
Pio Pompa, da Abu Omar a Enzo Baldoni.
Nel numero scorso di «Diario» abbiamo ricostruito la storia – fatta di molte storie – del grande giallo dell’estate: telefoni intercettati, tabulati comprati e venduti, uomini dello Stato che si sono messi al servizio di agenzie investigative private... Tra gli spiati, comuni cittadini, imprenditori, manager. Anche nomi famosi, calciatori come Bobo Vieri, politici come Piero Fassino, banchieri come Cesare Geronzi. Gli spioni hanno orecchie anche dentro le procure, visto che sono riusciti a carpire alcuni segreti di indagini riservate, a Milano come a Roma. Questa, dunque, è una storia di soldi e tangenti, depistaggi e fughe di notizie, politica e veleni. Tutto ciò è oggetto di alcune inchieste giudiziarie: molto delicate, come si può intuire. Una di queste, nata a Milano nel 2003 per spiegare come mai i guardiani notturni di un istituto di vigilanza privata fossero spariti dai parchi cittadini, è arrivata a indagare una gran folla di personaggi, tra cui il manager della sicurezza privata Emanuele Cipriani e il dirigente della sicurezza di Telecom Giuliano Tavaroli. Nell’estate 2006, quell’inchiesta è arrivata a incrociarsi con un’altra vicenda, quella del rapimento dell’imam Abu Omar, in cui sono indagati spioni di Stato, uomini della Cia e agenti del Sismi, tra cui Marco Mancini. E ha raggiunto il momento più drammatico il 21 luglio, quando è morto Adamo Bove, dirigente della sicurezza Tim. L’inchiesta del numero scorso terminava chiedendosi: che rapporti ci sono tra quanto avveniva nella Telecom di Tavaroli e quanto accadeva nel Sismi di Mancini? Da questa domanda «Diario» riprende il racconto, limitandosi, nel mare della disinformazione e dei veleni, ai fatti finora accertati. Rilegge poi, oggi, la campagna del Sismi contro il nostro Enzo Baldoni, rapito in Iraq due anni fa.
Milano, 17 febbraio 2003. Un uomo corpulento, con una gran barba scura, verso mezzogiorno esce di casa per andare a piedi, come ogni giorno, nella moschea di viale Jenner. È egiziano, ha 40 anni, si chiama Nasr Osama Mustafa Hassan, ma è conosciuto con il suo nome religioso: Abu Omar. È in Italia come rifugiato politico, perché appartiene ai gruppi dell’opposizione egiziana, quella Al Jama’a Al Islamiya che gli Stati Uniti considerano un braccio operativo di Al Qaeda. È stato assistente dell’imam nella moschea milanese di via Quaranta, dove per un breve periodo ha guidato la preghiera, poi si è impegnato nel centro islamico di viale Jenner. Da quel 17 febbraio, nessuno lo vede più. Le cronache cittadine non se ne occupano, le preoccupazioni sono tutte interne alla comunità islamica milanese: che fine ha fatto Abu Omar?
La moglie, Ghali Nabila, presenta subito una denuncia per sequestro di persona. C’è una testimone oculare: una donna egiziana, Rezk Merfat, il 17 febbraio ha visto, in via Guerzoni, alcune persone circondare l’imam, chiedergli i documenti e poi caricarlo a forza su un furgone bianco. Ma la donna ha paura, non vuole raccontarlo alla polizia. Lo confida soltanto a un’amica. La voce arriva però all’imam di viale Jenner, Abu Imad. È lui che, il 26 febbraio, la convince «a parlare con le autorità», prima di fuggire terrorizzata in Egitto. I compagni di Abu Omar sono convinti che sia stato rapito. E sospettano i servizi segreti egiziani, o quelli americani. La polizia italiana inizia le indagini sulla scomparsa, ma per la Digos milanese Abu Omar non è uno sconosciuto: lo stanno tenendo d’occhio da tempo, perché è uno degli islamici sotto inchiesta in un’indagine per terrorismo condotta dal pubblico ministero Stefano Dambruoso. La procura indaga. Il 31 marzo porta a compimento l’inchiesta in cui era coinvolto anche Abu Omar: chiede l’arresto di un gruppo di presunti terroristi islamici, lasciando però fuori il nome dello scomparso, su cui proseguono le indagini.

Telefonate dall’Egitto. Passa un anno e l’inchiesta non fa alcun passo avanti. Ma Dambruoso continua a far tenere sotto controllo il telefono della moglie dell’ex imam. Il 20 aprile 2004, la svolta: la moglie di Abu Omar, intercettata, parla al telefono con il marito. Questi la rassicura: «Sto bene, sto bene, è tutto a posto!». Le conferma però di essere stato vittima di un sequestro. Aggiunge di essere libero, al momento, ma di non potersi allontanare dalla zona di Alessandria d’Egitto. Chiede di avvisare i «fratelli» milanesi della sua liberazione, ma senza alcun contatto con la stampa: «Nessun giornalista, mi raccomando, loro mi hanno detto così». Seguono altre telefonate. Il 10 maggio 2004 Abu Omar confessa alla moglie: «Ero molto vicino alla morte».
I carabinieri del Ros (il Raggruppamento operativo speciale) stanno intanto tenendo sotto controllo il telefono di un insegnante del centro islamico di via Quaranta, Elbadry Mohamed Reda. È a lui che, l’8 maggio 2004, Abu Omar racconta al telefono il sequestro e gli effetti delle torture: «Mi hanno portato direttamente in una base militare e da lì mi hanno messo su un aereo militare... E poi... Mi hanno infastidito con le loro domande su tante cose... Ho avuto la libertà per motivi di salute, ho avuto come una paralisi. Fino adesso non posso camminare per più di 200 metri. Sono sempre seduto. Ho avuto problemi di incontinenza, di reni, la pressione alta...». Reda riferisce poi alla Digos i racconti di Abu Omar: è stato bloccato in via Guerzoni e almeno due dei suoi rapitori parlavano italiano; rinchiuso in un furgone bianco, ha fatto un viaggio di cinque ore, dopodiché è arrivato in una base americana dove è stato interrogato e sottoposto a violenze; poi è iniziato un viaggio aereo in tre tappe che l’ha portato al Cairo; qui, nella sede dei servizi segreti, gli hanno proposto di lavorare come infiltrato: «Sarebbe stato fatto ritornare in Italia entro 48 ore... altrimenti si sarebbe assunto la responsabilità del rifiuto. Abu Omar rifiutò».
Iniziano allora torture durissime. Lo sottopongono a suoni a volume altissimo, per cui ha subìto danni all’udito. Lo chiudono in una specie di sauna e poi in una cella frigorifera, provocandogli dolori fortissimi, «come se le ossa si spaccassero». Lo appendono a testa in giù, applicandogli elettrodi nelle parti più sensibili, compresi i genitali. Dopo sette mesi d’inferno, le torture s’attenuano. Il 20 aprile 2004 lo lasciano libero, intimandogli però di non parlare con nessuno della sua brutta avventura. Ma Abu Omar non obbedisce. Telefona in Italia e parla con la moglie e con il «fratello» Mohamed Reda. Ventidue giorni dopo, il 12 maggio 2004, scompare di nuovo: da allora è detenuto nel carcere egiziano di Al Tora.
Digos e procura di Milano ora hanno anche il racconto del rapito. Ma nessuna conferma oggettiva: la cercano nelle tracce lasciate dai telefoni. Il pm Dambruoso aveva chiesto che fosse analizzato tutto il traffico telefonico avvenuto nelle ore della scomparsa nella zona di via Guerzoni. Un collaboratore del suo ufficio aveva sbagliato la data nella richiesta: aveva scritto «17.3.2003» invece che «17.2.2003». L’errore viene corretto nel giugno 2004, dopo oltre un anno, e l’analisi delle comunicazioni è portata a termine nell’autunno successivo. Con risultati clamorosi.
Caccia al telefono. C’erano alcuni cellulari, in via Guerzoni, che all’ora del sequestro comunicavano intensamente tra di loro. Con un paziente lavoro di analisi, dai 10.700 telefoni attivi in quel momento nell’area, ne vengono individuati 66 che sono collegati al sequestro. Diciassette sono presenti in via Guerzoni. Undici accompagnano l’ostaggio fino al casello autostradale di Cormano. Altri sei viaggiano insieme lungo l’autostrada Milano-Venezia, fino ad Aviano, dove c’è una nota base Usa. Un numero, che comincia per 335 e finisce per 1143, comunica con i due gruppi operativi sul campo, quello che entra in funzione in via Guerzoni e quello che prende in consegna il prigioniero a Cormano, e prosegue fino ad Aviano: è il capo. Molte di queste utenze sono in contatto con il cellulare di Robert Seldon Lady, allora capoantenna della Cia a Milano: la Digos ha fatto bingo. Ha trovato le prove che Abu Omar è stato rapito da un gruppo di uomini dell’agenzia americana.
Dodici utenze, benché intestate a società o a persone del tutto ignare, sono utilizzate da cittadini americani: si sono traditi noleggiando auto e prenotando hotel lasciando nomi, carte di credito e passaporti Usa. Alla fine dell’analisi, solo quattro numeri (tra cui quello del capo) restano anonimi. Sono individuati con nome e cognome 26 agenti statunitensi. Il 22 giugno 2005 il giudice per le indagini preliminari Chiara Nobili ordina i primi arresti. Degli americani naturalmente non c’è più traccia, ma i 26 sono ricercati, con mandato di cattura europeo, per sequestro di persona.
Individuati anche i voli usati per il trasferimento del rapito: jet executive LJ35, sigla volo Spar 92, decollato alle ore 18.20 del 17 febbraio 2003 da Aviano per la base americana di Ramstein, in Germania. Successiva partenza da Ramstein del jet executive Gulfstream, codice identificativo N85VM, destinazione Egitto. Per la prima volta, i sequestri Cia di presunti terroristi islamici in Europa – le extraordinary renditions di cui hanno scritto nelle loro inchieste alcuni giornali americani, tra cui il Chicago Tribune – trovano una documentazione precisa e puntuale. Restano aperte alcune domande: chi erano i rapitori che parlavano italiano? Un’operazione come quella di via Guerzoni poteva essere fatta all’insaputa degli apparati di sicurezza italiani?
La pista italiana. Le indagini, arrivate a una svolta così clamorosa, sono dal maggio 2004 coordinate direttamente da due tra i magistrati di maggiore esperienza della procura di Milano, i procuratori aggiunti Armando Spataro e Ferdinando Pomarici. Stefano Dambruoso ha lasciato la procura e si è trasferito a Vienna, dove lavora in un ufficio dell’Onu. Mentre cominciano a circolare i primi veleni, l’inchiesta prosegue.
La moglie di Abu Omar riferisce ai magistrati la descrizione che suo marito le aveva fatto del suo «primo sequestratore», l’uomo che lo aveva fermato in via Guerzoni e gli aveva chiesto, in italiano, i documenti: «Biondo, carnagione bianca». È biondo e chiaro di pelle anche un carabiniere del Ros il cui cellulare è individuato come presente nella zona di via Guerzoni nel momento del sequestro. Non solo: quel telefono era presente nella stessa zona e nella stessa fascia oraria anche in altre tre giornate, quelle in cui furono fatti presumibilmente i sopralluoghi per l’azione. Ed era in contatto con Robert Seldon Lady, il capoantenna della Cia. È il telefono del maresciallo Luciano Pironi, nome di battaglia «Ludwig».
Ludwig per un po’ nega tutto. Poi, il 14 aprile 2006, ammette: «Oggi intendo dire la verità. Ammetto di essere stato presente il 17 febbraio 2003 in via Guerzoni e di aver richiesto i documenti ad Abu Omar... Ero convinto di partecipare a un’operazione d’intelligence che, secondo quanto mi era stato detto da Robert Lady, era stata organizzata e preparata d’intesa con il Sismi e il ministero dell’Interno al fine di reclutare Abu Omar come fonte informativa». Il maresciallo Pironi racconta dunque di essere stato reclutato per l’azione direttamente dal capoantenna Cia. E di avervi partecipato perché sperava di guadagnarsi così l’assunzione al Sismi, il servizio segreto militare italiano. Racconta anche che l’uomo che lo porta sul luogo del sequestro «era italiano o parlava perfettamente l’italiano». Descrive il sequestro e riferisce che gli uomini del Sismi erano a conoscenza di quella che Robert Lady chiamava «operazione congiunta».
Ludwig non conosceva soltanto l’uomo della Cia a Milano. Era in buoni rapporti anche con un altro protagonista di questa storia: Giuliano Tavaroli, l’ex brigadiere dei carabinieri diventato manager della sicurezza Telecom (e indagato numero uno nell’inchiesta sugli spioni raccontata nello scorso numero di Diario). Ludwig sa degli ottimi rapporti tra Tavaroli e Marco Mancini, altro brigadiere dei carabinieri che, con carriera rapidissima, era arrivato ai vertici del Sismi; per questo chiede a Tavaroli di dargli una spinta per entrare nel servizio. Ma si sente rispondere che non è il momento, e che invece avrebbe potuto andare a lavorare con lui in Telecom. Ludwig si rende conto di essere stato usato e poi scaricato. Ma intanto si stringe il cerchio intorno agli uomini del servizio militare.

Mancini padrone del Sismi. Spataro e Pomarici cominciano a interrogare gli uomini del Sismi. E scoprono che prima del sequestro di Abu Omar, il servizio nel nord Italia aveva subìto un vero e proprio repulisti: i capicentro di Milano, Padova e Trieste erano stati sostituiti con uomini fedeli a Marco Mancini. Nel 2002, Mancini aveva convocato a Bologna i capicentro del nord Italia, a cui aveva detto che «aveva bisogno di poter fare affidamento assoluto sui suoi capicentro». A uno aveva detto esplicitamente che «tale disponibilità doveva essere estesa ad attività non ortodosse».
Alcuni funzionari accolgono con freddezza queste richieste: tra questi, il tenente colonnello Sergio Fedrico, capocentro a Trieste, e il colonnello Stefano D’Ambrosio, capocentro a Milano, uno che crede ancora nella «dignità che deve contraddistinguere un funzionario dello Stato». Cadono subito in disgrazia e sono poi sostituiti con uomini di Mancini che, già capocentro a Bologna, assume provvisoriamente il controllo di Milano e invia suoi uomini a Padova e Trieste: tutto il nord Italia (e quindi anche l’area che da Milano porta ad Aviano) è nelle mani di Mancini, spalleggiato dal suo diretto superiore, il capodivisione Gustavo Pignero.
D’Ambrosio, che è amico di Robert Lady, racconta ai magistrati le confidenze ricevute dal capoantenna della Cia: il rapimento di Abu Omar era un «progetto che era stato studiato da Jeff Castelli, responsabile della Cia a Roma e in tutta Italia, nell’ambito di precise direttive a lui impartite dagli Stati Uniti, dalla sede Cia a Langley». A Milano entra in azione un Sog (Special Operation Group), con il sostegno del Sismi. Bob Lady confessa all’amico le sue perplessità sull’operazione: «Era sciocco prelevare una persona sottoposta a ottime indagini da parte della Digos, anche perché, continuando le indagini, era possibile un continuo monitoraggio della situazione e possibile anche l’identificazione di altri complici di Abu Omar. Bob era anche molto dispiaciuto all’idea di dover tradire la fiducia della Digos che nulla sapeva di quel progetto». Il capoantenna ha anche una pessima considerazione di Marco Mancini: confida infatti a D’Ambrosio che Mancini «era un mascalzone e che, mentre io e lui operavamo nell’interesse delle nostre rispettive patrie, lui operava esclusivamente nel suo personale interesse».
Ma Mancini, sovvertendo ogni tradizione e ogni gerarchia, è diventato l’uomo forte del Sismi. Anche grazie al suo rapporto privilegiato con gli americani: «Lady mi disse che si era offerto, più di una volta, come agente doppio, per poter continuare a operare nel Sismi, ma nell’interesse della Cia». D’Ambrosio chiede una prova di questo tradimento, ma Lady non gliela può fornire, perché se fosse entrato «nel sistema informatico», dove esisteva «traccia di tutto ciò», sarebbe «rimasta traccia a lui riconducibile». La Cia, comunque, aveva rifiutato l’offerta: «Da un lato temevano che fosse una provocazione, dall’altro temevano che Mancini fosse un personaggio troppo venale».
Il capocentro di Trieste, Sergio Fedrico, aggiunge un altro elemento importante: racconta ai magistrati che il suo successore, Lorenzo Pillinini, uomo di Mancini, si era vantato davanti a suoi sottoposti di aver partecipato «al sequestro di Milano», di «aver avuto un ruolo nella vicenda». Lo aveva fatto anche davanti alla macchinetta del caffè, come confermano alcuni testimoni del centro Sismi di Trieste, fra cui una segretaria: «Sì, disse una frase del tipo “Siamo stati noi” o “Abbiamo partecipato noi”». E il maresciallo Franco Gallo: «Tutti noi presenti ci meravigliammo della leggerezza con cui le sue parole furono pronunciate... Vi fu un generale imbarazzo... Qualcuno di noi si allontanò rapidamente dal gruppetto vicino alla macchinetta del caffè e io fui tra quelli che si allontanarono, anche per evitare di apprendere notizie imbarazzanti».
Il Sismi, dunque, sapeva. Non era affatto estraneo al sequestro. Lo provano, come abbiamo visto, le testimonianze raccolte dai magistrati. Ma lo confermano i colloqui riservati tra i più alti funzionari del servizio. Con questi elementi in mano, la procura di Milano procede: il 5 luglio 2006, dunque, seconda clamorosa svolta in questa vicenda. Sono arrestati Marco Mancini e Gustavo Pignero, al momento dell’arresto entrambi direttori di divisione del Sismi; e Mancini è di fatto il numero due del servizio.
Gli intercettatori intercettati. Come hanno fatto i magistrati di Milano a registrare le conversazioni di Mancini e degli altri papaveri del Sismi? Con un meticoloso lavoro d’indagine, risalendo da telefono a telefono. Così gli intercettatori di professione sono finiti incredibilmente intercettati. E le manovre per depistare le indagini sono state ascoltate in diretta. Adamo Bove, il responsabile della sicurezza Tim, ex poliziotto della Dia (la Direzione investigativa antimafia) di Napoli, dà un importante contributo alle indagini, facilitandole dal punto di vista amministrativo (ma non è lui a rivelare i numeri da controllare, come è stato impropriamente scritto).
Prima e dopo gli interrogatori della procura, gli uomini del Sismi si telefonano per raccontarsi com’è andata e per concordare le dichiarazioni. Ma sono intercettati. Così cadono le loro manovre. Crollata la prima reazione del Sismi (negare ogni coinvolgimento), la seconda linea di resistenza è attestarsi su un cedimento parziale: ammettere di aver ricevuto la richiesta della Cia di partecipare al rapimento, ma di aver rifiutato, dopo aver capito che «era una cosa illegale». Le telefonate intercettate però smentiscono anche questa tesi difensiva (Mancini dice infatti a Pignero: «Era per prenderlo, come avevi detto tu») e fanno capire che «alcuni uomini del Sismi hanno avuto un ruolo diretto, sul campo, nello studio delle abitudini della vittima designata e dei luoghi dove il sequestro doveva avvenire»: per questo lavoro, Mancini ha incaricato alcuni dei suoi agenti, come dice al telefono a Pignero. Vengono individuati. A questo punto, dunque, è ricostruita la catena di comando verso il basso. E verso l’alto?
Anche Pollari. Il 14 luglio 2006 si apprende che è indagato anche il numero uno, il direttore del Sismi Nicolò Pollari. Interrogato dai magistrati di Milano, non risponde, appellandosi al segreto di Stato. Ma lo incastra una registrazione realizzata da Mancini il 2 giugno, quando già sentiva che le indagini gli stavano facendo terra bruciata intorno: Mancini incontra Pignero, che nel 2003 era il suo diretto superiore, e a sua insaputa lo registra. Pignero racconta che l’ordine per l’operazione era partito da Pollari, il quale a fine 2002 gli aveva consegnato «una lista in inglese» ricevuta «da Jeff Castelli, il capo della Cia di Roma». Era l’elenco delle persone da «portar via», una decina di nomi, tra cui quello di Abu Omar (domanda ancora senza risposta: sono avvenuti altri sequestri Cia-Sismi, in Italia?).
Interrogato, Pignero nega tutto. Ma quando sente la propria voce registrata da Mancini, crolla: «È tutto vero. L’ordine partì da Pollari, che mi disse di aver ricevuto la richiesta da Jeff Castelli». Un’ulteriore conferma che Pollari sapeva arriva direttamente dal suo predecessore alla direzione del Sismi, l’ammiraglio Gianfranco Battelli. Interrogato dai magistrati di Milano, Battelli racconta che prima di lasciare il servizio, nell’autunno 2001, incontrò Jeff Castelli: era da poco avvenuto l’attacco dell’11 settembre e l’uomo della Cia in Italia gli disse che l’amministrazione americana aveva avviato un piano di extraordinary renditions per catturare e trasferire in prigioni segrete, senza processo né diritto di difesa, i sospettati di terrorismo (che possono così essere torturati in outsourcing, fuori dal suolo americano). Battelli rispose di essere a fine mandato e consigliò il collega americano di riprendere il discorso con il suo successore. Lo stesso Battelli, durante il passaggio di consegne, informò Pollari di quella richiesta della Cia.
A questo punto, l’inchiesta sarebbe chiusa: la procura di Milano ha individuato gli agenti del Sismi che hanno preparato il rapimento e gli uomini della Cia che lo hanno eseguito; ha ricostruito la catena di comando, dall’ultimo maresciallo su su fino ai capidivisione e addirittura fino al direttore del servizio; ha fonti di prova pesanti, testimonianze incrociate, tabulati telefonici, intercettazioni; di più, ha perfino le ammissioni di gran parte parte degli indagati. Ma questa non è un’indagine normale.
Depistaggi. Questa è un’indagine in cui l’inquinamento delle prove e i depistaggi sono costanti. Comincia la Cia, subito dopo il rapimento: nel marzo 2003 invia alla polizia italiana (precisamente alla Direzione centrale polizia di prevenzione, da cui dipendono le Digos) una nota in cui si afferma che Abu Omar si è trasferito in una ignota località balcanica. A dir la verità, ancor prima era arrivata una nota del comando generale del Ros carabinieri che racconta, una settimana dopo il sequestro e dieci giorni prima della nota Cia, due cose false: che sarebbe stata accertata la presenza di Abu Omar all’interno del centro islamico di viale Jenner alle 13 del 17 febbraio 2003 (quando il sequestrato era invece già in viaggio per Aviano); e che l’egiziano «al momento della sua scomparsa avrebbe avuto con sé il passaporto e altri documenti, contrariamente a quanto era solito fare» (come a suggerire: l’espatrio è stato volontario; mentre invece la moglie ha testimoniato che, per evitare guai, Abu Omar girava sempre con i documenti). Da dove viene la solerte nota del Ros? È dettata dal Sismi.
Ma i magistrati di Milano scoprono che, per i depistaggi e il condizionamento della stampa, il Sismi ha un ufficio apposito, in via Nazionale a Roma. Vi lavora un ex dipendente Telecom di nome Pio Pompa, in strettissimo contatto con il direttore del servizio Pollari. Pompa continua l’eterna tradizione italiana del dossieraggio illegale: gestisce un archivio parallelo (ancora tutto da analizzare) che sfugge ai criteri di controllo e archiviazione a cui anche il servizio deve sottostare. All’ultimo piano di un anonimo palazzo di via Nazionale ci sono veline e dossier sul capo della polizia, Gianni De Gennaro. Su alcuni magistrati, tra cui Stefano Dambruoso, Armando Spataro, Edmondo Bruti Liberati. Su un buon numero di giornalisti. Su Telecom, poi, il Sismi dimostra un interesse ossessivo. Nell’ufficio di Pompa ci sono dossier su Telekom Serbija, vicenda basata su documenti «patacca» e personaggi da film di serie B, che ha però ottenuto il risultato di coprire di fango e tenere sotto scacco per anni Romano Prodi («Mortadella»), Piero Fassino («Cicogna»), Lamberto Dini («Ranocchio»), raccontati come i beneficiari di tangenti sull’acquisto di Telekom Serbija da parte di Telecom Italia. E sul Nigergate, la storia dell’uranio che dal Niger sarebbe arrivato a Saddam Hussein, basata su documenti confezionati a Roma: falsi, ma molto utili agli Usa per sostenere la necessità di attaccare l’Iraq.
Pio Pompa tiene i rapporti con molti giornalisti. Da qualcuno (come Renato Farina, fonte «Betulla») attinge notizie (anche sull’indagine milanese) o ottiene informazioni su ciò che succede dentro i giornali. In altri casi tenta di «vendere» polpette avvelenate. Per esempio un falso dossier contro Prodi – secondo cui da commissario europeo avrebbe dato il suo via libera ai rapimenti Cia – subito «bevuto» da Libero e dal Riformista.
Per intorbidare le acque e diluire le responsabilità reali del Sismi in un più generale «sono tutti colpevoli», vengono seminate notizie false secondo cui la Digos di Milano era al corrente del rapimento, tanto da aver sospeso il controllo di Abu Omar proprio per permettere l’azione. E che il Ros faceva parte del gioco. Contro il magistrato Stefano Dambruoso, poi, si scatenano anche giornalisti in altre occasioni scupolosi: lo accusano di aver coperto il sequestro, di essere il braccio degli americani dentro la procura di Milano, di avere contatti diretti con la Cia, di aver sbagliato apposta la data sulla richiesta di analisi dei dati telefonici, di essere andato a lavorare a Vienna e in seguito a Bruxelles grazie agli americani... Non è solo «guerra psicologica»: riuscire a coinvolgere nella faccenda Dambruoso significa ottenere che le indagini siano strappate a Spataro e Pomarici e assegnate alla procura di Brescia, competente per le inchieste con indagati magistrati milanesi.
Il gioco non riesce, ma i veleni circolano in dosi massicce. Qualche giornale rilancia la notizia che al sequestro di Abu Omar avrebbero partecipato due «civili», due uomini di Telecom o comunque legati all’ex manager della sicurezza Telecom Giuliano Tavaroli e all’investigatore privato Emanuele Cipriani. La procura di Milano smentisce.
C’è anche un «corvo», in questa storia, un anonimo che scrive lettere a giornalisti che seguono il caso Abu Omar e le invia da un ufficio postale di Roma Fiumicino. La prima è datata 31 marzo 2006 ed è molto ben informata: contiene già il nome di Ludwig, il carabiniere del Ros che solo il 14 aprile confesserà di aver partecipato al sequestro. Come sempre in questi casi, qualche notizia vera è ben mescolata a spazzatura e falsità. Dallo stesso ufficio postale parte anche, a luglio, una lettera di minacce a Claudio Fava, europarlamentare Ds alla guida della commissione d’inchiesta del Parlamento europeo sui voli segreti della Cia: «Attento a parlare, o farai la fine di tuo padre», dice la lettera, spedita a un indirizzo secondario di Fava, che pochi conoscono e che non compare in alcun elenco. Il padre di Claudio è lo scrittore e giornalista Giuseppe Fava, fondatore dei Siciliani, ucciso da Cosa nostra il 5 gennaio 1985. «Attento a parlare»? Fava in un’intervista al Corriere della sera aveva detto: «Pollari deve dimettersi, nell’interesse del Sismi».
L’operazione di disinformazione più insidiosa e terribile è quella che ha colpito Adamo Bove. Dal giugno 2006 viene fatta circolare con insistenza la notizia che è indagato, che è lui il responsabile delle «fughe di tabulati» da Telecom. Invece ha aiutato le indagini di Milano sul Sismi e quelle di Roma sugli spioni Telecom. Il 21 luglio Bove muore, precipitando da un cavalcavia della tangenziale di Napoli. La procura di quella città apre un’inchiesta per istigazione al suicidio.
Le bugie di Pollari. Anche il numero uno del servizio depista, intorbida, confonde. Nicolò Pollari non è una spia silenziosa. Parla, e molto. È intervenuto più volte al Copaco, il Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti, magnificando le gesta del suo servizio ed enumerando gli attentati sventati in questi anni (a Roma in piazza San Pietro, a Milano nel metrò e alla stazione Centrale, a Torino alle Olimpiadi invernali...) e le attività eversive scoperte (addirittura una «scuola di kamikaze» attiva a Milano). Quest’ultima, scoprono i magistrati di Milano, è proprio una bufala. Gli attentati sventati, chissà.
Loquace sul resto, sul rapimento di Abu Omar, invece, Pollari è di poche parole. E quelle che dice sono sbagliate. Mente al Parlamento italiano, quando afferma di non sapere nulla del sequestro. E mente al Parlamento europeo, quando è chiamato a riferire davanti alla commissione sui voli Cia presiduta da Fava e dichiara che un suo anonimo informatore gli avrebbe rivelato che non ci sarebbe stato alcun sequestro, ma solo una messinscena, perché Abu Omar era d’accordo con la Cia: dopo il rapimento, dopo le torture, anche la diffamazione del prigioniero.
Comunque sia, l’indagine sul sequestro dell’imam è conclusa. Conclusa dal punto di vista giudiziario, ma aperta dal punto di vista politico. Perché Pollari, dopo che si sono sbriciolate tutte le sue bugie, si è appellato al segreto di Stato. Sostiene che la prova della sua innocenza è contenuta in documenti coperti dal segreto. Dice ai magistrati: esistono carte che possono dimostrare «non solo la mia estraneità al fatto, ma la mia contrarietà e la mia opposizione al compimento nel territorio italiano di qualsiasi attività illegale a opera di servizi stranieri o dell’istituzione da me diretta». Però questi documenti sono segreti, così gli sarebbe impossibile difendersi.
Intanto la procura milanese ha chiesto ai responsabili politici della sicurezza, cioè il presidente del Consiglio e il ministro della Difesa, di poter avere gli eventuali documenti sul sequestro Abu Omar. Romano Prodi e Arturo Parisi rispondono che esistono carte dal contenuto imprecisato, ma sono coperte dal segreto di Stato, posto dal governo precedente.
Dal punto di vista giudiziario non è un problema: il sequestro di persona è un reato gravissimo e non c’è segreto di Stato che lo possa coprire. La Corte costituzionale ha già stabilito che l’opposizione del segreto non blocca l’indagine, se l’accusa raccoglie elementi di prova per altre vie: quello che la procura di Milano ha fatto. In più, esiste una sentenza della Corte di cassazione secondo cui il diritto di difesa non può fermarsi nemmeno davanti al segreto di Stato: dunque Pollari potrebbe già utilizzare il contenuto di quelle carte segrete.
Non lo fa. Perché vuole dare di sé l’immagine di un fedele servitore dello Stato, disposto a immolarsi pur di non infrangere il segreto. Ma anche perché vuole porre il problema politico davanti al governo. È stato nominato dal governo precedente, quello di Silvio Berlusconi, con un rapporto forte con il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta. Sono loro ad aver avallato eventuali accordi internazionali o ad aver ricevuto eventuali documenti di generica «dissociazione» dalle prassi americane a cui oggi sembra aggrapparsi Pollari. Ma il nuovo governo non sembra aver voglia di mostrare alcuna «discontinuità» con quello precedente: nei suoi comunicati, pur dichiarando rispetto per le indagini giudiziarie in corso, ha ripetutamente confermato la sua fiducia nei vertici del Sismi. E più delle dichiarazioni contano, in questo campo, i segnali: e i segnali arrivati da Arturo Parisi, da Luciano Violante, da Massimo D’Alema, dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio Enrico Micheli (incaricato dei rapporti con i servizi) non sono cattivi per Pollari.
Certo, è necessaria una grande prudenza quando si tratta di istituzioni dello Stato, quando si interviene nel campo delicatissimo della sicurezza nazionale, del contrasto al terrorismo, degli accordi internazionali con il più potente alleato dell’Italia. Ma la prudenza può essere più forte del rispetto per la Costituzione e per i diritti umani?
Il governo di centrosinistra ha buoni motivi per non sottolineare la «discontinuità». Motivi di politica internazionale: meglio non sconvolgere gli equilibri con gli americani. Motivi di politica interna: meglio non aggiungere nuovi elementi di contrasto tra le disparate componenti della coalizione. Motivi di prudenza: meglio non provocare chi ha in mano tante informazioni, tanti dossier, tante intercettazioni (comprese quelle tra l’allora presidente di Unipol Giovanni Consorte e Nicola Latorre, braccio destro di Massimo D’Alema, oggi ministro degli Esteri). Eppure, anche lasciando perdere le pendenze giudiziarie, sarebbero molti i motivi che suggerirebbero di far prevalere la «discontinuità» con l’attuale gestione del Sismi: per una spia, non sapere è perfino peggio che infrangere la legge; ebbene, è lunghissimo l’elenco delle cose che Pollari dice di non sapere.
Non sa nulla di un sequestro di persona di cui scrivono i giornali di tutto il mondo. Non sa nulla di un collaboratore, Pio Pompa, che arruola come fonti alcuni giornalisti (cosa esplicitamente vietata dalla legge), raccoglie dossier illegali, diffonde false informazioni (anche sull’attuale presidente del Consiglio). Non sa nulla dello strano commercio d’informazioni, tabulati e intercettazioni che avviene nella più grande azienda italiana di telecomunicazioni. Non sa nulla degli intrecci tra Telecom, Sismi e Cia. Non sa nulla di Telekom Serbija. Non sa nulla del Nigergate. Non sa nulla delle fughe di notizie dai tribunali, che coinvolgono indagati importanti come Berlusconi o intercettati eccellenti come Fassino a colloquio con Giovanni Consorte.
Ciò nonostante, finora ha prevalso la prudenza. Il coinvolgimento nel sequestro, i dossier di via Nazionale e i rapporti con Telecom concorrono a determinare la più grave crisi degli apparati di sicurezza in Italia dai tempi della P2. Ma il governo, un governo di centrosinistra, decide di non decidere e rimanda ogni decisione a dopo le vacanze. (Diario, 1 settembre 2006)
La prima parte dell'inchiesta:
Ogni cosa è intercettata

Sismi, la campagna d’Iraq
Certezze e domande su Enzo Baldoni, il collaboratore di «Diario» rapito due anni fa, nell’agosto 2004. E infangato dal Sismi e dalla fonte «Betulla» Renato Farina, per trenta (o trentamila) denari
Le operazioni compiute dal Sismi in Iraq sono ancora coperte da un velo di mistero. Che cosa ha fatto il servizio segreto militare prima, durante e dopo il sequestro di Fabrizio Quattrocchi e degli altri tre contractor italiani rapiti con lui? Come si è mosso durante la prigionia di Simona Pari e Simona Torretta? Come è arrivato alla liberazione di Giuliana Sgrena e alla morte di Nicola Calipari? Nell’ufficio riservato di via Nazionale a Roma, regno di Pio Pompa, i magistrati di Milano che indagano sul Sismigate hanno sequestrato molto materiale, ora al vaglio di un consulente a cui è stato imposto di lavorare nella segretezza più assoluta. Ma c’è un capitolo dell’attività del Sismi in Iraq su cui si può già sollevare qualche velo, allineando i fatti e le testimonianze oggi disponibili. E, contemporaneamente, mettendo in fila le domande che ancora restano senza risposta. È la vicenda di Enzo Baldoni, il collaboratore di Diario rapito e ucciso due anni fa.
Enzo viene sequestrato il 20 agosto 2004, mentre è alla guida di un convoglio della Croce rossa italiana che sta portando aiuti e assistenza sanitaria a Najaf, assediata dalle truppe americane. Primo giallo: la missione era partita senza autorizzazioni da Roma, sulla spinta dell’entusiasmo di Baldoni che aveva contagiato il direttore della Croce rossa a Baghdad, il suo vecchio amico Beppe De Santis? Oppure l’autorizzazione c’era, seppur solo informale, ed era legata alla possibilità di Baldoni e De Santis di portare a casa una lettera indirizzata al papa e firmata dal capo della guerriglia sciita di Najaf, Moqtada al Sadr, una missiva che accreditasse il commissario straordinario della Croce rossa Maurizio Scelli e lo consacrasse mediatore tra la guerriglia e il Vaticano?
I diversi protagonisti di questa vicenda, interrogati da Diario, su questo punto hanno finora dato risposte opposte. E perfino della relazione sulla missione, firmata da De Santis, esistono – ha scoperto Diario – due diverse versioni, una che accenna alla missiva di al Sadr «con la richiesta al commissario Cri di intercedere presso il Santo Padre»; e un’altra, più breve, che non vi fa cenno. I documenti del Sismi riusciranno a chiarire questo giallo?
Autorizzato o no, il convoglio della Croce rossa italiana tra le 11 e le 12 di quel venerdì 20 agosto viene attaccato nelle vicinanze di Latifiya, mentre sta per rientrare a Baghdad. La prima auto della carovana è quella di Baldoni e del suo autista e amico Ghareeb, ed è bloccata da un’esplosione. Il resto del convoglio, agli ordini di De Santis, appena può dà l’allarme e rientra in tutta fretta nella capitale irachena. A questo punto comincia un’incredibile campagna di denigrazione di Enzo e del suo autista, che ha come ispiratore proprio il Sismi (e come prima cassa di risonanza il commissario straordinario Maurizio Scelli).
Enzo ha passato gli ultimi giorni della sua vita sotto la bandiera considerata la più sicura al mondo, quella della Croce rossa. Durante la missione a Najaf del 19 e 20 agosto non si è mai allontanato neppure per un attimo dai mezzi e dagli uomini della Cri. Quando è stato attaccato e portato via dai rapitori è alla guida, come apripista, del convoglio di De Santis. Eppure per giorni e giorni questa semplice verità – poi ristabilita da Diario sulla base delle testimonianze degli uomini della Cri che componevano il convoglio – viene travisata da agenzie e giornali che raccontano tutta un’altra storia: Baldoni, freelance spericolato e avventato, sarebbe misteriosamente scomparso in circostanze poco chiare già da giovedì 19 agosto, mentre era a caccia di non meglio precisati scoop. Non solo: l’italiano si era messo incautamente nelle mani di un personaggio oscuro e infido, il palestinese Ghareeb, impegnato in chissà quali doppi o tripli giochi. Fonte di questa campagna di disinformazione: il Sismi e Scelli.
«Vacanze intelligenti». In prima fila, a suonare la grancassa della denigrazione, c’è Libero, il quotidiano della fonte «Betulla» (Renato Farina), forte di un rapporto privilegiato con il servizio segreto militare: definisce Enzo «un pirlacchione» e lo dipinge come un perdigiorno a caccia d’emozioni, sotto l’incredibile titolo di prima pagina «Vacanze intelligenti». Ma anche altri giornali abboccano all’amo del Sismi. Seminano a piene mani dubbi e veleni sul povero Ghareeb. E diffondono insinuazioni su Baldoni. Su Repubblica, per esempio, l’inviato Luca Fazzo domenica 22 agosto scrive: «Sono scenari ancora vaghi. Pronti a venire spazzati via se Baldoni riapparisse. “Ma a quel punto”, dice uno degli uomini che in queste ore si stanno dannando per salvarlo, “sarebbe lui a doverci qualche spiegazione”».
Luca Fazzo, abbiamo appreso oggi, era in contatto con uomini del Sismi, da Marco Mancini al capocentro di Milano. Gli «uomini che si stanno dannando per salvarlo» sono, appunto, gli agenti della «Ditta». E insinuano, attraverso Fazzo, che Enzo, una volta ricomparso, avrà il suo bel da fare per spiegare che cosa ha combinato, dove è finito, in che guai è andato stupidamente a infilarsi. Dando da lavorare agli uomini dell’intelligence, che avrebbero ben altro da fare. Si consolida così, sulle pagine di uno dei più autorevoli quotidiani nazionali, l’immagine di Baldoni «pirlacchione», poco professionale, turista per caso a caccia di emozioni. Oppure perfino peggio: imbroglione, truffatore, simulatore.
È ciò che avrà il coraggio di esplicitare il solito Libero vicediretto da Renato Farina. Martedì 24 agosto Al Jazeera manda in onda il video dell’Esercito islamico in Iraq che rivendica il rapimento e mostra il rapito. La tv araba ha come corrispondente da Roma Imad El Atrache, grande amico di Farina e, secondo questi, collaboratore del Sismi con il nome in codice di fonte «Cedro». La campagna di denigrazione non si ferma neppure davanti alla prova che Baldoni è stato davvero rapito, anzi ha uno scatto. Scrive infatti su Libero Renato Farina-Betulla: «Gli esperti dell’intelligence atlantica hanno molti dubbi su tutta la vicenda. Il volto del prigioniero non rivela contrazioni inevitabili per chi si trovi sull’orlo dell’abisso. Non appaiono intorno all’italiano uomini armati e mascherati. Potrebbe essere una recita». Ecco dunque in azione l’agente che si è gloriato di essere impegnato nella Quarta guerra mondiale, ecco in che cosa consiste la crociata rivendicata con orgoglio da Farina (e remunerata con almeno 30 mila euro): ipotizzare una messinscena per gettare fango su un giornalista coraggioso e scrupoloso.
Pino Scaccia, il giornalista Rai che ha diviso con Baldoni una parte del suo viaggio in Iraq, torna sulla vicenda nel suo blog, l’8 luglio 2006. Riporta le parole scritte da Farina nella sua lettera a Vittorio Feltri dopo la scoperta dell’agente Betulla: «Mi ricordo la tua sfuriata di quando ero andato vicino all’Iraq senza dirti nulla, e in più scrivendo un articolo sui tagliatori di teste di un camionista bulgaro vicino al luogo del delitto». Commenta Scaccia: «Ecco la perla delle perle: “Mi ricordo la tua sfuriata di quando ero andato vicino all’Iraq senza dirti nulla”. Di quando era andato vicino all’Iraq. Avete capito, è andato vicino all’Iraq. Ma che atto eroico. Vicino. Gente come noi, e siamo tanti, che dentro l’Iraq c’è stata per mesi e si è trovata fisicamente tra due fuochi, quello aberrante dei terroristi islamici e quello dell’arroganza americana, che cos’è? Altro che eroi, siamo martiri di questa professione. Pensate, siamo andati là a raccontare quello che succedeva. Non vicino, dentro. A capire non attraverso una telefonata a via Nazionale, ma con l’ardire di guardare con i propri occhi. Noi giornalisti professionisti e magari qualche freelance curioso e coraggioso come Enzo che addirittura ci va gratis. Pensate, noi due quel giorno che andiamo a Najaf per vedere da vicino perché un giovane pazzo furioso come al Sadr aveva deciso di fare la guerra a tutto e a tutti. Sentirsi una bomba sotto il sederino, tremare insieme in una stradina cieca per le cannonate. Sul filo del rischio... Finalmente forse ho capito quel pezzaccio di Farina contro Enzo: invidia, semplicemente invidia». Invidia, ma rinforzata dai 30 mila euro che facevano di Betulla un fedele soldato agli ordini di Pio Pompa e Nicolò Pollari, direttore del Sismi.
Finale di partita. Poi, due giorni dopo, arriva la notizia finale. Nella tarda serata di giovedì 26 agosto 2004, intorno alle 23.30 italiane, Al Jazeera comunica di aver ricevuto un video sull’esecuzione del giornalista, che non trasmette per rispetto e per non urtare la sensibilità degli spettatori. Nelle redazioni dei quotidiani si vivono momenti concitati: bisogna scrivere in fretta per rispettare i tempi di chiusura. Intorno a mezzanotte e mezzo le agenzie di stampa cominciano a mettere in circolazione alcune informazioni. Nel video di Al Jazeera «vi sarebbero immagini confuse di una colluttazione conclusasi con l’uccisione dell’ostaggio mediante colpo di arma di fuoco», recita un dispaccio dell’Ansa delle 00.30. All’una e 32 la stessa agenzia precisa, sempre al condizionale, che la colluttazione sarebbe una «probabile conseguenza di una reazione estrema dell’ostaggio qualche attimo prima dell’esecuzione».
Diario ha accertato che, nelle stesse ore, fonti del Sismi accreditavano la stessa tesi attraverso i loro abituali canali di comunicazione con i maggiori quotidiani italiani. Il giorno dopo, venerdì 27, soltanto il Corriere della sera dà risalto alla tesi del video in cui Enzo si ribella ai suoi rapitori e soccombe. Quel giorno circolano anche altre notizie: «Un’autorevole fonte dei servizi segreti» rivela all’Ansa che la liberazione di Enzo sembrava cosa fatta, ma poi «tutto è precipitato per un fatto imprevedibile avvenuto in loco».
Dunque: il Sismi stava per liberare Baldoni, ma lo sciocco, ribellandosi ai suoi carcerieri, ha rovinato tutto e si è fatto uccidere. Naturalmente è tutta una menzogna: non esiste alcun video dell’esecuzione, ma solo un fotogramma del corpo di Enzo; non vi è stata alcuna drammatica colluttazione, nessuno ha notizie di tentativi di fuga. Tutto falso, ma tutto accuratamente messo in circolazione dai nostri specialisti in fango e disinformazione. La smentita, seppur indiretta, arriva dal ministro degli Esteri Franco Frattini, il quale riferisce al Parlamento che l’ambasciatore italiano in Qatar, Giuseppe Buccino, aveva potuto vedere negli studi di Al Jazeera non un video, ma un singolo fotogramma, probabilmente lo stesso che sarà poi messo in rete su un sito dell’Esercito islamico il 7 settembre.
Sabato 28 settembre, su Repubblica, Carlo Bonini accusa esplicitamente i servizi di aver diffuso la notizia del video per accreditare la tesi dell’evento imprevisto che fa saltare le proficue trattative in corso. La bufala sembra ormai sgonfiata. Ma Betulla continua, anzi esagera. Su Libero, il vicedirettore descrive il video della colluttazione con dovizia di particolari: «Verso le 18 di giovedì, alla scadenza dell’ultimatum, Enzo viene bendato... Baldoni si strappa la benda, getta la kefiah palestinese che gli avevano messo indosso. E si batte... mentre Enzo si contorce e grida, gli sparano alla schiena, alla testa». Farina aggiunge che, a questo punto, «il filmato non va più bene alla propaganda», quindi i rapitori mandano ad Al Jazeera soltanto «un fotogramma». Ma se il video non è stato mandato alla tv araba, allora chi è riuscito a vederlo per raccontarlo a Farina? E come ci è riuscito?
La bufala, in tutta evidenza, non sta in piedi neppure dal punto di vista logico, ma a Farina e alla «Ditta» non importa: la disinformazione è realizzata, il fango è gettato. Betulla ha portato a termine la sua missione, in nome dell’Occidente cristiano, del papa e dei suoi trenta, o 30 mila, denari. Il Sismi, che in questo sequestro non è riuscito neppure a capire che cosa stesse accadendo, ne esce con l’aria di chi era a un passo dalla liberazione dell’ostaggio, impedita da un Baldoni che rovina tutto a causa della sua irruenza e dabbenaggine.
Così Enzo e Ghareeb sono stati uccisi due volte: una dai terroristi, la seconda dai loro denigratori. Che cosa c’entra la Quarta guerra mondiale e il sacro fuoco di Betulla in lotta contro il terrorismo, con il fango, la calunnia e l’oltraggio gettati su un giovane italiano sequestrato e ucciso dai terroristi? Il pio Farina, compiuta la sua missione, non ne parlerà più e riprenderà a scrivere d’altro, senza fermarsi mai.
Non a lui, ma a chi dentro il servizio ha ancora il senso delle istituzioni, chiediamo: che cosa è davvero successo in Iraq e a Palazzo Braschi, sede del Sismi, nell’agosto 2004? Perché si è voluto infangare Enzo? Chi sono i registi dell’operazione? Perché l’aria poi cambierà, per fortuna, quando a essere rapite saranno le due Simone e Giuliana Sgrena? E perché è morto Nicola Calipari?
La prima parte dell'inchiesta:
Ogni cosa è intercettata
