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Sicilia, il ritorno degli “americani”

Cosa nostra, la sconfitta dei Corleonesi e la rivincita degli "scappati", i Bontate, gli Inzerillo, tornati in Sicilia dopo un lungo esilio negli Stati uniti. E adesso l'organizzazione...

 

Questa storia inizia come una favola e finisce come un film dell’orrore. «C’era una volta», dunque: sì, c’era una volta uno splendido hotel liberty, con ricchi stucchi e grandi lampadari. Nelle sue stanze Richard Wagner aveva composto l’ultimo atto del Parsifal. Settant’anni dopo il passaggio del musicista, gli stucchi e i lampadari del Grand Hotel et des Palmes di Palermo furono testimoni di una riunione storica. Era l’ottobre del 1957 e nei saloni dell’albergo si ritrovarono insieme alcuni siciliani eccellenti e alcuni personaggi arrivati dall’America. I siciliani erano Giuseppe Genco Russo da Mussomeli, Vincenzo Rimi da Alcamo, Cesare Manzella da Terrasini e, da Palermo, Rosario Mancino, Mimì La Fata, Calcedonio Di Pisa, Nicola Gentile; gli “americani” si chiamavano Lucky Luciano, Giuseppe Bonanno detto Joe Bananas, Albert Anastasia, Charles Orlando, Frank Garofalo, John Bonventre, Joe Di Bella, Santo Sorge, Carmine Galante detto Lillo the Cigar...

Allora la mafia non esisteva. Gli incontri che ci furono tra il 10 e il 14 ottobre al Delle Palme (i siciliani lo chiamano così) furono chiacchierate tra vecchi amici, forse tra uomini d’affari che operavano sulle due sponde dell’Atlantico. Ebbero un influsso positivo sul clima della città: placarono certi scontri, ridussero certi conflitti. C’erano stati, prima di quegl’incontri, duecento morti ammazzati per le strade di Palermo. Dopo, tornò una certa calma. In verità, un altro morto ammazzato ci fu, e fu una scena da film: Albert Anastasia, appena tornato in America dopo il summit al Delle Palme, il 25 ottobre 1957 finì i suoi giorni crivellato a colpi di mitra mentre si faceva sbarbare nel barber shop dello Sheraton Park Hotel di New York. Agli altri non erano piaciuti certi suoi atteggiamenti. Era diventato «un arrabbiato davvero fuori di testa», aveva sentenziato Lucky Luciano. Ma quelli alla barberia dello Sheraton furono fuochi di guerra che servivano per fare la pace. Una pace ormai necessaria, per avviare buoni affari tra le due sponde dell’oceano.
Storie vecchie? Archeologia della mafia, buona al massimo per farci qualche film? No. Il “discorso dell’America” riempie oggi le conversazioni (intercettate) dei mafiosi siciliani. Il ritorno degli “americani” a Palermo è già in corso. E potrebbe essere il futuro di Cosa nostra.

Ma allora, nel 1957, la mafia non esisteva. Nessun giornale aveva mai raccontato un’organizzazione segreta che gli affiliati chiamavano “la Cosa nostra”. Era sconosciuto perfino il suo nome. Eppure l’anno successivo, in Sicilia, successero due cose, una visibile, l’altra invisibile. Quella visibile: fu eletto sindaco di Palermo un certo Salvo Lima, mentre un tale Vito Ciancimino divenne assessore alle aziende municipalizzate, poi ai lavori pubblici e infine diventò egli stesso sindaco; seguirono gli anni del “sacco di Palermo”, l’edificazione selvaggia della città, con grandi arricchimenti. Quella invisibile: nacque a Palermo la commissione provinciale di Cosa nostra, l’organismo che i giornali molti anni dopo chiameranno “la cupola”, che serviva a comporre pacificamente i conflitti tra le famiglie e a decidere democraticamente i grandi affari e i grandi delitti, quelli che coinvolgevano più famiglie.

L’alleanza tra siciliani d’America e siciliani di Sicilia ebbe in seguito alterne fortune, ma raggiunse il suo culmine negli anni Settanta, quando Cosa nostra divenne la più potente organizzazione criminale del mondo, e la più ricca: impiantò cinque raffinerie di morfina base in Sicilia che lavoravano a pieno ritmo, conquistò il monopolio dell’eroina, fece profitti immensi con il commercio della polvere bianca esportata negli Stati Uniti, il mercato più ricco del mondo. Erano diversi, i siciliani e gli “americani”. Quelli di qua erano riservati e spartani. Quelli di là, figli di emigranti, erano invece spesso sbruffoni ed esibizionisti, avevano fatto i soldi con i casinò e perfino con le “buttane”, business che la tradizione siciliana proibisce. Quando dovevano ammazzare qualcuno, lo facevano con un certo gusto teatrale: come quando Santino Inzerillo fu trovato morto stecchito nel bagagliaio di una Cadillac con in bocca i suoi genitali e un rotolo di dollari. Eppure gli “americani”, così diversi e così uguali ai loro padri e ai loro nonni, conservavano il culto delle radici e rispettavano i “cugini” di Sicilia, da cui tutto era nato.

Alle soglie degli anni Ottanta, gli affari andavano a gonfie vele. C’erano pacchi di eroina che viaggiavano dalla Sicilia verso l’America e valigie piene di dollari che volavano dall’America fino a Palermo. Cosa nostra continuava a non esistere, anche se stava vivendo la più splendida delle sue stagioni. Ricca e terribile: aveva in mano gli affari e la politica (grazie a Ciancimino e a tanti amici importanti a Roma). Era così potente da potersi permettere di far fuori, senza subire troppi danni, i pochi che si opponevano al suo potere: pochi e isolati. Così ammazzò il capo della Squadra mobile di Palermo, Boris Giuliano, e il capitano dei carabinieri Emanuele Basile. Eliminò i “nemici” dentro i partiti, di maggioranza e d’opposizione: i democristiani Michele Reina e Piersanti Mattarella (che si opponevano agli “amici” Lima e Ciancimino) e il comunista Pio La Torre. E uccise i rari magistrati che pensavano che invece esistesse, Cosa nostra: Pietro Scaglione, Cesare Terranova, Gaetano Costa, Rocco Chinnici. Infine trucidò il prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa. Era il 3 settembre 1982. Un crescendo libanese, o colombiano, fatto di kalashnikov, tritolo, auto-bomba.

Intanto, però, dentro Cosa nostra era successo qualcosa. Erano saltati gli equilibri. Era scoppiata una guerra di mafia. Succede, in Sicilia. Era successo nei primi anni Sessanta (la “prima guerra di mafia”). Poi nei primi anni Ottanta era arrivata la “seconda guerra di mafia”. Gli uomini più potenti dell’organizzazione erano allora Stefano Bontate, Gaetano Badalamenti, Salvatore Inzerillo. Bontate, detto il “principe di Villagrazia”, era un palermitano elegante e non privo fascino. Fu ucciso il 23 aprile 1981. L’11 maggio toccò a Inzerillo. A sparare fu sempre lo stesso kalashnikov. Che cos’era successo? I corleonesi avevano cominciato l’attacco ai palermitani. Gli uomini di Totò Riina e Bernardo Provenzano avevano iniziato la loro scalata al potere dentro Cosa nostra. In tre anni ci furono mille morti e trecento scomparsi per lupara bianca. Intere famiglie furono sterminate. Nella mattanza morirono 15 Inzerillo, 21 Badalamenti. Per salvarsi c’era solo la fuga. E molti fuggirono: negli Stati Uniti, dai “cugini” americani. Da quel giorno furono, semplicemente, “gli scappati”.

Ormai sono passati 25 anni dalla mattanza e dalla grande fuga. Di acqua n’è passata molta sotto i ponti. Si sono consumate due stagioni. La prima, quella corleonese e stragista di Totò Riina ’u Curtu. Sì, i “viddani”, i contadini di Corleone, si sono impossessati di Cosa nostra. Riina è diventato il dittatore di una organizzazione criminale sì, ma prima di lui abituata a decidere a maggioranza. Ha scatenato una guerra mai vista: tritolo per Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (1992) e poi attacco allo Stato portato per la prima volta “in continente”, con le stragi del 1993 a Firenze, Roma, Milano. Risultati? Lo Stato ha dapprima aperto con Cosa nostra una trattativa sotterranea e ancor oggi segreta, poi ha reagito, catturando Riina e tutti i suoi fedelissimi, Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Pietro Aglieri, Filippo e Giuseppe Graviano e tanti altri, seppelliti al carcere duro sotto una montagna di ergastoli.

La seconda stagione è quella di Bernardo Provenzano ’u Tratturi. Fallita la strategia stragista, Binnu ha perseguito la strategia della sommersione. Ha fatto tornare invisibile Cosa nostra, ha fatto tacere le armi per far riprendere alla grande gli affari. Ma anche lui è stato preso, l’11 aprile 2006, tra le ricotte di contrada Montagna dei Cavalli. Prima di essere arrestato aveva però cominciato, insieme a Salvatore Lo Piccolo, la grande svolta: tornare al 1957, mettere insieme le forze dei siciliani e i soldi degli “americani” per far tornare grande Cosa nostra.

Tornare al 1957 vuol dire far tornare a casa gli “scappati”. «Di questi qua non deve rimanere sulla faccia della terra nemmeno il seme», disse Riina. Ma la strage non fu completa. I superstiti delle famiglie perdenti, i figli e i nipoti degli Inzerillo, dei Badalamenti, degli Spatola, dei Di Maggio e di tutti gli altri hanno trattato una resa senza onore e hanno avuto salva la vita a patto di non rientrare in Sicilia. Mai più. Responsabile di questo patto è Saruzzo Naimo, che veglia perché sia rispettato. Loro, gli “scappati”, in America si sono sistemati. Hanno ripreso gli affari e si sono integrati con le famiglie della Cosa nostra americana, i Gambino di Cherry Hill, i Geraci e i Lo Jacono del New Yersey...

«Ma negli ultimi anni», racconta un investigatore palermitano, «la diplomazia ha lavorato. Si sono moltiplicati i viaggi Palermo-New York. Molti “americani” sono venuti in Sicilia, molti siciliani sono andati in America». Salvatore Lo Piccolo, boss di San Lorenzo, si è dedicato con impegno al ritorno degli “scappati”: per far tornare grande Cosa nostra, per rilanciarla nei grandi traffici internazionali dopo la sconfitta della strategia corleonese. Lui, Lo Piccolo, aspirante capo dei capi dopo la cattura di Provenzano, fa parte dello schieramento dei corleonesi di Riina che hanno sterminato gli avversari – spiega il magistrato di Palermo Maurizio De Lucia – ma proviene dalle stesse famiglie degli “scappati”: era l’autista di Saro Riccobono, che fu trucidato insieme ai “perdenti”. Così, due decenni dopo, non gli viene difficile riallacciare i rapporti. Suo figlio Claudio Lo Piccolo, 29 anni, Rolex d’oro sempre al polso, già nel 2005 vola a New York a incontrare Tommaso, 36 anni, l’erede dei Gambino. Un incontro tra figli che non rivangano il passato di sangue, ma progettano un futuro di “piccioli”: soldi e affari.

Dall’America è venuto in Sicilia Frank Calì, rispettato imprenditore di Brooklyn. Vacanze, ufficialmente. Ma non è proprio la spiegazione che convince Nino De Santis, un poliziotto che parla poco e ascolta molto, a capo della sezione criminalità organizzata della Squadra mobile di Palermo. Del resto, intercettato a Torretta, un paese da cui si domina l’aeroporto di Palermo, Frank Calì diceva preoccupato: «Troppi sbirri in giro». Poi la sua visita è stata ampiamente ricambiata, visto che sono andati a trovarlo più volte, a New York, Nicola Mandalà della famiglia di Villabate, Gianni Nicchi di Pagliarelli, Vincenzo Brusca di Torretta.
 
Le aperture diplomatiche dei Lo Piccolo sono però viste come il fumo negli occhi dai corleonesi doc: come Nino Rotolo e il suo luogotenente Gianni Nicchi. Nicchi, 26 anni, astro emergente di Cosa nostra, è tra quelli che vanno sì in visita da Frank Calì, ma non si fanno incantare. Non dimenticano il passato. Temono che gli “americani”, una volta tornati, possano vendicarsi. E qualche Inzerillo è già tornato.

Il “discorso dell’America” appassiona gli uomini di Cosa nostra, li impegna in discussioni e scontri. «Questi Inzerillo erano bambini», dice Rotolo intercettato, «e poi sono cresciuti. Questi ora hanno trent’anni. Come possiamo noi stare sereni? Se ne devono andare. E poi uno, e poi l’altro e l’altro ancora... Devono starsene in America... Se vengono in Italia li ammazziamo tutti. Come possiamo stare, noi, sereni quando io so per esempio di un tizio che dice a uno dei figli di Inzerillo: “Non ti preoccupare, tempo e buon tempo non dura sempre un tempo”». Il proverbio suona come una promessa di ritorno, un annuncio di vendetta.

«Noialtri non è che possiamo dormire a sonno pieno, perché nel momento che noi ci addormentiamo a sonno pieno può essere pure che non ci risvegliamo più. Se questi alzano la testa, le prime revolverate sono per noi... Vero è, picciotti, che non è finito niente: gli Inzerillo i loro morti li hanno sempre davanti. Ci sono sempre le ricorrenze, si siedono a tavola e manca questo e manca quello. Queste cose non le possiamo scordare. Questi se ne devono andare, punto e basta. Non c’è Dio che li può aiutare. Ce ne dobbiamo liberare e così ci togliamo il pensiero... Questa storia non finisce, non finirà mai...».

Rotolo non fa mistero delle sue opinioni. Lo predica ai suoi, ma lo sibila con qualche licenza sintattica anche agli interessati: «Tu sei il nipote di Totuccio Contorno», dice ad Alessandro Mannino, «e Totuccio, con altri, senza ragione alcuna sono venuti a cercarci per ammazzarci... Ci hanno cercato e ci hanno trovato: peggio per loro. Non siamo stati noi a cercarli. La responsabilità è di tuo zio e compagni, se ci sono morti e se ci sono carcerati... Quindi i tuoi parenti devono rimanere all’America, devono rimanere sempre reperibili. Ai tuoi parenti garanzie non le può dare nessuno. I tuoi parenti se ne devono andare e ci devono fare solo sapere dove vanno: perché noi li dobbiamo tenere sempre sotto controllo».

Da una parte Lo Piccolo, che tratta con gli “americani” per rilanciare i grandi affari internazionali di Cosa nostra. Dall’altra Rotolo, che li minaccia. Così i viaggi e la diplomazia si mischiano con la voce delle armi. Gennaio 2006: scompare nel nulla Giovanni Bonanno, famiglia di Resuttana. Giugno 2007: viene riempito di piombo Nicola Ingarao, capomandamento della Noce (è il primo morto di mafia dopo 15 anni di calma). Luglio 2007: a Partinico cade crivellato Giuseppe Lo Baido. Ottobre 2007: a Borgetto viene ammazzato Antonino Giambrone. «Omicidi chirurgici», spiegano i poliziotti. Azioni d’assestamento per tornare all’antico, alla Cosa nostra di Bontate, con amici di qua e di là dell’oceano.

Adesso però entrambi i protagonisti di questo contrasto sono finiti dietro le sbarre: Nino Rotolo nel giugno 2006, Salvatore Lo Piccolo e suo figlio Sandro la mattina del 5 novembre 2007. Merito soprattutto degli uomini di Cono Incognito, per tutti Nuccio, 38 anni, capelli a spazzola, capo della sezione catturandi della Squadra mobile di Palermo. Ora il “discorso dell’America” resta sospeso e con esso il destino di Cosa nostra, rimasta senza capi autorevoli a Palermo. Gli uomini d’onore aspettano. Rimuginano il proverbio: “Tempo e buon tempo non dura sempre un tempo”.

(GQ, novembre 2007)

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