Raffaele Lombardo, il Bossi del sud
È il gemello separato in culla di Totò Cuffaro. Ora ne eredita il potere e si allea con B.
Sono gemelli separati in culla, Salvatore Cuffaro e Raffaele Lombardo. Ora che il primo si è dimesso da presidente della Regione Sicilia, dopo aver ricevuto una condanna a cinque anni in primo grado per favoreggiamento a personaggi legati alla mafia, il secondo è il candidato naturale a prendere il suo posto. Forse anche al vertice della Regione, se tramonteranno le candidature concorrenti (da Angelino Alfano a Stefania Prestigiacomo). Certamente al vertice del sistema di potere costruito in Sicilia da Totò Cuffaro. Chi meglio di Lombardo può cambiare tutto senza che nulla cambi?
Quanto a carattere non potrebbero essere più diversi, Totò e don Rafè. Espansivo e gioviale Cuffaro, sempre a baciare tutti, a stringere mani e a offrir cannoli. Ombroso e gelido Lombardo, che fa politica dando del lei e fissando l’interlocutore con uno sguardo impenetrabile. Ma dietro la scorza così differente, i due restano gemelli. Sono figli di un solo padre, Calogero Mannino, il leader della Dc siciliana che si era messo in mente di ereditare il potere andreottiano nell’isola. Mannino non c’è riuscito. Ce l’hanno fatta i suoi figli politici. Prima Cuffaro, ora Lombardo.
Don Rafè, catanese, studia dai salesiani, diventa medico e si specializza in psichiatria forense. Dalla Dc transita prima nel Ccd di Pierferdinando Casini, poi nell’Udc, di cui diventa segretario regionale in Sicilia. Ma ad un certo punto si costruisce un partito su misura, una forza politica tutta sua, una macchina da guerra acchiappavoti: l’Mpa, il Movimento per le autonomie. Alle ultime elezioni siciliane, nel 2006, conquista il 13 per cento, dieci parlamentari nell’Assemblea regionale e tre assessori in giunta. Alle politiche stringe una strana alleanza con la Lega di Bossi e ottiene cinque deputati e due senatori. Nella sua collezione ha anche 80 sindaci, 97 assessori e 288 consiglieri nei municipi, 21 assessori e 39 consiglieri nelle Province.
La sua base è a Catania, dove raccoglie il 20 per cento dei voti. Lì, dal 2000 al 2003, è stato vicesindaco, poi presidente della Provincia. C’è nato, nella Sicilia orientale: a Grammichele. Oggi, a 58 anni, ha la grande occasione della sua vita: diventare il numero uno dell’isola, ottenere il controllo totale di quel sistema di potere che lui, Cuffaro e gli ex democristiani hanno costruito nell’isola, bagnando il naso anche ai ragazzotti rampanti di Forza Italia. Un sistema fatto di nomi e di posti, promesse e favori.
È il momento della rivincita, per don Rafè. Era assessore agli Enti locali quando fu travolto da Tangentopoli: arrestato un paio di volte per storiacce di malapolitica. La prima volta nell’aprile del 1992. Accusa: abuso d’ufficio, perché la sua segreteria avrebbe rivelato in anticipo ad alcuni candidati (guarda caso proprio quelli poi risultati vincitori) i temi di un concorso per entrare in una Usl di Catania. Condanna in primo grado, assoluzione in appello.
Nel luglio 1994 don Rafè cade la seconda volta. In buona compagnia: con Rino Nicolosi, Salvo Andò e Antonino Drago (ovvero tre dei massimi leader politici siciliani di quegli anni) viene arrestato per corruzione, con l’accusa di aver fatto ottenere all’ex presidente dell’Inter Ernesto Pellegrini un succulento appalto per la fornitura dei pasti a un ospedale di Catania. In cambio di altrettanto succulente tangenti: per 5 miliardi di lire. I magistrati lo accusano anche di associazione per delinquere: Lombardo e i tre big della politica siciliana farebbero parte, secondo l’ipotesi d’accusa, di un comitato d’affari che gestisce la sanità catanese.
Come va a finire? Pellegrini ammette le sue colpe e patteggia una condanna a due anni di carcere per corruzione. Lombardo e gli altri escono invece indenni dalla vicenda: per i giudici, i 5 miliardi incassati non sono una tangente per ottenere l’appalto, ma un generico regalo elargito da un imprenditore generoso. Il reato non è più corruzione, ma finanziamento illecito ai partiti: reato già prescritto al momento della sentenza. Quanto all’associazione per delinquere, assoluzione piena: il comitato d’affari per i giudici non è mai esistito.
Così, tra un processo e l’altro, Lombardo si è comunque fatto una quaresima di qualche anno, lontano dalla politica. Poi, risolti bene o male tutti i guai giudiziari, torna ai vertici dell’Udc. Fa il segretario regionale, il consigliere e l’assessore, il vicesindaco, il deputato europeo, il presidente della Provincia, il presidente dell’Unione delle Province siciliane. Ma cura soprattutto la sua rete di contatti, rapporti, clientele. Molti siciliani hanno buoni motivi per essergli grati: ha deciso i nomi di direttori generali della Regione, ha fatto arrivare ai vertici manager delle Asl, ha pilotato nomine negli assessorati provinciali e comunali, ha seguito con attenzione lo sviluppo della Fondazione Banco di Sicilia, ha avuto influenza su tante assunzioni delle aziende pubbliche siciliane, degli Istituti autonomi case popolari, dei consorzi di bonifica, delle cooperative... Lui non bacia, come Totò Cuffaro. Ma stringe tante mani, annota nomi, accetta richieste. Fa politica.
Don Rafè è il Bossi della Sicilia. O almeno tenta di esserlo. Il suo Mpa si presenta come una specie di Lega del Sud. Pronta a pescare anche nell’acqua dell’antipolitica. Lombardo non ha il fisico né la verve di Beppe Grillo, eppure dichiara a Panorama: «La gente è stufa del solito teatrino della politica!». Questo nelle intenzioni. Nella realtà l’Mpa è un vascello corsaro da far navigare nei mari aperti tra destra e sinistra, tra piccole formazioni e grandi partiti, pronto ad accordi d’ogni colore, purché convenienti per l’ammiraglio don Rafè. Le trattative e gli accordi, in verità, sono tutti a destra: con la Lega di Bossi, con la Dc di Rotondi, con l’Udc di Cuffaro, con la Forza Italia di Miccichè.
Certo che fiuto ne ha, don Raffaele. Ha fatto in Sicilia, anni prima, quello che Silvio Berlusconi sta facendo solo oggi: inventare un nuovo contenitore per attirare i voti in libera uscita dal centrodestra, per accalappiare i delusi di Forza Italia. Silvio ha inventato i Circoli di Michela Vittoria Brambilla e un partito nuovo di zecca, il Popolo della libertà. Lombardo il suo Mpa l’ha lanciato già nel 2005, annusando, prima di tutti, la crisi di Forza Italia e la delusione di una parte degli elettori berlusconiani.
È vera competizione con Berlusconi, la sua? In parte sì, in parte no. Sulla conquista dei voti e sul controllo dei centri di potere nell’isola la guerra è senza quartiere. Ma per il resto, è gioco delle parti. Berlusconi, quando era al governo, ha lisciato il pelo a Lombardo: «L’avrei voluto ministro della Salute, ma lui mi ha detto di no». In realtà il no veniva dall’allora segretario dell’Udc, Marco Follini. A don Rafè una poltrona di ministro, della Salute o magari del Mezzogiorno, sarebbe andata benissimo. Non gli è arrivata per colpa di quello che allora era l’Harry Potter dei neodemocristiani. E lui si vendica. Innalza la bandiera del federalismo, dell’autonomismo siciliano, dello sviluppo del turismo, dell’incremento delle infrastrutture («Sarà l’era del Ponte!», proclama), dei privilegi fiscali («Vogliamo in Sicilia zone franche», chiede). E dà vita al Movimento per le autonomie.
Ma l’Mpa non è l’unica sigla lanciata da Lombardo, grande inventore di contenitori politici attiravoti: per le elezioni comunali a Catania del 2005 di liste se n’è inventate ben quattro, ottenendo quasi 35 mila voti e quattro assessori, uno per lista. Per calamitare elettori, del resto, Lombardo è un fenomeno. Ha una macchina di consenso capillare ed efficiente. Promette posti di lavoro, la stabilizzazione dei precari di Catania, duemila assunzioni al centro Etneapolis... E coinvolge la gente nei quartieri, attraverso i patronati, sorta di sindacati privati e informali che offrono consulenze e aiuto. Devi scrivere una lettera? Vuoi compilare una domanda? Hai bisogno di un documento o di un permesso? Gli uomini di don Rafè ti danno una mano. Specialmente nei mesi che precedono le elezioni.
I risultati sono buoni. La lista degli “amici” di Lombardo si allunga. E ora, dopo anni di lavoro duro, è giunto il momento di raccogliere i risultati. Il gemello diverso, l’amico Cuffaro, si è fatto da parte. Andrà a Roma. In Sicilia resta don Raffaele, senza cannoli, senza coppole, senza folklore. Tutto politica. Politica alla siciliana.
(Il venerdì di Repubblica, febbraio 2008) |
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