«Le cliniche degli orrori?
Il vero orrore è il sistema sanitario»
Scandali a catena. Truffe a ripetizione. Inchieste e arresti. Sono la prova che i controlli non funzionano. E che la sanità di Formigoni è malata. Parola di Giuseppe Santagati, il manager che scoprì e denunciò lo scandalo delle ricette d'oro. Per questo fu cacciato. Fanno carriera, invece, i manager coinvolti negli scandali. Anche quelli condannati
«Ora tutti abbiamo visto all’opera la “clinica degli orrori”. Ma quello della Santa Rita di Milano è un caso limite: il vero orrore, ogni giorno, è il nostro sistema della sanità. È questo che poi crea le cliniche degli orrori». Il giudizio, netto e senz’appello, è di uno che se ne intende: Giuseppe Santagati, avvocato amministrativista, è da vent’anni manager della sanità a Milano. Degli scandali negli ospedali parla con cognizione di causa, perché è lui che ha scoperto la madre di tutti gli scandali. Era il 1996 e allora quelle che oggi si chiamano Asl (aziende sanitarie locali) si chiamavano Ussl (unità socio-sanitarie locali). Ebbene, Santagati era direttore generale dell’Ussl 39, Milano sud e paesoni dell’hinterland, per territorio la seconda della Lombardia. Un bel giorno di marzo, entrò trafelata nel suo ufficio una dottoressa dell’Ussl, Tiziana Zuliani,: «A costo di autodenunciarmi, devo dirle che ho firmato una ricetta irregolare, ho fatto una prescrizione non legittima».
Che cosa aveva mai fatto la dottoressa Zuliani? Aveva prescritto un esame medico complesso, chiamato Spect, non rimborsabile dal servizio sanitario. Con qualche timbro in più, lo aveva fatto diventare rimborsabile. Poi si era pentita ed era corsa dal capo. Santagati capì subito che non si trattava di un fatto isolato. Aprì un’inchiesta interna. E scoprì che lo Spect e tanti altri esami erano regolarmente prescritti da molti medici, dietro pressanti sollecitazioni, e adeguati compensi, di un ras della sanità milanese, Giuseppe Poggi Longostrevi, padrone di cliniche e laboratori d’analisi. Era una truffa gigantesca: molti miliardi di lire di denaro pubblico allegramente rubati. Che cosa fece Santagati? Invece di voltarsi dall’altra parte, o di pretendere la sua parte nel banchetto, raccolse le sue carte e andò a consegnarle al procuratore della Repubblica Francesco Saverio Borrelli. Nacque così quello che fu chiamato lo “scandalo delle ricette d’oro”.
700 medici coinvolti, 175 condannati. E fine drammatica per Poggi Longostrevi che, lasciato solo da tutti, anche da quelli che avevano permesso la sua resistibile ascesa, nel settembre 2000 si tolse la vita. Non prima di aver confermato di aver dato soldi e regali a tanti, medici e funzionari. Settanta milioni anche a Giancarlo Abelli, da decenni uno dei padroni della sanità in Lombardia, contemporaneamente consulente di Longostrevi e consigliere del presidente della Regione Roberto Formigoni: «Dovevo tenermi buono un personaggio politico che nel settore contava molto. Per me pagare Abelli era come stipulare un’assicurazione», aveva spiegato Longostrevi. E poi aveva aggiunto: «Alcuni sono stati costretti alle dimissioni solo per un sospetto, altri sono stati premiati con la nomina ad assessore». Abelli, in effetti, divenne prima assessore di Formigoni e ora è addirittura parlamentare del Pdl. Processato, fu assolto da una sentenza che però puntualizza: «La consulenza, non effettiva, mascherava un versamento in denaro al politico per guadagnarne i favori».
«Sa che cosa successe invece a me?», chiede oggi Santagati. Ebbe un premio, per aver fatto risparmiare alla Regione un pacco di miliardi? «No. Fui cacciato. Sostituito al vertice della mia ex azienda (ironia della sorte o scelta calcolata?) da un mio omonimo: Santagati Giuseppe, stesso nome e stesso cognome». Santagati, quello vero, continua: «Dalle “ricette d’oro” (1997) alla “clinica degli orrori” (2008) c’è in mezzo un decennio che è stato un susseguirsi di scandali. Solo gli ultimi e solo quelli avvenuti a Milano: San Carlo, otto arresti per truffa al sistema sanitario nazionale; San Siro-San Donato, sequestrate centinaia di cartelle, modificate (secondo l’accusa) per ottenere maggiori rimborsi; San Pio X, centinaia d’interventi di chirurgia estetica praticati su malati di Aids; San Raffaele-Ville Turro, due medici arrestati per una presunta truffa presso il Centro del sonno. L’elenco potrebbe continuare. È mai possibile? È evidente che qualcosa non funziona nel sistema».
Le storie si ripetono all’infinito. Ogni volta ci sono fatture gonfiate, dichiarazioni false, piccoli interventi chirurgici fatti passare per operazioni più grosse. Oppure interventi pagati, ma mai fatti. O, ancora, eseguiti, ma del tutto inutili e a volte anzi dannosi. Cambiano i protagonisti e le tecniche, però la sostanza resta uguale: «La Regione paga, butta i nostri soldi. Come fanno a ripetere che la sanità lombarda è la migliore d’Italia? Hanno trasformato gli ospedali in un supermercato: ed è una gara a offrire le cure più costose, non importa se utili o no. Uno entra per una visita ed esce con un trapianto. L’interesse del sistema è il profitto dell’imprenditore della sanità, non la salute del paziente».
Ma la Regione non controlla? «Se a scandalo segue scandalo, è evidente che i controlli non funzionano», risponde Santagati. «Sono i fatti a dimostrarlo. Il modello lombardo, il modello Formigoni, ha trasferito ingenti risorse dagli ospedali pubblici alle cliniche private. La Regione paga, alla fine, le prestazioni di tutti. Così, nel migliore dei casi, spinge a dare sempre più prestazioni, e a scegliere quelle più costose. Nel peggiore dei casi, quando entra in scena un medico disonesto, le prestazioni saranno anche inutili, oppure dichiarate ma non eseguite».
Santagati ha proposto di sottoporre anche le aziende sanitarie all’obbligo di revisioni contabili, come le aziende private: «Almeno avrebbero revisori dei conti indipendenti e non, come oggi, di nomina politica». Ma ora sono di moda proposte che vanno nella direzione opposta. Santagati agita una pagina del Sole 24 ore: «Giuseppe Rotelli, padrone di molte cliniche private milanesi, propone che anche gli ospedali pubblici diventino società per azioni. Per aumentare la loro efficienza, dice. Ma quale efficienza, in un mercato protetto in cui, alla fine, è sempre la Regione a pagare? Diventando società per azioni, gli ospedali sfuggirebbero anche all’unico controllo che oggi funziona, quello della Corte dei conti. Ma le cose vanno avanti così. Tutti s’indignano per gli orrori e non vedono (o non vogliono vedere) il sistema che genera quegli orrori».
Strano anche il metodo di selezione dei manager della sanità. Cacciato Santagati, che aveva scoperto la truffa, restano quelli che non si accorgono di niente. Resta, per esempio, Antonio Mobilia, ora direttore generale del San Carlo, ma prima direttore dell’Asl 1 da cui dipendeva la Santa Rita degli Orrori: le intercettazioni telefoniche hanno dimostrato i suoi stretti rapporti d’amicizia con il proprietario della clinica, Francesco Paolo Pipitone. Mobilia era già stato indagato, nel 1999, per sospetti favoritismi a un fornitore, ma era poi stato prosciolto.
Restano ai vertici degli ospedali lombardi perfino i manager già condannati per scandali del passato. Come Vito Corrao e Pietro Caltagirone, entrambi con sulle spalle una sentenza per falso e abuso d’ufficio nel processo che in un primo tempo aveva coinvolto anche Mobilia. Condannati, eppure entrambi premiati: Caltagirone con un posto di direttore generale all’ospedale di Lecco, nominato nel 2007 dal presidente Formigoni in barba alla legge nazionale sulla sanità che esclude dai ruoli dirigenziali chi ha subìto sentenze di condanna. Una provvidenziale delibera della giunta regionale lombarda ha stabilito i criteri per le nomine in terra padana, dimenticando d’inserire falso e abuso d’ufficio tra i reati che impediscono di diventare direttore generale. Così anche Corrao, dopo la condanna, è stato nominato da Formigoni direttore generale del Gaetano Pini, che ha lasciato solo per passare al vertice di un ospedale privato, il San Giuseppe.
Santagati ormai non se la prende. Il suo ultimo incarico è stato quello di revisore dei conti al Niguarda, il più grande ospedale milanese, ma non lo hanno riconfermato. Ora aspetta di entrare al Gaetano Pini, ma su questo deve pronunciarsi addirittura il Consiglio di Stato.
Il venerdì di Repubblica, 11 luglio 2008
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