmia contro lItalia che ruba. Siamo lItalia
della gente per bene contro lItalia dei vecchi partiti».
Un appello sullonda emotiva di Mani pulite.
Dopo linvito a comparire, però, la musica cambia.
Comincia la delegittimazione, lattacco. Prima alle
«toghe rosse», poi ai «circuiti delle
toghe rosse», infine alla magistratura nel suo complesso.
Con qualche significativa eccezione: ai magistrati che si
mostrano amici di Berlusconi e del suo schieramento politico
(da Tiziana Parenti a Carlo Nordio, da Melchiorre Cirami
a Nitto Palma) vengono offerte candidature, seggi alla Camera
e al Senato, contratti di collaborazione nei giornali di
famiglia.
Intanto le inchieste su Berlusconi si moltiplicano: prova
della volontà della magistratura di colpire un avversario
politico, dicono dal centrodestra; inevitabile conseguenza
di reati commessi, rispondono dalle procure, reati che i
giudici devono perseguire poiché sono obbligati ad
applicare la legge nei confronti di tutti.
Nel 1995 nasce a Milano uninchiesta su presunte corruzioni
al tribunale di Roma, su un gruppo di potenti magistrati
della capitale che, secondo le ipotesi daccusa, vendevano
sentenze e stavano a libro paga di alcuni imprenditori.
Dopo molte indagini in Italia e allestero, i magistrati
di Milano Ilda Boccassini e Gherardo Colombo individuano
almeno alcune delle sentenze che sarebbero state comprate:
quella sul risarcimento miliardario dello Stato alla Sir
del petroliere Nino Rovelli; quella sulla vendita delle
imprese alimentari pubbliche controllate dalla Sme; quella
sul Lodo Mondadori, quando la casa editrice era contesa
da Carlo De Benedetti e Silvio Berlusconi. Tutte e tre le
sentenze coinvolgono, secondo laccusa, lavvocato
Cesare Previti, che sarebbe stato lintermediario dei
pagamenti tra gli imprenditori e i giudici (aveva un suo
metodo per vincere le cause, conosceva bene le stelle).
Le ultime due riguardano direttamente, sempre secondo la
procura, anche Silvio Berlusconi. Allinizio le accuse
erano sostenute dalla testimonianza di Stefania Ariosto,
che dice di essere stata testimone di alcuni passaggi di
denaro («A Rena, te stai a dimentica a
busta!»). Poi le rogatorie giudiziarie allestero
hanno scoperto carte bancarie che documentano passaggi di
denaro dagli imprenditori agli intermediari e da questi
ai giudici di Roma.
Intanto però Berlusconi, che nel 1995-96 era in gravissime
difficoltà giudiziarie, ma soprattutto aziendali,
finanziarie e politiche si è ripreso. Ha quotato
la sua azienda in Borsa, è stato legittimato come
«padre costituente» dalla Bicamerale di Massimo
DAlema, ha rafforzato il suo ruolo di leader dellopposizione.
Fino al 2001, anno in cui vince le elezioni e torna al governo
(il centrosinistra non aveva varato alcuna legge antimonopolistica
sul sistema televisivo, né sul conflitto dinteressi).
A questo punto cominciano le manovre legislative per disinnescare
le indagini: una nuova legge sul falso in bilancio azzera
in un sol colpo tre, forse quattro processi in corso a Milano
con imputato Berlusconi; quella sulle rogatorie punta a
rendere inutilizzabili le prove (specie bancarie) raccolte
allestero; non ottiene però il suo scopo, poiché
è resa vana dalle giuridicamente più forti
convenzioni internazionali; allora la legge Cirami, approvata
dal Parlamento in tempi da record, reintroduce il legittimo
sospetto e permette il trasferimento dei processi dalla
loro sede naturale.
Una legge su misura, un abito cucito sulle figure di Previti
e Berlusconi, protestano lopposizione e il nuovo movimento
dei Girotondi. Ai promotori sfuggono conferme: indica «ciò
che succede a Milano» come molla del suo intervento
lo stesso promotore della legge, il senatore Melchiorre
Cirami, in una intervista al Corriere della sera. E Gaetano
Pecorella, sempre al Corriere, il 26 gennaio 2003 dichiara:
«Sarebbe poco leale dire che quelle leggi sarebbero
state fatte comunque (...). La legge sul legittimo sospetto
è sicuramente giusta ed è stata scritta in
relazione alla vicenda milanese».
La Corte di cassazione, intanto, è stata blandita:
il governo Berlusconi ha concesso ai suoi giudici consistenti
aumenti di stipendio, e lavora per attribuire loro nuove
competenze, tolte a quei rompiscatole del Csm.
Non è servito a nulla. I giudici della Cassazione
hanno detto no. Ora Berlusconi e lo stuolo dei suoi avvocati,
perso il treno per Brescia, potrebbero tentare con nuove
motivazioni di saltare su quello per Perugia. «Non
si capisce perché Milano, e quindi Brescia, debbano
giudicare ipotesi di corruzioni che sarebbero state commesse
da magistrati di Roma in processi che si sono svolti a Roma»,
ha dettato Pecorella al Corriere.
Dunque, a Perugia, a Perugia. È quella la sede competente
a giudicare i magistrati di Roma. Tanto, Perugia e Brescia
pari sono: ciò che conta è tirare in lungo.
Il vero obiettivo non è avere una sentenza a Brescia
o a Perugia o in qualche altro più tranquillo tribunale
dItalia (come fare a stracciare quelle maledette carte
bancarie, destinate a traslocare in ogni sede?), ma è
non arrivare a sentenza. Mai. In nessun luogo.
La strategia processuale è perdere tempo e arrivare,
finalmente, alla prescrizione. E non (tanto) perché
una condanna avrebbe conseguenze gravissime per la credibilità
del Paese e delle sue istituzioni. Quanto per gli esiti
concreti di una condanna a Berlusconi nei processi di Milano.
Il giorno dopo uneventuale condanna per il Lodo Mondadori,
per esempio, Carlo De Benedetti potrebbe iniziare unazione
civile per tornare in possesso della più grande casa
editrice italiana, sostenendo che gli fu scippata con una
sentenza comprata. E potrebbe chiedere di essere risarcito
per tutti gli anni in cui la Mondadori è stata illegittimamente
controllata da Berlusconi. Sarebbe il disastro economico
per Berlusconi e un terremoto per lItalia (Mondadori
è quotata in Borsa, Mediaset pure...).
I prossimi mesi assisteremo alle contromosse. Il gioco sarà
pesante, perché pesantissima è la posta. Berlusconi,
avendo genialmente fatto diventare politici i suoi fatti
personali, ora ha al suo servizio non soltanto i suoi avvocati,
consulenti e dipendenti, ma unintero schieramento
politico, quattro o cinque partiti, più della metà
dei deputati e senatori. Tutti costretti a difenderlo perché
le sue faccende personali sono diventate le questioni politiche
da cui dipende la salute del loro schieramento. Così
Berlusconi potrà continuare la sua carriera istituzionale,
darà pacche sulla spalla a Bush e a Blair, farà
le corna nelle foto ricordo, abbraccerà il suo amico
Putin. Ma tutto, per lui, sarà più difficile.
Metterà il consenso contro la legge, i voti contro
il diritto. Potrà essere tentato di ricorrere alla
piazza. Ma gli sarà più difficile tentare
di conquistare, dopo Palazzo Chigi, il Quirinale. Le sue
aziende (sue per «mera proprietà») potranno
subire i contraccolpi delle cause penali e civili. E soprattutto
durissimo gli sarà convincere i partner dellEuropa
e del mondo, con qualche pacca sulle spalle, che lItalia
è un Paese normale.

PINOCCHIO BAZAR
Ovvero le bugie nel videomessaggio di Berlusconi
a cura di Marco Travaglio
1. La magistratura è politicizzata,
dunque non può giudicare.
I singoli magistrati possono avere opinioni politiche, come
è garantito dalla Costituzione a ogni cittadino (del
resto, a Berlusconi piacciono magistrati come Tiziana Parenti,
Carlo Nordio, Melchiorre Cirami, Nitto Palma... a cui il
suo schieramento ha offerto posti in Parlamento e ricchi
contratti giornalistici). L'importante è che ogni
magistrato, a prescindere dalle sue opinioni politiche,
giudichi poi i FATTI, non le opinioni, e le giudichi CON
IMPARZIALITA' a prescindere da chi gli è davanti.
È stato commesso un reato? Questo deve decidere il
giudice. Le idee politiche non c'entrano. Altrimenti chi
è di destra non potrebbe essere giudicato da chi
è di sinistra e viceversa. Ma allora ciascuno dovrebbe
essere giudicato da un giudice della sua parte. E allora
ciascuno dovrebbe scegliere il proporio giudice: una follia...
2. «In una democrazia liberale
i giudici non fanno "resistenza, resistenza, resistenza"
a chi è stato scelto dagli elettori per governare».
Ma Borrelli non ha mai inviatato a resistere al governo.
Ha invitato invece «la collettività a resistere,
resistere, resistere ai guasti di un pericoloso sgretolamento
della volontà generale, al naufragio della coscienza
civica nella perdita del senso del diritto, ultimo estremo
baluardo della questione morale». Nessun accenno al
governo.
3. «In una democrazia liberale
la magistratura non si giudica da sé e si autoassolve
in ogni sede disciplinare, penale e civile come avviene
oggi in Italia».
Ma a Milano suoi coimputati sono proprio tre magistrati,
i giudici di Roma accusati di aver venduto sentenze, arrestati
e poi mandati a giudizio per corruzione in atti giudiziari.
In Italia sono decine i magistrati arrestati e processati
negli ultimi anni, altro che autoassoluzioni.
4. «In
una democrazia liberale chi governa per volontà sovrana
degli elettori è giudicato, quando è in carica
e dirige gli affari di Stato, solo dai suoi pari, gli eletti
del popolo».
Non è vero che in tutte le democrazie i politici
godono di speciali immunità: in Gran Bretagna e Stati
Uniti, culle della democrazia liberale, i governanti sono
processabili, tant'è vero che Bill Clinton, presidente
degli Usa, l'uomo più potente del mondo, ha dovuto
per anni difendersi dalle accuse dei giudici, per comportamenti
certo meno gravi di quelli contestati a Berlusconi. In nessuno
Stato democratico (tranne forse l'Iraq) esistono i privilegi
che Berlusconi chiede per sé. In molti Paesi esistono
garanzie per proteggere l'attività politica dei governanti.
Ma Berlusconi è accusato per reati, tangenti e fondi
neri, commessi quand'era imprenditore: quando dice di voler
essere giudicato dai suoi «pari» forse si riferisce
a un collegio di industrialotti brianzoli?
5. Sono vittima di una persecuzione
giudiziaria: «Dal momento della mia discesa in campo
nell'attività politica, contro di me e contro i dirigenti
del gruppo sono stati avviati 87 procedimenti penali, sono
state effettuate 470 visite della polizia giudiziaria...
Una incredibile persecuzione giudiziaria...».
Ma Berlusconi è accusato di FATTI, non di opinioni.
Di aver comprato sentenze, in questo caso. E comunque, come
stabilito da una sentenza del trubunale di Brescia (il migliore
del mondo), le inchieste su Berlusconi «avevano preceduto
e non seguito la sua decisione di "scendere in campo"».
6. Sono
innocente: «Ho la certezza limpida, orgogliosa e serena
di non aver commesso reati».
Non può giudicarsi da solo. Se ha commesso reati
lo decideranno i giudici. Comunque sentenze definitive hanno
già accertato che Berlusconi ha reso falsa testimonianza
sulla sua iscrizione alla P2, ha pagato 10 miliardi in nero
per un calciatore, ha versato una tangente record (21 miliardi)
a Craxi. Una mazzetta limpida,
orgogliosa e serena.
7. «Le correnti politicizzate
della magistratura, giusto 10 anni fa, imposero a un Parlamento
intimidito e condizionato un cambiamento alla Costituzione
del 1948 che ha nesso nelle loro mani il potere di decidere
al posto degli elettori».
L'abrogazione dell'autorizzazione a procedere per le indagini
a carico dei parlamentari nel 1993, in piena Mani pulite,
fu chiesta non dai giudici ma da due mozioni parlamentari
firmate da Umberto Bossi, Roberto
Maroni, Roberto Castelli luna, Gianfranco
Fini, Maurizio Gasparri, Ignazio La Russa laltra.
Dei sei firmatari, cinque oggi sono ministri di Berlusconi.
E relatore della legge costituzionale che abrogò
limmunità parlamentare non era un pericoloso
comunista, ma un parlamentare democristiano di nome
Carlo Casini. «Il principio del princeps
legibus solutus è medioevale e quindi superato»,
sostenne Casini in Parlamento il 12 maggio 1993. «Se
vi è istanza di eguaglianza, quindi, essa deve riguardare
in primo luogo gli autori della legge». Berlusconi,
dunque, dell'immunità abrogata chieda ai suoi ministri.
8. «Nel 1994 il governo fu messo
platealmente sotto accusa attraverso il suo leader in un
procedimento iniziato a Napoli mentre presiedeva una Convenzione
dell'Onu e poi sfociato, per assoluta mancanza di fondatezza,
in una clamorosa assoluzione molti anni dopo».
Il famoso invito a comparire per le tangenti Fininvest alla
Guardia di finanza fu notificato non a Napoli ma a Roma.
Le tangenti c'erano, come hanno stabilito le sentenze, tanto
che due manager Fininvest sono stati per questo condannati.
Berlusconi fu condannato in primo grado, prescritto in appello
e infine assolto dalla Cassazione: per insufficienza di
prove. In un Paese normale, per uscire dalla politica sarebbe
sufficiente la responsabilità morale di guidare un'azienda
che paga tangenti (negli Stati Uniti è bastato avere
una baby sitter irregolare...). Il governo Berlusconi, comunque,
non fu fatto cadere (come spesso si è ripetuto) dall'invito
a comparire, ma dagli alleati Bossi e Buttiglione che ritirarono
il loto appoggio.

Il boss mafioso Vittorio
Mangano, fattore di Berlusconi ad Arcore
Dopo la sentenza della Cassazione/3
L'OMBRA DELLE STRAGI
DI MAFIA
Dalla Sicilia, nuove preoccupazioni per il presidente del
Consiglio. L'ultima sentenza per la strage di via D'Amelio
dice che Borsellino è stato ucciso anche per un'intervista
concessa a due giornalisti francesi in cui faceva i nomi
di Berlusconi e Dell'Utri
Dopo aver ricevuto una bruciante sconfitta sul fronte Nord,
Berlusconi resta ancora pericolosamente impegnato sul fronte
Sud. Nelle settimane precedenti la decisione della Cassazione,
dalla Sicilia gli sono arrivati un paio di colpi durissimi.
Lultimo collaboratore di giustizia, Nino Giuffré,
braccio destro del capo dei capi Bernardo Provenzano, ha
rivelato durante unudienza del processo per mafia
contro Marcello DellUtri, che Berlusconi avrebbe incontrato,
nella sua villa di Arcore, lallora capo di Cosa nostra,
Stefano Bontate. Venticinque anni fa racconta Giuffré
«con la scusa di andare a trovare» il
boss Vittorio Mangano assunto da Berlusconi come fattore
della villa di Arcore, Bontate si recò da Palermo
a Milano per incontrare limprenditore emergente Silvio
Berlusconi. Giuffré ha raccontato anche i rapporti
tra Cosa nostra e Forza Italia: «Il popolo era stufo
della Dc, degli uomini politici, u nni putiva cchiù
e non ne può più. Allora ha visto in Forza
Italia unàncora... E noi, furbi, abbiamo cercato
di prendere al balzo la palla, è giusto? Tutti Forza
Italia. E siamo qua (...). Forza Italia era vista allora
come la nuova Dc, come làncora di salvezza
di noi mafiosi (...), in cambio di favori, delleliminazione
dellergastolo, del 41 bis, della confisca dei beni...».
Dichiarazioni sconvolgenti sul capo del governo e il suo
partito. Eppure i quotidiani e le tv, che pure fino al giorno
prima avevano presentato Giuffré come testimone attendibile,
tengono bassa la notizia, non la ritengono (tranne lUnità
di Furio Colombo) degna della prima pagina. Il New York
Times commenta: «In molti Paesi accuse di tale serietà
potrebbero quantomeno condurre a voci di un imminente crollo
del governo, ma in Italia sono a malapena registrate (...).
Decenni di accuse sullinfluenza della mafia sulla
politica italiana, alcune reali, altre immaginate, hanno
intorpidito gli italiani a tal punto che i quotidiani danno
più spazio alle notizie sul maltempo».
Il secondo colpo a Berlusconi è ancora più
duro e ancora più invisibile sui media. La Corte
dassise dappello di Caltanissetta poco prima
di Natale ha depositato le motivazioni della sentenza bis
sulla strage di via DAmelio in cui sono morti Paolo
Borsellino e gli uomini della sua scorta: con molte pagine
che riguardano Berlusconi. Non cè solo mafia
nella strage, ribadisce la sentenza. Anzi, ammazzare Borsellino
in maniera così spettacolare e a poche settimane
dallomicidio di Giovanni Falcone è stata
per Cosa nostra una scelta addirittura controproducente,
nel breve periodo, perché ha innescato una dura reazione
antimafia dello Stato. Eppure Cosa nostra lha ammazzato:
perché aveva garanzie «esterne» e trattative
in corso.
«Poco prima della strage di Capaci, Ganci gli aveva
confidato (a Cancemi, ndr) che Riina si era incontrato con
persone importanti», scrive la sentenza. «È
bene precisare che Cancemi non ha mai affermato che queste
persone fossero DellUtri e Berlusconi, e ha anzi detto
che nessuno gli aveva mai confermato esplicitamente che
questo incontro vi era stato, anche se il Cancemi non ha
nascosto di avere elaborato quellidea. Cancemi, quindi,
avanzava solo sul piano deduttivo un collegamento fra la
consumazione delle stragi e gli incontri con persone
importanti, di cui aveva parlato in precedenza, finalizzati
ai mutamenti legislativi cui Riina aspirava. Cancemi istituiva
un collegamento di tipo logico tra i rapporti personali
che il Riina manteneva, le stragi e i mutamenti legislativi
per bloccare e screditare i pentiti. Per Cancemi la motivazione
principale della strage di via DAmelio era di ottenere
una modifica immediata della legislazione sui pentiti. Così
Riina spiegava lurgenza di portare a termine luccisione
del dr. Borsellino. La strage era ladempimento di
un impegno, di un obbligo che aveva contratto con chi gli
aveva promesso la modifica della legge».
Prosegue la sentenza: «Laccelerazione soggettivistica
che Riina ha dato agli avvenimenti nel corso del 1992, il
concentrarsi dellinteresse spasmodico alla soppressione
di Paolo Borsellino proprio quel 19 luglio del 1992, non
si giustifica con il movente della vendetta per il passato
del magistrato. La scelta dei tempi per assassinare il giudice
mette in luce la complessità della strategia, elaborata
dopo la sentenza del maxiprocesso e la conseguente svolta
epocale che essa rappresentava nei rapporti tra Stato, politica
e mafia. Mette in luce altresì lesigenza per
Cosa nostra di compiere unautentica rivoluzione in
tali rapporti, attraverso interventi radicali, per rispondere
alla condanna e alle sue implicazioni. Nello stesso tempo
i contraccolpi della prima strage e il ruolo che Paolo Borsellino
stava assumendo nelle settimane successive alla strage di
Capaci imponeva lesigenza della sua immediata soppressione
e lassunzione consapevole dei costi che ciò
avrebbe comportato per proseguire nella nuova strategia.
Tutto ciò si riflette sul piano esecutivo con il
succedersi frenetico di riunioni e incontri, con la mobilitazione
dellintero corpo dellorganizzazione e la necessità
per Riina non solo di ordinare la strage, ma anche di spiegarne
la necessità e i tempi. Da qui la riunione nella
villa di Calascibetta alla quale Riina partecipa non tanto
per sollecitare lesecuzione e verificare lo stato
dellorganizzazione, ma per spiegare lassoluta
necessità della perfetta riuscita per le sorti dellintera
organizzazione».
il giudice doveva morire. Borsellino doveva morire.
E subito. A ogni costo: «Non deve sorprendere in questottica
che, come ha spiegato Cancemi, nei mesi successivi anche
dopo la stretta repressiva Riina ostentasse ottimismo e
chiedesse ai suoi pazienza e che Provenzano dopo larresto
del Riina avesse ribadito che la linea di Riina dovesse
essere proseguita, quasi che fosse stato messo in conto
un periodo di indurimento dello Stato che doveva tuttavia
preludere nel tempo a un progressivo ammorbidimento fino
alla conclusione del desiderato accordo di più ampio
respiro, sulla base delle richieste più volte avanzate
(...). Riina aveva messo in conto tutto, anche il 41 bis,
non aveva mai dimostrato sorpresa per la reazione dello
Stato dopo il 19 luglio, la sua era una prospettiva di lungo
periodo: Alla lunga vinceremo noi».
Prosegue la sentenza: «Lomicidio del dr. Borsellino
(era, ndr) da portare a termine in fretta, con premura»,
perché era in corso «la trattativa sui benefici
che Cosa nostra avrebbe ottenuto da quella azione. Riina
aveva soggiunto che bisognava mettere in ginocchio le istituzioni
e che dovevano dimostrare di essere i più forti.
(...). Ganci, quando la riunione si era sciolta, nel commentare
con Cancemi le parole di Riina con la frase questo
ci vuole rovinare tutti soggiunse che il Riina aveva
una certezza e che stava trattando una cosa
enorme. Nel corso di analoghe successive riunioni
nel corso delle quali Riina aveva assicurato tutti che le
cose stavano procedendo secondo i piani, fu affrontato largomento
del carcere duro che nel frattempo era stato ripristinato
per i mafiosi. Riina rispondeva che quella situazione momentanea
sarebbe stata superata dagli impegni che lui aveva avuto
dalle persone con le quali aveva trattato e che tutto sarebbe
stato superato in futuro; che tutto veniva fatto per il
bene di Cosa nostra. Invitava a stare tranquilli e ad avere
pazienza».
Ma quali erano i motivi di tanta fretta? «La precipitazione
e la concitazione con la quale si addivenne alla esecuzione
del piano contro Borsellino è da ascrivere, invece,
a tre eventi esterni che si connettono tra loro e assumono
senso alla luce delle inquietanti dichiarazioni dei collaboratori
di giustizia (...). La tradizionale attenzione di Cosa nostra
nel calibrare le proprie azioni in rapporto ai possibili
riflessi sulle decisioni di natura politico-giudiziaria,
avrebbe dovuto comportare unastensione da condotte
idonee a far precipitare quelle decisioni in un senso sfavorevole
allorganizzazione. Unazione eclatante di Cosa
nostra, in pendenza di situazioni incerte che da quellazione
avrebbero potuto essere pregiudicate (in effetti la strage
di via DAmelio determinò la conversione del
decreto legge sul carcere duro con aggravamenti) si giustifica
soltanto se, a fronte di quel costo, si fossero prospettati
benefici di ben più ampia portata e sia pure a lungo
termine (...). A fronte dei malumori dei detenuti nel periodo
successivo alle stragi, Bernardo Brusca, compare di Riina,
soleva ricordare che certamente il suo compare aveva dovuto
con la strage accontentare qualcuno a cui non poteva
dire di no e quindi ribadiva il concetto fondamentale
che ciò che poteva apparire un male si
sarebbe rivelato nel lungo periodo un bene per Cosa nostra».
Infatti «fra i vecchi boss detenuti, tutti vecchi
compagni darme di Riina (...) era, quindi, diffusa
lopinione che nella strage di via DAmelio vi
fosse stato un suggeritore esterno, al quale
il Riina non si era potuto sottrarre. Tale suggeritore
andava ricercato tra gli interessati allindagine su
mafia e appalti nella quale il dr. Borsellino aveva dichiarato,
imprudentemente, di volersi impegnare a fondo, nello stesso
momento in cui Tangentopoli cominciava a profilarsi allorizzonte.
In questo senso tanto il Brusca che il Calò ritenevano
che la decisione di uccidere il dr. Borsellino, nel momento
meno opportuno, dovesse risalire proprio a Bernardo Provenzano,
dei due capi corleonesi certamente il più sensibile
allargomento appalti pubblici».
Borsellino e lo stalliere di arcore.
I tre «eventi esterni» che spiegano la fretta
di Cosa nostra nelleliminare a ogni costo Borsellino,
per i giudici di Caltanissetta sono:
1. Lintervista
rilasciata nel 1991 da Borsellino al giornalista francese
Fabrizio Calvi, in cui «racconta la carriera criminale
del Mangano, esponente della famiglia mafiosa di Porta Nuova,
estorsore e grande trafficante di stupefacenti, ed espone
quanto è a sua conoscenza e quanto ritiene di rivelare
sui rapporti tra Mangano, DellUtri e Berlusconi. Nel
corso dellintervista il dr. Borsellino, pur mantenendosi
cauto e prudente per non rivelare notizie coperte da segreto
o riservate, consultando alcuni appunti in suo possesso,
forniva indicazioni sulla conoscenza di Mangano con il DellUtri
e sulla possibilità che il Mangano avesse operato,
come testa di ponte della mafia a Milano in quel medesimo
ambiente (...).
«Ma, se così è, non è detto che
i contenuti di quellintervista non siano circolati
tra i diversi interessati, che qualcuno non ne abbia informato
Salvatore Riina e che questi ne abbia tratto autonomamente
le dovute conseguenze, visto che, come abbiamo detto in
precedenza, questa Corte ritiene, come Brusca e non come
Cancemi, che il Riina possa aver tenuto presente nel decidere
la strage gli interessi di persone che intendeva garantire
per ora e per il futuro, senza per questo eseguire
un loro ordine o prendere formali accordi o intese o dover
mantenere promesse. Alla fine di maggio del 1992, dopo la
strage di Capaci, Cosa nostra era in condizione di sapere
che Paolo Borsellino aveva rilasciato una clamorosa intervista
televisiva a dei giornalisti stranieri, nella quale faceva
clamorose rivelazioni su possibili rapporti di Vittorio
Mangano con DellUtri e Berlusconi, rapporti che avrebbero
potuto nuocere fortemente sul piano dellimmagine,
sul piano giudiziario e sul piano politico a quelle forze
imprenditoriali e politiche alle quali fanno esplicito riferimento
le dichiarazioni di Angelo Siino, sulle quali i capi di
Cosa nostra decisamente puntavano per ottenere quelle riforme
amministrative e legislative che conducessero in ultima
istanza ad un alleggerimento della pressione dello Stato
sulla mafia e alla revisione della condanna nel maxi processo.
«Con quellintervista Borsellino mostrava di
conoscere determinate vicende; mostrava soprattutto di non
avere alcuna ritrosia a parlare dei rapporti tra mafia e
grande imprenditoria del nord, a considerare normale che
le indagini dovessero volgere in quella direzione; non manifestava
alcuna sudditanza psicologica ma anzi una chiara propensione
ad agire con gli strumenti dellinvestigazione penale
senza rispetto per alcun santuario e senza timore del livello
al quale potessero attingere le sue indagini, confermando
la tesi degli intervistatori che la mafia era non solo crimine
organizzato ma anche connessione e collegamenti con ambienti
insospettabili delleconomia e della finanza. Riina
aveva tutte le ragioni di essere preoccupato per quellintervento
che poteva rovesciare i suoi progetti di lungo periodo,
ai quali stava lavorando dal momento in cui aveva chiesto
a Mangano di mettersi da parte perché intendeva gestire
personalmente i rapporti con il gruppo milanese. È
questo il primo argomento che spiega la fretta, lurgenza
e lapparente intempestività della strage. Agire
prima che in base agli enunciati e ai propositi impliciti
di quellintervista potesse prodursi un qualche irreversibile
intervento di tipo giudiziario».
2. La trattativa in
corso tra Cosa nostra e uomini dello Stato: «Per Brusca,
Borsellino muore il 19 luglio 1992 per la trattativa che
era stata avviata fra i boss corleonesi e pezzi delle istituzioni.
Il magistrato era venuto a conoscenza della trattativa e
si era rifiutato di assecondarla e di starsene zitto. Nel
giro di pochi giorni dallavvio della trattativa Borsellino
viene massacrato».
3. Lannuncio pubblico,
fatto circolare dopo la morte di Falcone, che Borsellino
sarebbe diventato procuratore nazionale antimafia.
Lombra dei servizi segreti.
Cè, dunque, una trattativa in corso
tra pezzi dello Stato e Cosa nostra, sullo sfondo delle
stragi del 1992-93. Ma cè anche lombra
dei servizi segreti. Secondo un consulente tecnico molto
valorizzato nella sentenza, il mago delle analisi dei traffici
telefonici Gioacchino Genchi, personaggi misteriosi (ma
non mafiosi) hanno tenuto sotto controllo i telefoni di
Borsellino e forse hanno controllato dallalto
dal monte Pellegrino la zona della strage.
Sul monte Pellegrino sorge il Castello Utveggio, bizzarra
costruzione in cui ha sede il Cerisde, un misterioso centro
studi che, secondo Genchi, copriva un centro del Sisde,
il servizio segreto civile in quegli anni controllato a
Palermo da Bruno Contrada. Lanalisi dei tabulati delle
telefonate di un indagato, Gaetano Scotto, ha evidenziato
una chiamata, avvenuta qualche mese prima della strage,
tra Scotto e lutenza del Castello Utveggio. Sul luogo
della strage, poi, scompare misteriosamente lagenda
di Borsellino, da cui il magistrato non si separava mai.
Unutenza telefonica clonata, in possesso di boss mafiosi,
chiama uno dei villini che si trovano lungo il tragitto
che lauto di Borsellino ha percorso la domenica della
strage, ma anche alcune utenze del Sisde. Pochi secondi
dopo lesplosione, dalla sede del Sisde (sempre vuota
la domenica, tranne quella domenica) parte una telefonata
che raggiunge il cellulare di Contrada. Ma mentre erano
in corso queste delicatissime indagini, aveva spiegato Genchi
in aula, la pista dei possibili «aiuti esterni»
viene bruciata dallintempestivo fermo di Pietro Scotto
e lo stesso Genchi è costretto a farsi da parte.
In conclusione, la sentenza afferma che «non vi è
ragione di ricorrere a mandanti occulti o a un terzo livello
per ammettere che nei grandi delitti di mafia esistono complicità
e connivenze che il sistema non riesce a individuare e a
portare alla luce». I giudici, richiamando il contributo
portato nel processo da Genchi, sottolineano i «condizionamenti
e i veri e propri divieti opposti a quanti allinterno
degli apparati pubblici agivano con lesclusivo intento
di ricerca della verità, e nel caso di specie allindagine
su tracce e dati che riconducevano a un sostegno logistico
ed informativo al commando mafioso di non identificati soggetti
appartenenti ad apparati pubblici».
I giudici così concludono: «Questo processo
concerne esclusivamente gli esecutori materiali, coloro
che hanno attivamente lavorato per schiacciare il bottone
del telecomando. Ma questo stesso processo è impregnato
di riferimenti, allusioni, elementi concreti che rimandano
altrove, ad altri centri di interessi, a coloro che in linguaggio
non giuridico si chiamano i mandanti occulti,
categoria rilevante non solo sotto il profilo giuridico,
ma anche sotto quello politico e morale. E quindi qui finisce
il processo agli esecutori della strage di via DAmelio,
ma non certamente la storia di questa strage annunciata
che deve essere ancora in parte scritta». Il resto
della storia dovrà essere scritto nei prossimi mesi.
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Nanni Moretti:
con questi politici non vinceremo mai
Ecco i primi frutti
The Economist (10 agosto 2001) interviene sulle leggi su misura
che Silvio Berlusconi ha cominciato a far approvare in Italia.
Delle nuove norme sul falso in bilancio, scrive The Economist,
«si vergognerebbero persino gli elettori di una Repubblica
delle Banane»
Storia
del Signor Savoia
Biografia non autorizzata di un erede al trono d'Italia,
piduista e manager di affari oscuri, che mentre tutti ritornano,
vorrebbe tornare anche lui
Milano
da bere,
atto secondo
Un altro politico di Forza Italia arrestato. Mille indagati
per vicende di corruzione. Le tante indagini sulla Regione
del "governatore" Roberto Formigoni. Tangentopoli
non è mai finita
Piccole
bombe crescono
Una galassia nera dietro l'attentato al Manifesto.
E ora, anche l'ultradestra comincia la campagna elettorale.
Stringendo contatti con uomini della Lega, di An, di Forza
Italia...
Rinasce
«Società civile»
Questa volta nel web,
ecco di nuovo i ragazzacci di Società civile.
Riprende vita, via internet, uno storico mensile milanese
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