|
La guerra invisibile
«Per non dimenticare»: la memoria delle stragi
italiane
e delle vittime senza verità e giustizia
di Gianni Barbacetto
«Per non dimenticare». Fu lo slogan il
titolo, il grido, linvocazione di mille manifestazioni,
cortei, incontri, ricordi, articoli, iniziative: per anni,
che anniversario dopo anniversario diventavano decenni. Tutto
cominciò il giorno in cui lItalia perse linnocenza:
quel 12 dicembre 1969 in cui il terrore, il terrore indiscriminato,
entrò nella storia del Paese. La bomba, un oggetto
programmato per uccidere, quel giorno acquistò dignità
di soggetto politico: intimidazione, o attacco, o punizione,
o ricatto, o messaggio; comunque, atto per fare politica
anzi, per fare storia. Politica nuova, fuori dai riti e dalle
regole comunemente usati in democrazia, con azioni che giungevano
da un qualche luogo nellombra e avevano il programma
di cambiare il corso della storia.
A quel giorno seguirono altri giorni, a quella bomba altre
bombe, a quei morti altri morti. A chi restava, rimaneva il
senso di unoffesa subita, di una perdita irreparabile,
di una ingiustizia che perdura. Perché la violenza
era rivolta contro cittadini inermi, scelti solo dal caso
mentre erano in una banca, in una piazza, in una stazione,
su un treno, senza altra colpa che quella di trovarsi lì.
E perché mentre gli anni passavano e le conoscenze
aumentavano, su quelle storie di bombe e di morti restava
limpossibilità di avere giustizia: le indagini
giravano a vuoto, i processi finivano con assoluzioni, gli
apparati dello Stato imbrogliavano le carte, sottraevano i
testimoni, inventavano piste inesistenti.
«Per non dimenticare»: la rabbia per la violenza
subita e lingiustizia perdurante era via via alimentata
dalla coscienza di sapere la verità, ma di non poterla
dire. «Io so», scriveva Pasolini. In questo paradosso,
mentre la forza vinceva spietatamente sulla ragione, al tempo
sembrava consegnato il compito di stemperare il ricordo delloffesa,
di spegnere il vigore della rabbia, di anestetizzare la voglia
di verità. E, dunque, «per non dimenticare»
diventava programma minimo di resistenza umana e politica,
di sopravvivenza della ragione e delle buone ragioni, perfino
contro il buon senso del tempo che passa e per fortuna
lenisce il dolore dei famigliari e degli amici e addolcisce
la rabbia dei compagni. Gli anniversari delle stragi italiane
si trasformano così nelloccasione, oggettivata
dal calendario, per celebrare i riti collettivi della memoria.
Le lapidi diventano frammento di una storia ancora contesa
(come dimostrano le battaglie per esporle: mitica quella di
piazza Fontana, ora raccontata in un saggio da uno storico
inglese, John Foot). E i famigliari delle vittime si trovano
a dover essere unico Paese al mondo dove questo succede
una sorta di informale partito che chiede verità
e giustizia, dialoga e si scontra con la politica e con la
magistratura.
Strana categoria, quella dei «famigliari delle vittime»:
loro i feriti, i parenti dei morti non dimenticano:
portano scritto per sempre nella carne o nellanima un
dolore imposto dal caso e da una politica forse impazzita,
certo incomprensibile. Sono costretti a un ruolo politico
di cui avrebbero fatto volentieri a meno. Eppure sono periodicamente
esibiti, o insultati, o sospettati (come poi i famigliari
delle vittime di mafia): di esibito protagonismo, di essere
venali per le pretese di risarcimento, di aver fatto carriera
in quanto figli o mariti o fratelli di morti incolpevoli.
Inchiodati, anche in questo, in un ruolo che certamente avrebbero
preferito non giocare (ne ha scritto pagine drammatiche Nando
dalla Chiesa, che racconta come i famigliari delle vittime
si trovino addirittura costretti a doversi talvolta scusare
per la loro ingombrante presenza, per il peso che senza volere
impongono alla memoria collettiva; e Claudio Fava è
giunto fino a gridare la sua ribellione «contro il destino
precipitato sulle spalle di chi è rimasto, di un figlio
che è stato costretto ad assumere su di sé la
morte del padre», «condannato a essere per sempre
testimone della vita e della violenza che lha spezzata»).
«Per non dimenticare», allora, a dispetto dei
depistaggi degli apparati, del tempo e dellanima.
Sono trascorsi ormai più di trentanni dal giorno
in cui linnocenza è andata perduta in Piazza
Fontana, incipit della guerra invisibile chiamata strategia
della tensione. Più di ventisei sono passati dalla
strage di piazza della Loggia a Brescia (28 maggio 1974),
cruenta conclusione della prima fase di quella stagione di
bombe e movimenti eversivi. Ma in 15 anni, tra il 1969 e il
1984, dalla strage della Banca dellAgricoltura a quella
del treno 904, vi sono stati 150 morti e oltre 600 feriti.
Le cifre diventano imponenti, fino a superare le 400 vittime,
se si contabilizzano anche altri episodi, da Portella delle
Ginestre alla strage di Ustica.
Gli ultimi processi, le ultime indagini per quei fatti sono
ancora in corso. La gran mole di conoscenze comunque fin qui
accumulate e il tanto tempo trascorso sembrerebbero però
rendere finalmente possibile, oggi, raccontare serenamente
che cosa è accaduto nel nostro Paese nella stagione
delle stragi e delleversione. Per acquietare la memoria.
E per realizzare una prima messa a punto storica di quelle
vicende: in fondo, sono passati ben dieci anni dal crollo
del blocco sovietico e quindi dalla fine della guerra invisibile
combattuta (anche) nel nostro Paese tra Occidente e fronte
comunista; uno dei due antagonisti non esiste più,
e il mondo è radicalmente cambiato. Invece, mai come
in questo momento la polemica su questi temi si è fatta
furibonda e i toni esasperati. Dire che cosa è successo
sotto i nostri occhi è diventato più difficile
eppure qualcosa è successo: una guerra, con
centinaia di morti e feriti. Accanto al revisionismo storico
grande, sul passato remoto del fascismo, del nazismo, della
Shoah, si è insediato nel nostro Paese un revisionismo
piccolo, sul passato prossimo della vicenda italiana,
leversione, le stragi. Un revisionismo preventivo: che
precede, invece di seguire e «rivedere» una messa
a punto della storia degli ultimi decenni.
Che cosa dunque è successo?
1. Dopo la guerra mondiale il fronte dei vincitori si è
scomposto, una parte (lOccidente) ha attinto forze e
uomini anche dal fronte degli sconfitti per combattere il
nuovo nemico, il blocco comunista. La nuova guerra, non dichiarata
e invisibile, si è combattuta in modo particolare in
Italia, marca di confine tra Occidente e campo comunista.
2. Questa guerra è stata, tecnicamente, una «low
intensity war», un conflitto a bassa intensità,
teorizzato in un certo momento come «guerra non ortodossa»;
una guerra non dichiarata, sotterranea, combattuta con mezzi
non convenzionali.
3. LItalia ha sempre fatto parte del campo occidentale,
e quel campo ha dispiegato per decenni una forte attività,
ha messo in moto finanziamenti politici e dispositivi militari,
anche «riservati», ha promosso e lasciato agire
gruppi segreti.
4. Il campo avverso ha avuto, almeno per un periodo di tempo,
piani dattacco, progetti dinvasione militare;
e ha contato, allinterno, sul più grande partito
comunista dellOccidente.
Fin qui, la memoria è comune, laccordo è,
probabilmente, generale. Ma quale è stata la natura
dellintervento dellOccidente in Italia? Quale
il peso dellintervento sovietico e che gioco ha giocato
il partito comunista italiano? Su questo, la memoria è
divisa, lo scontro è in corso.
Il 12 marzo 1947 il presidente degli Stati Uniti Harry Truman
pronunciò di fronte al Congresso Usa il celebre discorso
sulla disponibilità degli Stati Uniti a intervenire
in qualsiasi zona del mondo minacciata dai sovietici e intossicata
dal comunismo. La «dottrina Truman» per lItalia
venne declinata nei successivi documenti del National Security
Council (Nsc). Il documento Nsc numero 1/3 dell8 marzo
1948, alla vigilia delle cruciali elezioni italiane del 18
aprile, pone direttamente il problema della possibile conquista
del potere dei comunisti «attraverso sistemi legali»,
a cui gli Stati Uniti devono reagire immediatamente, anche
fornendo «assistenza militare e finanziaria alla base
anticomunista italiana». Nella direttiva Nsc 10/2 del
18 giugno 1948 (a pericolo scampato: la Dc ha appena battuto
il Fronte popolare) si afferma che comunque le attività
ufficiali allestero saranno affiancate da «covert
operations», operazioni coperte di cui non deve essere
possibile risalire alla responsabilità del governo
degli Stati Uniti. Un delicato documento Nsc del 1951 (il
numero 67/3 del 5 gennaio), disponibile ancor oggi soltanto
in una redazione pesantemente mutilata dalla censura, prevede
iniziative degli Stati Uniti «mirate a impedire la presa
del potere da parte dei comunisti».
Vista dallItalia, la guerra invisibile diventa più
concreta. Francesco Cossiga ha parlato apertamente di armi
in circolazione, nel 1948, anche nella disponibilità
di civili anticomunisti. Vi erano piani segreti pronti a scattare
nel caso il Fronte popolare avesse vinto legittimamente le
elezioni. Vincenzo Vinciguerra (lautore dellattentato
di Peteano e oggi, dallergastolo volontariamente accettato,
«storico della guerra politica» italiana) ha raccontato
che il 18 aprile 1948 «nella sede centrale del Msi campeggiava
una mitragliatrice Breda 37, dotata di adeguato munizionamento»;
questa non proveniva da segreti arsenali fascisti, ma era
«fornita dallesercito italiano sulla base dei
piani di difesa (e di offesa) previsti per quel giorno».
Il blocco sovietico, daltra parte, fino agli anni Cinquanta
aveva piani dattacco e dinvasione dellItalia,
affidati allUngheria.
Ma è a metà degli anni Sessanta che avviene
una svolta. Inizia la fase del «disgelo», del
«dialogo». I due blocchi cominciano a parlarsi.
È allora che il fronte anticomunista si divide: una
parte si impegna nel confronto, punta sulla progressiva democratizzazione
del fronte avversario; unaltra invece si radicalizza,
teorizzando che le dottrine del «dialogo» e della
«coesistenza» tra i blocchi segnino non già
una minore pericolosità del comunismo, bensì
una nuova, più insidiosa offensiva. La terza guerra
mondiale, sostiene questa parte, è già iniziata,
seppure non nelle forme tradizionali del conflitto dichiarato:
il fronte comunista è allopera con mezzi politici
e psicologici. A questi bisogna contrapporsi, subito, a ogni
costo, con durezza e mezzi adeguati, sullo stesso terreno.
È una visione paranoica del nemico (che oltretutto
ha finito per spingere verso il comunismo, in tutto il mondo,
milioni di giovani che chiedevano semplicemente più
democrazia, più libertà). Ma è diventata
la teoria della «guerra rivoluzionaria» o «non
ortodossa», per lItalia messa a punto nel maggio
1965 nel celebre convegno del Parco dei Principi, organizzato
da un istituto di studi strategici finanziato dagli ambienti
militari e dai servizi segreti italiani, presenti molti appartenenti
alle gerarchie militari, accanto ad alcuni dei protagonisti,
a vario titolo, della successiva stagione di bombe e depistaggi:
Guido Giannettini, Pino Rauti, Stefano Delle Chiaie, Mario
Merlino.
La dottrina della «guerra non ortodossa» è
subito messa in pratica. Inizia la stagione dellinfiltrazione
a sinistra, delle «bombe anarchiche», delle stragi
da attribuire ai «rossi», a cui doveva seguire
la restaurazione dellordine da parte dei militari sostenuti
da gruppi di civili in armi. Stragi e progetti golpisti sono
due momenti della stessa strategia: creare disordine, per
far ristabilire lordine. A fornire il personale per
realizzare queste operazioni sono i gruppi neonazisti (principalmente
Ordine nuovo di Pino Rauti e Avanguardia nazionale di Stefano
Delle Chiaie), o gli oltranzisti anticomunisti di Edgardo
Sogno. Ma la strategia era fornita da piani militari, ben
presenti agli alti gradi dellEsercito italiano e ai
vertici dei servizi di sicurezza militare (Sifar, poi Sid)
e civile (Ufficio affari riservati del ministero dellInterno),
oltre che agli apparati Usa presenti in Italia. È il
«doppio Stato» al lavoro: i membri del grande,
invisibile, trasversale «partito atlantico» sono
soggetti a una doppia obbedienza, a una doppia fedeltà:
lobbedienza formale e ufficiale alla Costituzione e
alle istituzioni dello Stato, e quella sotterranea e segreta
alle esigenze e agli ordini (anche extralegali) dellOccidente,
in nome dellanticomunismo.
Vi è un luogo in cui il meccanismo del doppio Stato
si mostra, si rende visibile, in unanomalia strutturale
delle catene di comando politico-militari italiane: il direttore
dei servizi di sicurezza militari, da cui dipendeva la pianificazione
Stay-behind (Gladio), dal punto di vista istituzionale rispondeva
al presidente del Consiglio, oltre che al ministro della Difesa;
dal punto di vista effettivo, però, in quando capo
di Stay-behind era legato a una catena di comando esterna,
in ambito Nato, e rispondeva ai capi dei servizi di sicurezza
Usa; aveva il potere di decidere se comunicare o no lesistenza
della pianificazione al suo presidente del Consiglio e addirittura
di concedergli, oppure no, il nulla osta sicurezza: e senza
quel nulla osta non era possibile diventare capo del governo
in Italia. In questa bizzarria delle catene di comando politiche-militari
vi è la ferita alla Costituzione che fonda la sovranità
limitata dellItalia e vi è la radice del doppio
Stato.
I piani golpisti non arrivarono fino al compimento. Perché
non passò nel Paese la convinzione che le stragi fossero
«rosse» (il «per non dimenticare»,
dunque, funzionò). E perché lala oltranzista
del fronte anticomunista evidentemente non riuscì a
prevalere nel suo campo; per ragioni internazionali (fine
dellamministrazione repubblicana negli Usa nel 1974),
ma anche interne: lala moderata dellanticomunismo,
che aveva assistito alla strategia della tensione e che poi
la coprì, si accontentò del risultato comunque
raggiunto («destabilizzare per stabilizzare»).
Ma leffetto più dirompente di questa guerra invisibile
è, in Italia, la germinazione di sistemi illegali.
La necessità di vincere lo scontro con i comunisti
ha abbassato a tal punto la soglia di legalità (e forse
di coscienza dellillegalità) da permettere che
una élite politica inamovibile per ragioni internazionali
distillasse un sistema di corruzione politica, di finanziamento
illegale dei partiti, di metodica compravendita degli appalti,
di spoliazione del settore delle aziende di Stato e di taglieggiamento
di quelle private. Di più: ha reso possibili alleanze
impensabili in altri contesti, quali quelle con le organizzazioni
criminali. Particolarmente documentati i rapporti di una parte
delle istituzioni con Cosa nostra siciliana. Particolarmente
agghiaccianti i contatti avuti da alcuni politici e uomini
dei servizi di sicurezza con unagenzia criminale quale
la Banda della Magliana.
Oggi, mentre anche i protagonisti, i funzionari del doppio
Stato (come Edgardo Sogno) confessano, i teorici del revisionismo
piccolo sostengono che la guerra al comunismo era legittima,
anzi meritoria, e dunque se anche qualche errore o eccesso
è stato compiuto, il saldo è comunque positivo:
la democrazia ha vinto e il benessere è stato garantito.
Ma questa affermazione può essere fatta soltanto a
costo di una grande rimozione: delle vittime incolpevoli,
della legalità stracciata, del virus che è entrato
in circolo e ha fatto ammalare la politica. Questo rimosso
è invece ciò che oggi è «da non
dimenticare». Anche in Francia si è combattuta
la guerra invisibile, anche la Germania era terra di confine
tra i blocchi. Eppure ciò che è successo in
Italia, altrove non è accaduto: morti e feriti, depistaggi
e coperture istituzionali. Leversione non fa bene alla
democrazia, neppure se fatta in nome della democrazia: introduce
nel corpo del Paese tossine poi difficili da smaltire. È
quanto dimostra la storia attuale del nostro Paese, su cui
continuano a pesare leredità e i ricatti di un
passato nel quale ha finito per prevalere una originale commistione
di atlantismo e corruzione, affarismo e gangsterismo.
«Per non dimenticare»: bisognerà pure fare
i conti con il nostro passato recente. Se non per giudicare,
almeno per sapere che cosa è successo. Altrimenti la
rimozione vincerà e i fantasmi del passato torneranno
a farci visita, nelle notti future.
Diario, 23 gennaio 2001
La
politica visibile
e la politica invisibile
di Gianni Barbacetto
Per Roberto Franceschi
23 gennaio 1973-2003

Roberto
Franceschi (con il montgomery chiaro) a una manifestazione
a Parigi
«È un momento pericoloso per la democrazia.
A Roma in piazza San Giovanni, coi girotondi, cera
il brodo di coltura della nuova strategia della tensione».
(Alessandra Mussolini, 15 settembre 2002)
Mentre Roberto Franceschi cominciava a morire, quella sera
fredda del 23 gennaio 1973, davanti alla sua università
Bocconi, lItalia entrava nel suo inverno più
lungo. Il 1973 è lanno culmine della strategia
delle stragi, iniziata in piazza Fontana il 12 dicembre 1969.
Da quel 23 gennaio sono passati esattamente trentanni.
Oggi Roberto sarebbe uno splendido cinquantenne. Allora aveva
ventanni e come noi, suoi compagni del Movimento studentesco,
aveva deciso dimpegnarsi contro «la fascistizzazione
dello Stato», contro la restrizione degli spazi di democrazia
(perfino unassemblea pubblica nella sua Bocconi fu vietata,
quella sera; ci fu un tentativo di entrare comunque nelluniversità,
respinto dalle forze di polizia. Poi un colpo di pistola raggiunse
Roberto, alle spalle, mentre fuggiva).
Intanto la storia italiana stava raggiungendo il suo momento
più nero, più torbido. Da qualche anno si era
messo in moto un apparato eversivo che aveva nei gruppi neofascisti
(Ordine nuovo, Avanguardia nazionale) i suoi soldati,
ma con una strategia pianificata altrove, con apparati militari
attivi e silenziosi, servizi segreti impegnati a intorbidare
le acque, contatti internazionali ben impiantati, politici
di governo consenzienti. Già a metà degli anni
Sessanta la partita era iniziata. Gruppi di civili e di militari,
un esercito segreto ed invisibile, avevano cominciato la loro
guerra, teorizzata dagli alti comandi alleati e dagli apparati
dintelligence occidentali come low intensity war,
conflitto a bassa intensità, guerra non ortodossa.
Le bombe avevano cominciato a esplodere, a decine, nel 1969,
sui treni, alluniversità di Padova, alla Fiera
di Milano, nei palazzi di giustizia di Torino, di Milano,
di Roma. Colpevoli designati, gli anarchici, i rossi.
Gruppi operativi, in verità, erano i manovali di Ordine
nero e di Avanguardia nazionale. Sul finire di quellanno,
il botto finale, come in una crudele festa di fuochi dartificio:
cinque ordigni esplodono a Milano e a Roma il 12 dicembre;
uno di essi provoca, alla Banca nazionale dellAgricoltura
di piazza Fontana, 16 morti e una novantina di feriti.
Ma la festa cinica prosegue. Sette morti e 50 feriti, il 22
luglio 1970, sulla Freccia del Sud, deragliata alla stazione
di Gioia Tauro a causa di una bomba sui binari, in un attentato
che si tenta di far passare come un incidente ferroviario.
Tre carabinieri morti e uno gravemente ferito, il 31 maggio
1972, a Peteano, dove unauto imbottita di esplosivo
diventa una trappola fatale. Poi arriva il terribile 73.
Nessuna vittima sul treno Torino-Genova-Roma, il 7 aprile,
solo perché lattentatore, il neofascista Nico
Azzi, si fa scoppiare tra le gambe, per errore, il detonatore
dellordigno che stava per piazzare. Un poliziotto è
dilaniato da una bomba a mano pochi giorni dopo, il 12 aprile,
durante una manifestazione di piazza di neofascisti a Milano.
Quattro morti e 46 feriti un mese dopo, il 17 maggio, uccisi
dalla bomba lanciata da Gianfranco Bertoli davanti alla Questura
di Milano. Poi sono quattro le stragi pianificate da addebitare
ai rossi per gettare lItalia nel panico,
terrorizzare lopinione pubblica, far scattare la richiesta
di un governo forte e duramente anticomunista («Destabilizzare
per stabilizzare»). Ma nel 1974 succede qualcosa, in
Italia e nel mondo, che blocca (per il momento) la strategia
delle stragi, allenta (ma non recide) i legami tra apparati
di Stato e gruppi eversivi: delle quattro stragi pianificate,
solo un paio vanno in porto, a Brescia il 28 maggio, in piazza
della Loggia (otto morti, 94 feriti) e il 4 agosto sul treno
Italicus (12 morti, 48 feriti).
Tutte queste azioni di guerra non ortodossa erano,
negli intenti degli occulti pianificatori, il primo atto a
cui doveva seguirne un secondo: lintervento dei militari
e dei politici, per ristabilire lordine ferito. Aria
di golpe spira dopo piazza Fontana, soffia forte nella notte
della Madonna, l8 dicembre 1970, quando scendono
in campo gli uomini del principe Junio Valerio Borghese, infine
torna impetuosa tra il 1973 e il 1974, quando al partito del
golpe si unisce il partigiano bianco Edgardo Sogno.
Che cosa sapevamo, noi allora ventenni, di questi piani sotterranei,
di questa guerra segreta che nel 1973 giunge al suo culmine?
Avevamo scoperto la politica come passione, come generosità.
E cominciavamo a intuire che, mentre sulla scena si
svolgeva il balletto dei partiti, dei governi, delle dichiarazioni,
delle promesse, sotto traccia, fuori scena, la politica
dispiegava la sua faccia segreta, sotterranea, invisibile:
ob-scena (come scrive Roberto Scarpinato). I dettagli
non li conoscevamo, ma lessenza cominciava ad esserci
chiara: era in corso un lotta, una lotta mortale. Si chiamava
Guerra fredda, alcuni la chiamavano scontro tra Occidente
e Comunismo, noi la chiamavamo lotta di classe. Ma era, a
ben guardare, uno scontro asimmetrico: da una parte
la geometrica potenza degli apparati, delle loro strategie
segrete, delle loro pianificazioni; dallaltro, cittadini
inermi e inconsapevoli, colpevoli soltanto di essersi trovati
nel momento sbagliato nel salone di una banca, nello scompartimento
di un treno, in una piazza, in una stazione... Per questo
non cè, per lItalia, pacificazione possibile:
perché gli uomini, le donne, i ragazzi uccisi in quella
guerra non avevano dichiarato alcuna guerra.
Noi lo sentivamo, seppur confusamente, e volevamo dare voce
a quelle offese senza voce. Io so, scriveva Pasolini.
Noi sapevamo, ma non avevamo le parole per dirlo. Noi, i ventenni
di quegli anni complicati, ci davamo da fare con passione
travolgente perché non ci piaceva un mondo in cui le
stragi erano possibili, gli inermi cinicamente uccisi, le
belve umane indicate subito come colpevoli, al
tg della sera, da un giovane Bruno Vespa destinato a fare
carriera. Non ci piaceva un sistema in cui le ingiustizie
erano pianificate, le ineguaglianze strutturali. Ma, senza
parole per dirlo, non potevamo che affidarci, allora, alle
parole delle grandi narrazioni di unepoca che aveva
visto, per la prima volta nella storia, le grandi masse farsi
storia e tentare la via dellaffrancamento: grande, esaltante
epopea di liberazione ma, al capolinea, terribile esperienza
di potere.
Quanti fraintendimenti, in quello scontro terribile che chiamavamo
lotta di classe. I nostri avversari dicevano di voler difendere
la democrazia a ogni costo dal Moloch comunista.
Dicevano di combattere contro il Mostro sovietico. Ma invece
umiliavano i cittadini, i giovani, i lavoratori che pretendevano
non i soviet, ma semplicemente migliori condizioni di lavoro
e di studio, che chiedevano non la dittatura del proletariato,
ma un ampliamento della democrazia. Dicevano, i nostri avversari,
di combattere per nobili ideali e oggi rivendicano con orgoglio
il loro passato nero. Ma difendevano i privilegi di pochi,
si scatenavano fino al rumor di sciabole per impedire
a ogni costo la riforma del regime dei suoli
e altre moderatissime modernizzazioni, che scambiavano per
il Comunismo. Così hanno trasformato la guerra per
la democrazia in una ferita alla democrazia: la Costituzione
e le istituzioni tradite, in nome di doppi giuramenti, logge
segrete, sovranità limitate. Gli esiti sono stati devastanti:
per tenere le posizioni a ogni costo hanno umiliato
quel libero mercato che dicevano di voler difendere, hanno
depredato il patrimonio dello Stato, hanno varato un sistema
di corruzione unico al mondo, hanno stretto patti inconfessabili
con eversori di professione, mafie, bande criminali. Lanomalia
italiana che oggi vediamo dispiegata ha le sue radici in questa
storia nera.
Certo lideologia annebbiava anche noi. Chiamavamo Comunismo
la voglia di un mondo più pulito, più giusto,
o almeno un po meno ingiusto e feroce. Volevamo più
democrazia, anche se poi finivamo per considerare (anche noi,
come i nostri avversari) la democrazia solo un mezzo, uno
strumento. Avevamo ventanni, e i nostri avversari ne
avevano tanti, tanti di più. Ci sentivamo dalla parte
giusta anche con i nostri errori e in fondo continuiamo
a pensare che una appassionata e generosa parzialità
sia meglio di una olimpica assenza dai movimenti della storia.
Oggi, trentanni dopo, in un Paese normale si potrebbe
pensare con serenità a Roberto e a noi e alla storia
terribile e bellissima che abbiamo attraversato. Finito il
mondo diviso in due (lOccidente, il Comunismo) in un
Paese normale si potrebbe ragionevolmente discutere di ciò
che è successo, del perché è accaduto,
per tirare una riga e cominciare una fase nuova. Impossibile,
invece, da noi.
Dobbiamo continuare a chiedere verità e giustizia.
Dobbiamo continuare a fare i conti con sentenze che ingarbugliano
il passato, con protagonisti che continuano a mentire per
coprire responsabilità e patti inconfessabili. Dobbiamo
continuare a conservare la memoria (per non dimenticare:
programma minimo di resistenza umana e politica, di sopravvivenza
della ragione e delle buone ragioni, perfino contro il buon
senso del tempo che passa e per fortuna lenisce
almeno un poco il dolore dei famigliari e degli amici e addolcisce
la rabbia dei compagni).
Che strano Paese, il nostro. Le lapidi, i monumenti diventano
frammenti di una storia ancora contesa. E i famigliari delle
vittime si trovano a dover essere unico Paese al mondo
dove questo succede una sorta di informale partito
che chiede verità e giustizia, dialoga e si scontra
con la politica e con la magistratura. Strana categoria, quella
dei famigliari delle vittime: loro i feriti,
i parenti dei morti non dimenticano: portano scritto
per sempre nella carne o nellanima un dolore imposto
dal caso e da una politica forse impazzita, certo incomprensibile.
Sono costretti a un ruolo politico di cui avrebbero fatto
volentieri a meno. Eppure sono dimenticati, o periodicamente
insultati, o sospettati (come poi i famigliari delle vittime
di mafia): di esibito protagonismo, di essere venali per le
pretese di risarcimento, di aver fatto carriera in quanto
figli o mariti o fratelli di morti incolpevoli. Inchiodati,
anche in questo, in un ruolo che certamente avrebbero preferito
non giocare (ne ha scritto pagine drammatiche Nando dalla
Chiesa, che racconta come i famigliari delle vittime si trovino
addirittura costretti a doversi talvolta scusare per la loro
ingombrante presenza, per il peso che senza volere impongono
alla memoria collettiva; e Claudio Fava è giunto fino
a gridare la sua ribellione «contro il destino precipitato
sulle spalle di chi è rimasto, di un figlio che è
stato costretto ad assumere su di sé la morte del padre»,
«condannato a essere per sempre testimone della vita
e della violenza che lha spezzata»).
Sì, strano Paese il nostro. Vi è un luogo
fuori scena in cui il meccanismo del doppio Stato si
mostra, si rende visibile, in unanomalia strutturale
delle catene di comando politico-militari italiane: il direttore
dei servizi di sicurezza militari, da cui dipendeva la pianificazione
Stay-behind (Gladio), dal punto di vista istituzionale rispondeva
al presidente del Consiglio, oltre che al ministro della Difesa;
dal punto di vista effettivo, però, in quando capo
di Stay-behind era legato a una catena di comando esterna,
in ambito Nato, e rispondeva ai capi dei servizi di sicurezza
Usa; aveva il potere di decidere se comunicare o no lesistenza
della pianificazione Stay-behind al suo presidente del Consiglio
e addirittura di concedergli, oppure no, il nulla osta sicurezza:
e senza quel nulla osta non era possibile diventare capo del
governo in Italia. Dunque un funzionario, un dipendente
del presidente del Consiglio era in realtà il suo dominus,
colui da cui dipendeva la possibilità di diventare
presidente del Consiglio. In questa bizzarria delle catene
di comando politiche-militari vi è la ferita alla Costituzione
che fondava la sovranità limitata dellItalia,
vi è la radice del doppio Stato.
Noi, ventenni, ci siamo ribellati come abbiamo potuto al dominio
della politica fuori scena, intuendo che le pianificazioni
segrete possono essere spezzate dai cittadini che si mettono
in movimento, che irrompono sulla scena. La storia
non ha preso la piega che noi allora volevamo, ma neppure
quella pianificata dai nostri avversari. La destabilizzazione
eversiva non ha funzionato. È scattata però
la stabilizzazione del sistema, voluta dalla parte più
longimirante dei nostri avversari. E mentre lattenzione
di tutti, da una parte e dallaltra, era appuntata sullo
scontro visibile e sulla guerra invisibile, in Italia, fuori
scena, avveniva dellaltro. Germinavano sistemi illegali.
Si abbassavano le soglie di legalità. Un virus potente
infettava la democrazia. Una élite politica inamovibile
per ragioni internazionali distillava un sistema di corruzione
politica, di finanziamento illegale dei partiti, di metodica
compravendita degli appalti, di spoliazione del settore delle
aziende di Stato e di taglieggiamento di quelle private. Di
più: stringeva alleanze con le organizzazioni criminali.
Oggi, accanto al revisionismo storico sulla Shoah e sulle
grandi vicende del passato, in Italia prospera anche un revisionismo
piccolo, sui fatti del nostro dopoguerra, sui rapporti
tra politica e corruzione, tra politica e criminalità.
Il passato è conteso, il discernimento è difficile.
Qualche funzionario del doppio Stato ha confessato (come ha
fatto Edgardo Sogno in punto di morte), qualche barlume di
verità è emerso. Ma i teorici del revisionismo
piccolo sostengono che la guerra al comunismo era legittima,
anzi meritoria, e dunque se anche qualche errore o eccesso
è stato compiuto, il saldo è comunque positivo:
la democrazia ha vinto e il benessere è stato garantito.
Eppure questa affermazione può essere fatta soltanto
a costo di una grande rimozione: delle vittime incolpevoli,
della legalità stracciata, del virus che è entrato
in circolo, ha fatto ammalare la politica e ha infettato la
democrazia. In Italia, anomalia nellOccidente, ha finito
per prevalere una originale commistione di atlantismo e corruzione,
affarismo e gangsterismo. Questo rimosso è ciò
che oggi è «da non dimenticare». Se la
rimozione vincerà, i fantasmi del passato torneranno
a farci visita, nelle notti future. Ma bisognerà pure
fare i conti con il nostro passato recente. Lo dobbiamo anche
a chi non cè più, a chi è rimasto
a terra, a ventanni e potevamo essere noi al
suo posto.
(gennaio 2003)
 |
|
|