La prima volta di Silvio in banca
Berlusconi ha nel tempo corteggiato, comprato, conquistato pezzi crescenti del mondo imprenditoriale, delle professioni, dello spettacolo, dello sport, ha espugnato la politica, ha calamitato il consenso di milioni d’italiani. Ma la finanza no. Ora è entrato anche in quel mondo. Ecco come.
«Noi siamo amici dei cittadini, la sinistra invece è amica dei banchieri». Era l’11 aprile 2008 e Silvio Berlusconi sparava i suoi ultimi fuochi d’artificio di una campagna elettorale che da lì a poco lo avrebbe riportato trionfalmente al governo. Quella battuta non era la prima, sul tema sinistra dei banchieri contrapposta alla sua destra di popolo. E non era neppure soltanto esibizione di populismo: era sintomo di un vecchio risentimento, sedimentato da anni. Contro un mondo, quello della finanza, che lo ha sempre escluso, tenuto a distanza, trattato con sufficienza. Berlusconi ha nel tempo corteggiato, comprato, conquistato pezzi crescenti del mondo imprenditoriale, delle professioni, dello spettacolo, dello sport, ha espugnato la politica, ha calamitato il consenso di milioni d’italiani. Ma la finanza no, restava un mondo dove era straniero. Silvio, paradossalmente, si è sempre trovato a casa sua più nella Roma della politica che nella Milano delle banche.
Ora invece Berlusconi ha rotto il muro: è diventato lui il vero “amico dei banchieri”. Ma che fatica. Anni d’incomprensioni e di stilettate. Ha più volte rimarcato che i grandi banchieri nel 2005 erano corsi a votare alle primarie che incoronarono Romano Prodi candidato (poi vincente) del centrosinistra. Certamente alle primarie votarono Alessandro Profumo, Corrado Passera, Pietro Modiano. Profumo (Unicredit) e Modiano (Intesa-Sanpaolo) tornarono nel 2007 a votare anche alle primarie per Walter Veltroni, tanto da far scattare la stizza, questa volta, di Giulio Tremonti: «La sinistra sta dalla parte dei grandi banchieri, e i grandi banchieri stanno dalla parte di Veltroni e hanno fatto la coda per votare alle primarie del Pd, figuriamoci alle “secondarie”. Ma a noi, dei grandi banchieri non c’è ne frega un cavolo». Marina Berlusconi in un’intervista al Corriere chiosò: «Non è una questione di banchieri di sinistra, quanto di banche di sinistra. È una constatazione innegabile il fatto che la sinistra abbia un’influenza massiccia su settori importanti dell’economia, dalle coop alle polizze al credito. È questo il vero conflitto di interessi».
Il risentimento di Berlusconi nei confronti della finanza viene da lontano. Racconta Alberto Statera che correva la primavera del 1979 quando Silvio, emergente palazzinaro milanese, osò bussare alla porta dei salotti buoni del capitalismo italiano, allora presidiati, dal suo fortino di Mediobanca, dal silenzioso Enrico Cuccia. Lavorando di sponda, Berlusconi fece arrivare a Cesare Merzagora, allora presidente delle Generali, la notizia che aveva intenzione di comprare un posto nel consiglio d’amministrazione della compagnia, mettendo sul tavolo una trentina di miliardi di lire per il 3-4 per cento delle azioni del Leone di Trieste. Erano ancora lontani i tempi in cui un Ricucci qualsiasi poteva lanciare la sfida ai salotti buoni. Merzagora, infatti, quasi non credeva che un parvenu dalle incerte origini, costruttore di palazzine nell’hinterland milanese, osasse fare una richiesta simile. Incaricò allora Enrico Randone, l’amministratore delegato, di fare qualche verifica.
Appurato che davvero il palazzinaro ci stava provando, mise nero su bianco la sua risposta, «a scanso di equivoci e perché rimanga ben chiaro nei nostri archivi il mio punto di vista». La lettera fu infatti diligentemente conservata dalle Generali nell’archivio privato del presidente ed è quindi giunta fino a noi: «Desidero anzitutto ringraziarla», scriveva Merzagora, «per il tatto e la cortesia coi quali Lei ha impostato il problema chiedendoci, prima di diventare nostro grosso azionista e poi eventualmente Amministratore, se la cosa sarebbe stata gradita alla Compagnia». Qualche sgarbo alla grammatica, ma cordialità verso l’interlocutore. La cordialità dura però poche righe, perché subito dopo arriva l’affondo: «Le rispondo subito che, evidentemente, non avremmo nulla in contrario se il suo nome si aggiungesse ai 36.589 azionisti che abbiamo attualmente. Sarei però reticente se non Le aggiungessi per debito di chiarezza che il nostro Consiglio non ha mai desiderato avere nel suo seno costruttori. Inoltre, Lei sta diventando sempre di più anche un grosso personaggio politico ed infatti Lei ha offerto gentilmente a Randone il suo appoggio con i Suoi eccellenti amici di Roma, non pensando che a noi questi rapporti non interessano e che anzi di essi facciamo volentieri a meno. Come Lei sa, noi siamo una società internazionale di risparmio privato, che deve stare attenta fra l’altro a non attirarsi, nemmeno indirettamente, discussioni e polemiche con grossi nomi di amministratori; in questo campo siamo stati e saremo sempre molto guardinghi, non aprendo le porte a prestigiosi personaggi della finanza e dell’industria, ed ancor meno del bosco o del sottobosco politico».
Servito in dieci righe. Come palazzinaro, e come politico incipiente (già nel 1979!). Berlusconi prese e portò a casa, come si dice a Milano. Da allora lasciò perdere la finanza e continuò a coltivare i rapporti con la politica, finché non si fece politica egli stesso. Vent’anni dopo, nel 2001, fu Vincenzo Maranghi, l’erede di Cuccia in Mediobanca, a tentare di far entrare Silvio nelle Generali, attraverso la fusione tra la compagnia triestina e la Mediolanum di Ennio Doris (e Silvio Berlusconi). Ma fu respinto con perdite dall’allora presidente del Leone, Gianfranco Gutty.
Venticinque anni dopo, nel 2005, nuovo assalto, anche se più sgangherato e laterale. A tentare il colpo sono i furbetti delle tre scalate, Gianpiero Fiorani e Stefano Ricucci, Chicco Gnutti e Gianni Consorte, che provano a conquistare Antonveneta, Bnl e Rcs. Quest’ultima preda è il fortino da cui è poi possibile partire per ulteriori avventure: verso l’obiettivo Mediobanca e infine, chissà, verso Generali. Certo, gli scalatori lavorano in proprio, non per Berlusconi, ma a Silvio devono essere brillati gli occhi quando ha intravisto la possibilità di poter finalmente mettere le mani su quei salotti buoni che in passato l’avevano respinto: i furbetti si prestavano infatti a fare da arieti, ma nei varchi aperti poi passano i furboni. Gli scalatori, del resto, hanno certamente avuto contatti con il mondo berlusconiano. L’advisor di Ricucci nell’operazione Rcs è una vecchia conoscenza del Cavaliere, l’ex amministratore delegato della Fininvest Ubaldo Livolsi. Fiorani, prima di lanciare la scalata, va a Villa Certosa a presentare il suo progetto, con tanto di slides e regalo per il padrone di casa: un cactus pesante e pungente. Gnutti è a cena con Berlusconi proprio la sera in cui sembra che i furbetti ce l’abbiano fatta. Ma Silvio non si fa coinvolgere troppo. Fa il tifo per gli scalatori (come d’altra parte Massimo D’Alema e Piero Fassino), rilascia qualche dichiarazione di sostegno e per il resto sta a guardare: se gli scalatori vinceranno sarà anche una sua vittoria, se perderanno avranno perso solo loro.
Hanno perso, come sappiamo. Ma per Berlusconi non è un gran dramma. Anche perché tre anni dopo arriva la vera svolta. L’inizio della rivincita. A scendere in campo, questa volta, non sono improbabili furbetti, ma volponi di lungo corso.
La svolta
In Italia la finanza è tradizionalmente duale. A Milano ci sono i banchieri laici, calvinisti, eredi della tradizione di Raffaele Mattioli e in rapporti con l’industria del Nord. A Roma c’è la finanza cattolica e papalina, che vive in simbiosi con la politica. Detta così, naturalmente, è una semplificazione, perché nella realtà non esistono il bianco e il nero perfetti, ma solo un’infinita gradazione di grigi. Comunque è una semplificazione che è finita per sempre, perché oggi la finanza romana è penetrata a Milano. La svolta inizia nei primi mesi del 2007. Il campione della finanza romana, Cesare Geronzi, era già riuscito a guidare la metamorfosi della sua Banca di Roma diventata Capitalia. Ma guarda più in là, punta a espugnare il più buono dei salotti buoni, Mediobanca. È vero che questa non è più, come ai tempi di Cuccia, l’unica banca d’affari italiana, centro di tutto il sistema della finanza e dell’industria delle grandi famiglie del Nord, ma resta comunque unica e insostituibile come luogo d’incontro di un capitalismo che è ancora un capitalismo di relazioni. Geronzi, che di relazioni se ne intende, lo sa e punta lì. Il primo progetto prevede, direttamente, la fusione tra Capitalia e Mediobanca. Ha buoni sponsor, bipartisan come si conviene: il banchiere fai-da-te Fabrizio Palenzona, ex dc e vicepresidente di Unicredit, e Massimo D’Alema, evidentemente non scottato dal tifo per i furbetti. Eppure non riesce neppure a decollare.
Va meglio il secondo progetto, la fusione Capitalia-Unicredit. Profumo, il numero uno di Unicredit, sta a Geronzi come il giorno alla notte, come Milano a Roma: figurarsi, Profumo non vuole aver niente a che fare con la politica ed è perfino uscito da Rcs perché sostiene che i banchieri i giornali li devono solo leggere, non esserne editori. Geronzi, invece, la politica l’ha sempre finanziata, i giornali politici (di destra e di sinistra) li ha generosamente foraggiati e proprio sui rapporti (bipartisan) con la politica ha costruito il suo potere. Ma alla fine il milanese non può fare a meno di cedere e accettare l’ingombrante compagno che viene da Roma: da una parte perché D’Alema e Palenzona questa volta devono essere stati convincenti, dall’altra perché in Italia era appena avvenuto un matrimonio importante, quello tra Intesa e Sanpaolo, che aveva dato vita alla più grossa banca italiana. Di fronte al nuovo colosso, Profumo si è sentito costretto a rispondere convolando anch’egli rapidamente a nozze: con una sposa magari non proprio illibata, ma chi si sposa ha sempre la speranza che il matrimonio cambi le persone e la vita.
Così Geronzi è planato a Milano: non per fermarsi in piazza Cordusio, dove ha lasciato la sede Unicredit nelle mani di Profumo, ma per spostarsi qualche strada più in là, in piazzetta Cuccia. Il peso in Unicredit gli serve per essere catapultato al vertice di Mediobanca. Obiettivo raggiunto. Svolta storica nella finanza italiana. Ma attenzione: non ha mica fatto il viaggio per niente. Geronzi non s’accontenta dell’onore di occupare le stanze dove lavorava Cuccia. Parte così nell’estate 2008 una manfrina che sembra tecnica e astrusa, ma che è invece di grande sostanza: vuole riportare Mediobanca alla governance tradizionale, ponendo fine al sistema duale (che separa la proprietà, rappresentata nel consiglio di sorveglianza, dalla gestione, realizzata dal consiglio di gestione). A Geronzi, insomma, non basta fare il presidente del consiglio di sorveglianza, senza poter influire anche sulla gestione di Mediobanca. E senza contare anche nelle società di cui Mediobanca è azionista, da Rcs (che sceglie per esempio il direttore del Corriere della sera), a Generali (di cui Cuccia diceva: «Come è caduto l’impero romano, potrà cadere anche Mediobanca; ma le Generali mai, perché sono il vero tesoro di questo paese»). Dopo una dura battaglia, Geronzi vince e Mediobanca abbandona il duale, seppur lasciando le deleghe operative ai manager, Renato Pagliaro e Alberto Nagel. Lui, il banchiere venuto da Roma, è presidente e componente del ristrettissimo comitato esecutivo (nove membri).
Resterebbe da spiegare al governatore della Banca d’Italia Mario Draghi (e magari anche ai clienti) come faccia Geronzi a fare il numero uno di una banca in cui probabilmente non sarebbe neppure assunto come dipendente, visto il suo curriculum giudiziario (condannato in primo grado per il crac Italcase-Bagaglino, è stato assolto in appello; e ora dovrà essere processato per il crac Cirio e anche per il crac Parmalat: è stato infatti rinviato a giudizio per estorsione, per aver venduto a caro prezzo a Calisto Tanzi la Eurolat di Sergio Cragnotti). Si sa però che in Italia le disavventure giudiziarie non sono macchie, ma medaglie da appuntare sul petto.
Un piccolo esempio concreto di che cosa significhi l’arrivo di Geronzi a Milano è fornito dalla vicenda dei debiti della Roma calcio. Una società praticamente decotta, con 380 milioni di euro di rosso nei confronti delle banche. Quali banche? Banca di Roma, naturalmente, ai tempi in cui Geronzi sistemava gli affari con un occhio ai conti e l’altro alla politica. Poi Banca di Roma è diventata Capitalia, e Capitalia è diventata Unicredit. Così oggi gran parte dei debiti della Roma Calcio sono nei confronti di Unicredit. Ma niente paura: la società ha comunicato di aver affidato la gestione del debito a un advisor: Mediobanca. Non è incredibile? Geronzi, alfa e omega, è all’inizio e alla fine del debito della Roma. Ecco in che gioco dei quattro cantoni è capitato Profumo, con buona pace del suo principio guida del «creare valore per gli azionisti», peraltro seriamente messo alla prova anche dalla crisi finanziaria.
Atto secondo
Meno di un anno dopo, ecco andare in scena il secondo atto del dramma. Dal suo sontuoso ufficione affrescato di via Monte di Pietà, l’amministratore delegato di Intesa Corrado Passera dimentica il suo apporto alle primarie e scommette sulla caduta di Prodi. A fine 2007 s’impegna infatti in un piano Alitalia alternativo alla vendita ad Air France già conclusa dal governo Prodi. Giovanni Bazoli ed Enrico Salza, i presidenti di Intesa e di Sanpaolo, si oppongono e bloccano il progetto. Ma subito dopo, nel gennaio 2008, Prodi viene impallinato davvero e il governo cade. A questo punto Passera rilancia la sua idea di cordata italiana e con questo permette a Berlusconi di riaprire i giochi, incentrando la sua campagna elettorale sulla difesa dell’italianità della compagnia di bandiera.
Ci aveva già provato Bruno Ermolli (a cui piace pensare di essere il Gianni Letta di Berlusconi a Milano) a mettere insieme una cordata tricolore per Alitalia. Ma non era riuscito a battere chiodo. Passera, che per il posto in cui opera ha invece davvero rapporti con gli imprenditori, ci riesce, ottenendo molti risultati in una volta sola. Uno: si conquista la riconoscenza eterna di Berlusconi. Due: risolve i problemi di un suo cliente, Carlo Toto, a cui sistema AirOne dentro la nuova Alitalia. Tre: si rende finalmente autonomo dal presidente di Intesa Bazoli, messo per la prima volta in un angolo dal suo pupillo diventato ormai più forte di lui. Bazoli ha da sempre un rapporto fortissimo con Romano Prodi e non condivide le mosse del suo amministratore delegato. Ma in questo caso non può fiatare, anche perché in difficoltà dentro la banca a causa della crisi da brivido che ha nel frattempo investito il suo amico Romain Zaleski, il finanziere franco-polacco della Carlo Tassara.
Così tra il 2007 e il 2008 il vento berlusconiano ha dato una bella ripassata ai due campioni dei “banchieri di sinistra”, Profumo e Bazoli che, con due diversi principi scritti sulle loro bandiere (creare valore per gli azionisti, il primo; la banca al servizio del paese, il secondo) hanno costruito i due più grossi gruppi bancari italiani. Profumo, tenuto oltretutto sotto scacco per mesi durante le fasi più cruente della crisi finanziaria, deve convivere con Geronzi. Bazoli, rimasto senza Prodi, deve coabitare con l’ex pupillo Passera, che ha scoperto che il servizio al paese spesso coincide con i servizi al governo.
Si può dire che Geronzi sia il cavallo di Troia di Berlusconi nel sistema della finanza? No, Geronzi, prima che berlusconiano, è geronziano. Fa parte di quei poteri che hanno l’ambizione di sopravvivere ai cambi di stagione della politica. Ma certo ora Berlusconi sa di avere una sponda – e che sponda – dentro quei salotti che avevano rifiutato, tanti anni fa, il palazzinaro dalle incerte origini. Una sponda che rafforza la presenza in Mediobanca di altri due amici, il cinematografaro franco-tunisino Tarak Ben Ammar e il finanziere francese Vincent Bolloré. Ora Marina Berlusconi è finalmente a suo agio quando si siede tra i consiglieri d’amministrazione di piazzetta Cuccia, quel Cuccia che invece, da vivo, a Berlusconi riservava «epiteti irriferibili», come ha testimoniato signorilmente Sandro Gerbi.
E Passera? Da prodiano si è fatto berlusconiano? Anche in questo caso è arduo attribuire patenti politiche a chi si muove in reti di relazioni complesse e multiple. Per di più in un mondo in cui è molto attivo un ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, che è andato allo scontro con Draghi e con le banche (dalla Robin tax fino al tentativo d’imporre i prefetti come controllori del credito), riuscendo a ritagliarsi una posizione di potere autonoma anche da Berlusconi. Certo che Berlusconi ha un debito di gratitudine enorme nei confronti di Passera, senza il quale non avrebbe potuto far decollare la nuova Alitalia di Roberto Colaninno.
Che il clima nella finanza milanese sia cambiato è dimostrato anche dal ribaltone avvenuto nell’aprile 2009 alla Banca Popolare di Milano, dove il presidente Roberto Mazzotta – che non è mica comunista, proviene dalla grande tradizione democristiana – ha dovuto lasciare il posto a Massimo Ponzellini. In questo caso sono stati determinanti i rapporti di forza interni e gli schieramenti sindacali. Ma anche qui il vento berlusconiano ha almeno aiutato a coagulare assetti prima impensabili. Ora Ponzellini è al vertice della banca milanese, restando presidente anche di Impregilo. Sì, perché nel paese dei conflitti d’interesse Ponzellini arriva proprio da Impregilo, cioè dalla società di costruzioni in cui grossi azionisti sono un imprenditore e finanziere che è passato dal craxismo al berlusconismo (Salvatore Ligresti) e il re delle autostrade (Marcellino Gavio) che ai rapporti con Berlusconi unisce una consolidata consuetudine a collaborare con il mondo dei Ds e delle cooperative rosse.
Le elezioni europee e poi la vicenda escort hanno mostrato a Papi Silvio le prime crepe del suo successo nel paese, proprio mentre è invece all’apice del successo nei poteri, finanza compresa. Poiché i poteri annusano l’aria e mantengono sempre relazioni multiple, è possibile che si apra ora una fase nuova. Giulio Tremonti, Pierferdinando Casini, Gianfranco Fini, Luca Cordero di Montezemolo hanno già cominciato a pensare il dopo-Silvio.
(Micromega 4/2009, giugno 2009)
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